Ancora il modello e la "best practice" di Slow food tornano, indirettamente, a far parlare di sé. Un po' succede da tempo nell'editoria libraria e, ora, anche in un altro comparto dell'editoria, forse più strategico, quello delle notizie. A parlarcene è Peter Laufer, professore di giornalismo alla University of Oregon ma a lungo corrispondente dall’estero per NBC News, collaboratore del San Francisco Chronicle, Penthouse, Washington Post, NBC Radio e CBS Radio. Sempre nell'ambito media è stato consulente per l’UNESCO. Questo Slow News. Manifesto per un consumo critico dell'informazione (Sironi Editore, pp. 160, euro 17) è il suo secondo libro uscito in Italiano, dopo La battaglia delle farfalle. Reportage sulla creatura più fragile del pianeta tra criminali scienziati e collezionisti uscito sempre da Sironi l'anno scorso. Si tratta di un saggio brillante, un ricettario vero e proprio, perché quelle che Laufer propone, in omaggio a una ormai consolidata fisionomia della saggistica di matrice anglosassone (e soprattutto americana), sono ricette enucleate per digerire meglio tutte le notizie che quotidianamente ci vengono offerte in pasto, quel junk food nel quale siamo immersi. Non è poco, se consideriamo che Twitter è sulla cresta alta dell'onda, proprio quel Twitter che rappresenta la battaglia per l'istantaneità dell'informazione!
Il punto di partenza è sotto gli occhi di tutti. Viviamo iperconnessi, pronti a digerire scoop, infotainment, breaking news, approfondimenti, tematizzazioni, speciali romanzati. Le notizie ci attraversano in piattaforme multicanale, ci inseguono nei luoghi. A quale dieta mediatica dovremmo sottoporci secondo Laufer? Ogni nuovo device è poi trasversale, interfacciabile, integrato. Come faremo a separare il grano (le "vere notizie", Laufer crede esistano le vere notizie che meritano attenzione e ascolto) dal loglio (la fuffa, il grasso che cola, la sbobba)? Come faremo a scomporre e ricomporre una nuova piramide alimentare del consumo delle notizie? Ora, se a me venisse posta a bruciapelo una domanda del genere risponderei in maniera molto schietta: una scuola che funzioni sarebbe già un grande antidoto, vedo la formazione in primo piano. Ma forse questo è un pensiero antiquato, da secolo scorso. Se però avessimo una scuola non devastata, forse non ci sarebbe bisogno di un movimento Slow News che prenda come benchmark il crescente successo del movimento Slow Food. Questa mia rimarrà una convinzione senza riprova. Ma non parliamo di scuola qui, parliamo di una merce delicata come la notizia. Esiste davvero un criterio infallibile per parlare di qualità e quantità delle notizie? Forse bisognerebbe definire prima "notizia" (e Laufer opportunamente ci offre la sua definizione), così come bisognerebbe definire anche "fatto". Notizie e fatti non esistono al di fuori di una chiara volontà definitoria che serva anche a pacchettizzarli e spacchettizzarli per metterli in circolo e venderli.
Il ragionamento di Laufer parte inoltre da premesse condivisibili: abbiamo bisogno di una dieta mediatica più equilibrata, di regolare gli eccessi pericolosi per il nostro già traballante equilibrio psico-fisico, di masticare con calma e non ingerire vagonate di spazzatura. Le ricette sono interessanti perché sono appunto ricette, quindi tentativi, suggerimenti che si possono provare e "personalizzare" sulla propria pelle per saggiarne l'effetto (farsi bombardare e poi tornare al silenzio, selezionare le fonti, fuggire ogni accento sensazionalistico). Il punto interessante è dove Laufer ci invita a non mangiare solo il cibo preconfezionato, ma ci esorta a sfidare i fornelli e quindi a diventare protagonisti attivi dell'informazione (e Twitter in un certo qual modo ritorna a galla). C'è una bontà di fondo in queste ricette, c'è anche buon senso, se vogliamo. Il tentativo di renderci imbecilli preme ed è costante (ma che sensazione provate voi a sentire una radio locale che intrattiene con infotainment e canzoni da playlist? A me basta davvero intercettare quelle voci standard cinque secondi per provare un forte conato, per veder svanire irremediabilmente l'allegrezza di un mattino).
Con questo libro tra le mani nel pensiero mi è corso incontro Alfred Schütz, il filosofo sociologo austriaco delle realtà multiple, del Don Chisciotte e del problema della realtà, della costruzione intersoggettiva della realtà, il filosofo forse ancora poco studiato che rielaborò l'azione weberiana assieme alla fenomenologia husserliana, partendo dalla rilevanza della routine (routine com'è diventata quella della notizia, basti pensare alla famigerata agenda setting theory) e da quel velo comune tra gli uomini di "world taken for granted". Se tutto il mondo è frutto di costruzione e negoziazione continua degli attori, di una distribuzione della conoscenza nella società, allora anche quella merce delicata costituita dalla notizia merita forse una nuova stagione di analisi e studio, proprio per il suo essere routine e sfondo (Laufer esorta a evitare il "rumore di fondo", ineliminabile secondo il pionieristico e sorpassato modello ingegneristico della comunicazione), un'analisi che esca pure dalle meritorie ricette di Laufer, che, beninteso, rimangono un'ottima propedeutica, e che s'avventuri con slancio e coraggio in una filosofia inedita. Alcuni nomi-Virgilio già ci sono, basta saperli aprire alle pagine giuste, sapendo attingere e accostare con intelligenza come fece a sua volta Schütz: Erwing Goffman, Niklas Luhmann, Gregory Bateson e tanti altri. Lavoro per gli scienziati della comunicazione del ventunesimo secolo? Chissà. Glielo auguro.
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