lunedì 2 gennaio 2012

"Umana gloria" di Mario Benedetti

Ripescaggi #9













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Mi soffermo un po' a ripescare recensioni del passato in questi giorni, ma forse non è così male. Anche se spero-conto di tornare presto a scrivere di libri recenti. Colgo l'occasione per augurare buon anno a tutti i visitatori del blog. Ripesco una recensione apparsa su daemonmagazine.it nel 2004. Si tratta di uno dei libri di poesia che ho più amato tra quelli di Mario Benedetti e, in assoluto, tra quelli dell'ultimo decennio. Mi riferisco a Umana gloria (Mondadori Lo Specchio, pp. 126, euro 12), un volume che vedeva la luce nel 2004, assai diverso da Pitture nere su carta, altro importante libro di Benedetti datato 2008.
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Umana gloria è probabilmente il miglior libro di poesia degli ultimi anni. Un ‘canzoniere’ che raccoglie gran parte delle poesie distillate da Mario Benedetti in piccoli libri pubblicati da altrettanto piccoli editori negli ultimi dodici anni.

L’uscita di Benedetti nella collana mondadoriana non deve far pensare a una canonizzazione editoriale tardiva di un percorso davvero avvincente. Questa pubblicazione, che si auspica dia al poeta friulano la meritata notorietà, nulla toglie e nulla aggiunge alla ventata di novità che la sua voce ha portato sin dall’esordio, con I secoli della Primavera (1992).

Il verso e la strofa di Benedetti spiazzano spesso il lettore. Il poeta non ha belle immagini pronte a colpire ma una non comune rapidità nel veicolare il proprio pensiero in una sintassi a dir poco originale, rallentata sovente dal verso lungo. Benedetti non ha paura di ciò che scrive, gli accostamenti più arditi di versi e strofe mai rischiano la forzatura. Tesse un intreccio di traiettorie di ricordi, di percezioni (acutissime nei luoghi) e di un’immaginazione vivissima. La bellezza della poesia si regge con l’equilibrio fragile di semplicità di dettato e complessità sintattica. Su quest’equilibrio si assestano i risultati più alti: «Mi guardi poco questa sera / viso su una bicicletta che arrivava / in un modo che a rifarlo / ci vorrebbero le persone e le cose / che mi facevano esistere allora. // Parte dei miei occhi è sotto la tua giacca, / parte nelle farfalle in cui si sfa il mobiletto. / Stanco di me mi chiedi di stare giù / nella figura delle donne nelle guerre, / giochi della sopravvivenza di una pelle cattiva. // Il cielo è grigio sul ferro della ringhiera, / le farfalle del mio piangere ci tengono lì. / E la voce che mi chiamava, dal tramonto usciva / e andavamo sul balcone a muovere i gerani. // Dalla nuvola si schiariva una figura, / da vicino io ridevo nella sua bocca. / Strade e visi uno dentro l’altro, / e era tutta la mia vita.»

L'atlante di Benedetti ha pagine limpidissime, che vanno dal Friuli-Slovenia a Milano (città dive vive e lavora), sino alla Bretagna. Luoghi, come posti dove pensare la vita, gli affetti, i morti, il tempo e la letteratura stessa (magari in citazioni più o meno nascoste), dove è ancora possibile praticare una radicale svolta della percezione e della parola: «Hanno gli occhi provati dal mare, dal grande cimitero marino. / Anche la fabbrica nucleare tiene le navi lontano / con i suoi tubi alti e chiusi, con il ferro di un porto innaturale. // La volpe stasera non è venuta, le galline aspettano la mattina. / La capra legata fa in modo di restare vicino ai due bambini e grida. // Mangiamo sempre dalla signora Auderville, io per ascoltarla: / Prévert era una persona di modi semplici, mangiava qui a volte. // Salendo, la casa è ciò che vogliamo vedere, / le ortensie, l’acqua che sgorga infinitamente nella canaletta di legno. // Piove. Il vento è quasi freddo. D’autunno come saranno / queste pietre con i nomi nel cespuglio di piccole rose? // A Brest è piovuto una volta per sempre. / Un viso, una corsa sono stati amati per sempre, per sempre. / Ti guardo dalla sabbia che sembra non finire nemmeno lì dove sei.»

Da tempo non leggevamo ritratti essenziali e intensi come quelli che si trovano in Stanca madrePer mio padre o Una donna e il suo bambino. Ciò che riuscirà a conquistare l’attenzione sarà, di volta in volta, la naturalezza di un’osservazione o la concretezza della fantasia. Alcuni momenti sono come illuminati da una genuina ingenuità e potrebbero lasciare interdetto chi è rimasto fermo (sì, letteralmente fermo), negli ultimi anni, a causa di un’indigestione di poesia tanto furba e ammiccante, nella lingua e nei contenuti. Benedetti non ha certo come idolo polemico questa poesia, anche se, indirettamente forse, riesce come pochi a calamitare il lettore riportandolo, con delicatezza, su binari piani, drammaticamente semplici: «Ho le mani che mi tengono alla ringhiera, / così come sono vestita, come in una fotografia / che si passa tra le mani / e viene fuori qualcuno che ancora può vivere tanto. // Ho le mani, vedi, come spiegarmi, il polsino / come una pelle con le righe che vengono fuori. // Ho uno sguardo di cose a cui piace stare lì un poco. / Lo zucchero, i piatti, e la promessa di tutto questo / quando qualcuno ride e c’è il cortile, / o piange, e tu gli parli, gli racconti in casa.»

Le poesie di questo libro hanno la capacità di arrivare dirette, sgorganti dal pensiero senza elaborazioni. Così dirette da porre subito la questione se la poesia debba intendersi come una promessa di verità, e, come tale, qualcosa di incisivo, invadente (nei pensieri), schietto da far male. E così una poesia può essere simile a un albero potato drasticamente, nel quale sono i rami più impensati a germogliare verità. Accade nel testo d’apertura: «Lasciano il tempo e li guardiamo dormire, / si decompongono e il cielo e la terra li disperdono. // Non abbiamo creduto che fosse così: / ogni cosa e il suo posto, / le alopecie sui crani, l’assottigliarsi, avere male, / sempre un posto da vivi. // Ma questo dissolversi no, e lasciare dolore / su ogni cosa guardata, toccata. // Qui durano i libri. / Qui ho lo sguardo che ama il qualunque viso, / le erbe, i mari, le città. / Solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi.»

È probabile che più di qualche lettore si avvicini a questo libro scoprendo quello che Celan chiamava “il mistero dell’incontro”. L’incontro con una poesia che non possiamo non fare nostra e che si radicherà presto nella nostra esperienza come una promessa di verità del pensiero e della parola. Nessun lettore troverà ostacoli nell’avvicinarsi a Umana gloria. Saranno piuttosto i lettori della critica a vedersi costretti all’urgente ricerca di nuovi strumenti, filosofici e retorici, per leggere in tutta la sua importanza questo libro. Per ora possiamo limitarci a ipotizzare questa ‘strana’ situazione, che può sembrare buffa, ma che in sé, per riflesso, già conterrebbe grossa parte del valore e dell’attualità di questo ‘canzoniere’. Il primo riservatoci dalla poesia italiana per questo inizio di secolo. Un inizio che fa ben sperare, ma che suggerisce anche di non sprecare subito tante parole. Una volta tanto la lettura e la rilettura delle poesie valgano davvero di più di qualsiasi paratesto. 
[recensione apparsa su daemonmagazine.it]

1 commento:

  1. Chi, a cominciare dall'Autore, Mario Benedetti, sa dirmi dove posso trovare Umana gloria, esaurito presso tutte le case editrici e le librerie online? Magari c'è qualche libreria in cui son rimaste alcune copie ...
    grazie, Blumy
    blumyosotis@tiscali.it

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