sabato 5 novembre 2011

Una nuova edizione di "Fotografia e inconscio tecnologico" di Franco Vaccari

A parlare di inconscio ottico della fotografia, dello spazio "rielaborato inconsciamente" fu Walter Benjamin. Il concetto è poi stato ampiamente ripreso dalla critica d'arte americana Rosalind Krauss (in Italia potete trovare molte sue opere nel catalogo Bruno Mondadori, incluso il fondamentale L'inconscio ottico a cura di Elio Grazioli). Fotografia e inconscio tecnologico (a cura di Roberta Valtorta, Einaudi, pp. XXXII+110, euro 17) è naturalmente strettamente legato all'inconscio ottico di cui ha scritto Benjamin. Il libro è giunto alla sua terza edizione, dopo quelle del 1979 e del 1994. Bello ricordare che la prima edizione uscì per la casa editrice meteora denominata Punto e virgola, fondata dal grande Luigi Ghirri (modenese, proprio come Vaccari) assieme alla moglie Paola Borgonzoni e Giovanni Chiaramonte. Per rispondere alla legittima domanda su che cosa sia l'inconscio tecnologico che, rispetto all'inconscio di Benjamin ha polarità sullo strumento e non più sull'umano, Vaccari adopera questa frase: "Non è importante che il fotografo sappia vedere, perché la macchina fotografica vede per lui".

Vaccari è teorico e artista. Celebre la cabina Photomatic (simile a quella delle stazioni dei treni) che alla Biennale di Venezia del 1972 invitava i passanti a lasciare una traccia del proprio passaggio con un annuncio multilingua affidato ad un cartello. Già qui appaiono chiare alcune implicazioni fondamentali del suo fare e teorizzare fotografia (forse in nessun'arte, più che in fotografia, il totale overlapping tra teoria e pratica è all'ordine del giorno). Cade la rilevanza della rappresentazione, del "momento decisivo", cardine della fotografia di Cartier-Bresson, a favore di un concetto di traccia ("Lascia una traccia fotografica del tuo passaggio").

Ho ravvisato due passaggi dove la sua riflessione si fa più densa. Li riporto qui sotto:

“I nuovi mezzi di registrazione, che penetrano così addentro ai fatti e ne frantumano le strutture, hanno fatto esplodere il concetto di Storia che è diventato assolutamente incapace di rendere conto dell'enorme complessità dell'accadere.
La parola Storia è carica di una violenza diventata assolutamente insopportabile, la violenza di una memoria grossolana che si ricorda solo di ciò che è a dismisura d'uomo.” (Dal saggio Fotografia e parola.)

E poi il seguente:

"Come in una cura omeopatica, dove col simile si tenta di cacciare il simile, è la stessa fotografia a provocare un tipo di consapevolezza nuova, capace di decongestionare lo sguardo, dopo averne provocato la congestione." (Dal saggio Archeologia dello sguardo.)

Il libro conta una ventina di saggi brevi, a volte fulminei. Vaccari tocca davvero moltissimi aspetti della teorizzazione contemporanea (potere, pornografia, pittorialismo, il mercato, il fondamentale rapporto tra fotografia e parola e fotografia e didascalie, ready-made e l'imprescindibile Duchamp).

Alcuni momenti della prosa di Vaccari restano appiccicati agli occhi del lettore, come il seguente: "Se il fascino della fotografia sta nella sua capacità di evocare il mistero di una presenza attraverso un'assenza, quello del ready-made consiste nell'evocare un'assenza attraverso la presenza". Oppure quando propone la discarica dei rifiuti come modello dell'attuale situazione dell'informazione, visto che qui "si realizza il massimo di varietà e imprevedibilità locale e con un massimo di omogeneità e di indifferenziazione complessiva". Oppure, ancora, quando in La fotografia tra teologia e tecnologia passa rapidamente in rassegna l'inflazione delle immagini e il conseguente assottigliarsi del valore di verità, come a dire che la quantità di prove di esistenza che abbiamo accumulato abbia contribuito a inceppare lo sguardo. Non a caso, poco più in là, nel saggio Apollo e Dafne: un mito per la fotografia Franco Vaccari scrive: "[...] contrariamente a quanto hanno sempre creduto i pittorialisti di ogni epoca, una fotografia è tanto più tale quanto maggiore è il grado di referenzialità che, invece di essere un limite, ne costituisce l'onore. È proprio sull'umile referenzialità fotografica, invece che sull'enfasi spettacolare della realtà virtuale, che possiamo contare per tenerci in contatto con il reale, con la memoria e con gli affetti e cercare così di impedire che la vita si mortifichi e si disperda in rappresentazioni arbitrarie". 

Fotografia e inconscio tecnologico è un libro breve molto bello, composto di rapidi saggi che si tengono per mano, pur nella varietà dei temi trattati. Saprebbe coinvolgere più pubblici, anche al di fuori della fotografia. Ho riportato alcuni passaggi-assaggio perché credo ci accompagnino efficacemente all'interno di queste pagine.

1 commento:

  1. Grazie! Bella recensione, grazie per aver ricordato Luigi Ghirri nel suo blog... e non è la prima volta. A rileggerla, Marta

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