lunedì 12 dicembre 2011

"Mia lingua italiana". Le riflessioni di Gian Luigi Beccaria


Le celebrazioni per il 150° anniversario dell'Unità d'Italia volgono al termine. C'è un aspetto importante che forse non ha avuto il risalto opportuno in tutto questo celebrare ed è quello legato alla lingua. Mia lingua italiana di Gian Luigi Beccaria (Einaudi, pp. 90, euro 10) prova a raccontare la traiettoria della nostra lingua italiana, la sua anomalia, la sua esplosione con le tre corone, la fondamentale canonizzazione bembiana, le imprescindibili discussioni del Manzoni e Ascoli assieme a Leopardi e Tommaseo nell'Ottocento, fino alle note posizioni novecentesche quasi stigmatizzate in quelle di Calvino e Pasolini, con Luigi Meneghello, Danilo Dolci, Carlo Levi e molti altri a far da importanti snodi di riflessione. Tanti sono i protagonisti della riflessione linguistica chiamati in causa. Ad essere sincero, m'aspettavo uno sguardo diverso sul Settecento, quel secolo così magnificamente avvicinato da Gianfranco Folena nei suoi studi (penso a L'italiano in Europa del 1983, tanto per capire cosa ha portato l'italiano fuori dai confini, ci può far bene). Questo libro è comunque - mi si passi il confronto - un buon "bignami" per chi vuole fissare le tappe fondamentali dell'italiano, compreso quell'incessante confronto con i dialetti che ha reso le discussioni passate ricche e a volte molto feconde (ecco allora entrare in causa Biagio Marin, Virgilio Giotti o lo stesso Italo Svevo). "Bignami" quindi nel senso della buona sintesi che vi si può trovare, non certo in quello della semplificazione o, peggio, dell'ipersemplificazione scheletrica.

Ho evitato però di parlare di 150° anniversario unitamente a una questione linguistica dichiarata. Non registro oggi una "questione linguistica" propriamente detta. Non so se qualcuno abbia una percezione completamente diversa da questa. Credo infatti che la questione linguistica si collochi, nel lungo percorso della nostra lingua, in quei crinali dove si è discusso, più o meno consciamente, attorno a un fondamentale concetto di Antonio Gramsci (ecco un altro grande linguista semidimenticato!): mi riferisco ovviamente all'egemonia. Se manca una riflessione sull'egemonia non può darsi una vera questione linguistica, così come se mancano delle precise tensioni morali e generazionali propriamente dette non registreremo una nuova stagione della "questione linguistica". Questa è una mia convinzione, probabilmente strampalata. Eppure io credo che non siamo molto lontani dal momento in cui torneremo a parlare di "questione della lingua".

Ma, come sempre, non sono qui per argomentare un'eventuale mia tesi poco interessante bensì per restituire il valore di un libro breve che, solitamente, reputo interessante. Mia lingua italiana sfodera una tesi forte, cioè che l'Italia debba moltissimo (tutto?) alla propria lingua, una lingua che l'ha fatta nascere subito grande, prefigurandone l'unità territoriale avvenuta molti secoli dopo (con un parallelismo medico mi verrebbe da chiedere se l'italiano soffra allora endemicamente, dato il potente esordio e crescita, di un'irreversibile scoliosi...). Scrive Beccaria che "sono stati i manoscritti, le lettere e non gli eserciti, a diffondere l'italiano". Il libro di Beccaria riporta un argomento complesso, stratificato, persino "strategico" sui molti livelli che questo tema chiama verso di sé e, quindi, tra le altre cose, sul rapporto con la tradizione letteraria, con la scuola, i flussi migratori, i dialetti, i media, la lingua della politica, l'inglese o il confronto con altri casi come quello tedesco, interessante, nella diversità, per la quasi simultaneità del processo di nation building. Se poi allarghiamo la visuale al problema delle "varietà" dell'italiano (con costrutti di sociolinguistica come varietà diamesica, diafasica, diastratica, diatopica, i gerghi, i linguaggi settoriali, la delicatissima relazione tra sincronia e diacronia nell'ambito del mutamento linguistico ecc.) comprendiamo subito la difficoltà di governare un argomento così delicato e sfuggente. Beccaria ci conduce alla fine della sua sintesi con la convinzione di un italiano che ha saputo dimostrare una straordinaria duttilità nei secoli. E soprattutto ci offre un'attenzione continua per l'uso della lingua, l'uso che come un grande giudice (o magistrato alle acque), lento e levigante, determina le anse del fiume della lingua, un corso d'acqua che ha perso i connotati torrentizi e che pare più simile oggi ad un più placido e apparentemente meno interessante fiume di pianura (qui le aperture sull'impoverimento linguistico, evidentemente). Ma quell'essere fiume di pianura è il risultato di uno scorrere che parte da lontano, di conoidi e strati di storia della nostra lingua che possono tornare in qualsiasi momento evidenti, tanto più se si riaccende un dibattito quantomeno accettabile sull'egemonia.

1 commento:

  1. Ho letto questo libretto di Beccaria. Ho pensato che non sarebbe male se in tanti lo leggessero... una specie di libro di preghiera... tanto per ricordarsi da dove viene l'italiano e dove sta andando. Preghiera in questo senso, qualcosa da dirsi al mattino, prima di iniziare a usare la lingua. Ciao a tutti.

    Marco

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