mercoledì 16 maggio 2012

"Di quarzo e terra" di Alessandro Riccioni

Ripescaggi #13

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Torno a ripescare qualcosa dal vecchio disco fisso. Questa recensione a Di quarzo e terra (Book Editore, 2002) ha dieci anni. La poesia non invecchia, forse le recensioni sì. Se ricordo bene fu data alla rivista Atelier. Negli anni successivi, se cercate, scoprirete tanti altri libri di questo poeta di Lizzano in Belvedere.
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La seconda opera di Alessandro Riccioni (a distanza di quattro anni dall’esordio Sottopelle, segnalato al Premio Montale) si evidenzia per lo sguardo ficcante, per una voce leggera che si ascolta però non senza qualche lieve trepidazione. Quello di Riccioni è un libro minato con tante microstorie che esplodono per qualche attimo, e che rimangono, una dopo l’altra, sapientemente accordate sotto un’impronta unitaria: «Cosa mi resta / della segnata cartolina / che scritta con il verbo del presente / ricorda un viaggio già finito. / Le firme sono tante / eppure una non la riconosco / lo scarabocchio nero / della compagna senza nome / ritorna e poi rifugge / nell’infinito ricordare / senza più nome / senza più luogo / senza più storie da narrare.»

Il testo sopra riportato già introduce un’assenza che si potrebbe definire ‘tipografica’: il minimo utilizzo (ridotto davvero all’osso) della punteggiatura non si risolve in esasperate pesantezze nell’atto della lettura ma riporta i singoli versi ad essere la principale (bastante) unità ritmico-respiratoria:  «Oggi non ho che linee orizzontali / fondali di pianura / e spazi adatti a segni primitivi / lunghi, tirati, spessi / come da dita enormi e forti. / Oggi rimpiango rotte verticali / crinali nell’altura / e valli strette in occhi fuggitivi / caldi, dorati, mossi / come viventi eppure morti.» In questa poesia, come nella precedente, Riccioni crea dei parallelismi sottili tra diversi periodi del testo e adopera un’inconsueta struttura del tipo ABCDEABCDE (con variazione tra “spessi” e “mossi”).

Non colpisce ad una prima lettura, ma solo con una considerazione più prolungata dei testi, la linearità accentata da continue microvariazioni (la variatio nella concinnitas, detta nei classici termini dei retori latini): «Non certo dalla pioggia /  potremo ricavare il nome / di questa troppa siccità / che brucia l’erba del discorso. // Ma è certo che la pioggia / cade abbondante / a ripulire i suoni / e alcuni li fa sordi / dentro la pietra dura / schiavi di un malinteso / di luce giunta troppo tardi.»

Spesso l’enumerazione o l’iterazione diventano lo scheletro sul quale adagiare alcune vibranti riflessioni, senza sosta, come nella penultima poesia del libro:  «Ripetiamoci i nomi / i nostri nomi, i nomi / delle cose che abbiamo / e che lasciamo / i nomi degli attrezzi e degli oggetti. / Ripetiamoci i nomi / i nostri nomi, i nomi / delle piante che avevamo vicine / delle vie che incrociavano la nostra via / delle colline uscite dalla nebbia / dal fumo e dalla neve, i nomi / degli animali in casa / degli animali dentro il bosco. / Ripetiamoci tutto / oggi che i nomi paiono cancellati / in un tiepido e crudele aprile / pieno di “non conosco”.» Alcuni avranno notato l’eco, ben giocata, dell’incipit eliotiano di The Waste Land.

Il titolo dell’opera potrebbe non rendere pienamente conto dei contenuti presentati nelle due sezioni (denominate per l’appunto “quarzo” e “terra”, con una terza parte “In margine alla guerra”) e pare, più che altro, radunare due punti di fuga attraverso i quali filtrare e simbolizzare le aspettative del poeta sulla propria materia. Ciò che, quasi inavvertitamente, si rivela come un piccolo e importante chiarimento per il lettore è l’epigrafe personale posta all’inizio del libro: «Non ho mai scritto la parola bar / nemmeno auto o ciminiera / non uso nomi propri / come un carteggio familiare / non riesco mai ad infilare / una parola dall’inglese / il nome di una via. / Credo che non sia questo / a farmi rimanere / solo, senza parole / a metà strada / tra un qualsiasi discorso / e quel che chiamiamo poesia.» Dichiarazione di poetica? No, semplice onestà. Sembra, quest’epigrafe di Riccioni, un utile esercizio che si potrebbe raccomandare a molti altri poeti. Quante belle cose scopriremmo!

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