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Qui sotto ripropongo un'altra recensione che uscì per la rivista "daemon - libri e culture artistiche" all'inizio del 2003. "daemon" è stata una bellissima esperienza di rivista, una palestra, anche di affetti. Voglio fermarmi qui perché il bello delle riviste è che la loro parabola termina quando deve terminare, senza terapie palliative e conservative e senza per forza far sorgere nostalgici rimpianti in chi ha provato ad animarle. Preferisco invece salutare qualche compagno di percorso, se di tanto in tanto passa in queste latebre della rete! Il libro è I cani del Sinai di Franco Fortini (Quodlibet, 2002, pp. 104, euro 8,50, regolarmente in commercio). A rivedere quello che recensivo in passato noto che un'inclinazione a parlare di libri brevi era già presente...
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Fortini scrisse I cani del Sinai nel 1967 dopo la guerra lampo dei sei giorni tra Israele e paesi arabi. La Quodlibet di Macerata ci propone una riedizione dell'opera che usci per De Donato (1967) e poi per Einaudi (1979). Quello che potrebbe configurarsi come instant book scritto a ridosso di un avvenimento di grande portata è in realtà un libro meditato e levigato, nel quale Fortini elabora apertamente questioni di stile e tono inerenti alla propria scrittura. È questa una pista da seguire per chi volesse riprendere in mano oggi il testo.
In queste pagine fortemente autobiografiche Fortini mette in discussione il serpeggiante e diffuso disprezzo antiarabo, compie analisi sui riflessi storici, politici, etici e ideologici di un importante avvenimento militare sulla propria vicenda personale, senza analizzare cause o conseguenze della "guerra dei sei giorni".
Questo testo (secondo le parole dell'autore "di apparente polemica immediata e di apparente autobiografia") può oggi essere avvicinato come una inedita opportunità di intendere l'autobiografia stessa. Nella bibliografia fortiniana I cani del Sinai si colloca cronologicamente vicino a L'ospite ingrato (1966), altro libro in cui Fortini sperimentò una scrittura breve, ricca di note. Lontano dai rischi intrinseci che possono derivare dall'avvicinare storia e vicenda personale, ne I cani del Sinai Fortini ci ha messo davanti all'autobiografia come possibile indagine storica, denunciando, una volta per tutte, ciò che sta dietro l'autobiografia stessa: «La forma autobiografica, dovrebbe capirlo anche un critico di avanguardia, non è che modestia astuzia retorica. Parlo anche dei casi miei perché certo solo miei non sono. Della mia "vita" non me ne importa quasi nulla.»
Nelle Ventiquattro voci per un dizionario di lettere (1968, l'anno successivo all'uscita de I cani del Sinai), alla voce "Autobiografia", Fortini scriverà: «Parlare di sé implica insomma le contraddizione della "falsa coscienza", l'espressione subisce tutte le operazioni tattiche del subconscio e dovrebbe quindi essere letta, per principio, senza candore alcuno, come lo storico fa dei documenti. Non è, in quanto istituto letterario, né scienza né arte. E tanto ne fa un insostituibile strumento di conoscenza, irriducibile al tipo di esperienza che ci viene dalla lettura dei romanzi.»
I cani del Sinai è un po' tutto questo, è un testo che ha fatto spendere molte definizioni (pamphlet, saggio, autobiografia, racconto) proprio perché difficilmente etichettabile. Si fa apprezzare per la rigorosa ricerca formale sottostante, per la chiarezza che l'ebreo Fortini tenta sulle proprie origini, per i molteplici spunti (storici, letterari) che offre.
Io mi ricordo di daemon, eccome mi ricordo. Gran bella rivista... Bravi! Ciao Ludovica
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