mercoledì 6 marzo 2013

da "Fabrica e altre poesie" di Fabio Franzin. Un ritorno con degli inediti

Una poesia da #19 / Ripescaggi #19


Ritorna un libro bello e importante di Fabio Franzin, e con piacere ne do notizia qui. Il libro è Fabrica, forse il suo più noto, che ora Ladolfi Editore ripropone con un cospicuo numero di inediti e con il titolo di Fabrica e altre poesie (pp. 223, euro 15). 
Così esordisce Giuliano Ladolfi nella prefazione intitolata La parola che brucia: "Ottime elucubrazioni, graziosi bozzetti, trovate ingegnose, retorica sapienziale, ma dove cercare la vita nella poesia italiana contemporanea? Non è facile districarsi tra accademia e conventicole editoriali, tra promozioni e antologie, tra consacrazioni e icone massmediatiche." Dovrebbe bruciare anche l'attacco di questa premessa, se non fosse tutto ormai un gran fuoco che avvampa, un incendio, già troppo esteso quando i pompieri s'apprestano a scendere per la loro pertica coll'elmo indossato.

Riflettevo in questi giorni su come il "progresso" che c'è stato, così evidente e discusso, in queste zone d'Italia (con Franzin siamo nel pieno nordest e rimando anche a questo suo scritto, davvero bello, tra l'antropologico e il paesaggistico, apparso su Doppiozero) sia stato probabilmente falso, presunto e presuntuoso, e in fondo assai discutibile. In una parola progresso apparente. Direte che è facile dirlo, oggi. E poi sono discorsi vecchi magari. Andiamo a rileggerci il Verga del "Ciclo dei vinti" e i ragionamenti sulla "fiumana del progresso". Tuttavia sono pensieri ricorrenti, che affioravano anche alla lettura di un altro libro di poesia come La religione del mio tempo di Pasolini. A volte poi basta riprendere uno scrittore come Parise, persino nei suoi passaggi più grotteschi, e non solo in quell'opera che cade alla perfezione e tutta da riscoprire che è Il padrone, per capire che qualcosa non è mai andato per il verso giusto e che il virus era già stato iniettato (o che semplicemente non siamo mai stati pronti a combatterlo, culturalmente pronti). Insomma, molti scrittori avevano già lanciato dei segnali potenti. Ora, col senno del poi, è fin troppo facile parlare, e forse persino più facile scriverne. E quindi? Come reagire a un mondo che è andato a mille all'ora? Parafrasando Anders, l'uomo è davvero antiquato? E se è antiquato, quali altri danni arrecherà? Dove stiamo andando? Verso il post-umano? E soprattutto da dove veniamo? Ecco, questo secondo interrogativo è ancora più importante. In fondo gli interrogativi sono sempre quelli, le stesse parole, cambiano le relazioni e le trame da dove si prova a rispondere. Cambiano persino le arti con cui si prova a rispondere. E poi cosa fare della tradizione? Se "innovare" è parola-chiave, come innovare davvero? Sono domande brucianti a loro volta, alle quali questo ricco libro di poesia, che idealmente ripercorre gli squassi degli ultimi quattro decenni, sa perlomeno mettere la giusta punteggiatura: una virgola, un groviglio di virgole, un punto di domanda laddove serve come l'acqua quando c'è sete, un mare di apostrofi.

Questa nuova edizione accresciuta è anche l'occasione di ripescare una recensione a Fabrica che scrissi per la rivista "La Mosca di Milano" all'inizio del 2010 (il libro è del 2009). La pubblico però in coda, dopo la poesia.














Ho chiesto all'autore di scegliere una poesia per questo spazio e mi ha mandato quello che trovate qui sotto, assieme a un'immagine di Safet Zec e a una didascalia, che pubblico unitamente al testo e alla traduzione dell'autore.


 (specchiandomi in “Mani sul volto”,
china e collage, di Safet Zec)





















Autoritràto (a 50 àni, disocupà)


‘E man tii òci, come a vóer ‘scónder
via ‘a realtà, e tègnersea drento tuta
‘a desperazhión. I dei vèrti che fraca
tea front nuda, rughe fonde se ingrespa
sora ‘e zhéjie, un pòice sfiora el mòll
dea recia. I nervi, po’, ‘e vene, nosèe.
Dei che ciama un siénzhio crudo, ‘na
assenza romai fata, marzha. Palme
che scava ‘a carne co’a carne, ‘i ossi
co’i ossi, onge rote che sgrafa ‘a pièra
tonda dei pensieri. E po’ strissi, mace
scure. Tumori tea memoria, ictus come
rùdhene, jozhe grise tea polpa dei sogni.

‘E man tii òci, morte, stonfe de ‘àgreme
o ‘ssute come rame seche, man che no’
pòl pì far uso dea só arte, che no’ sa pì
stacarse dal muso pa’ zontarse basse,
pregar. Man come sgranfi, ragni del mal
che i brazhi no’ rièsse a trar via dai òci,
che ciucia ‘l ciaro aa speranza. Sot de lore
un buso nero, un zhigo grando, senza vose.


Autoritratto (a 50 anni, disoccupato)


Le mani sugli occhi, come a voler nascondere / la realtà, e custodirla tutta / la disperazione. Le dita aperte che premono / nella fronte nuda, rughe profonde si increspano / sopra le ciglia, un pollice sfiora il lobo / dell’orecchio. I nervi, poi, le vene, nocche. / Dita che chiamano un silenzio crudo, una / assenza ormai matura, marcia. Palmi / che scavano la carne con la carne, le ossa / con le ossa, unghie spezzate che graffiano la pietra / convessa dei pensieri. E poi, strisci, macchie / scure. Tumori nella memoria, ictus come / ruggine, gocce grigie nella polpa dei sogni. // Le mani sugli occhi, morte, umide di lacrime / o asciutte come rami secchi, mani che non / possono più far uso della loro arte, che non sanno più / staccarsi dal viso per congiungersi basse, / pregare. Mani come crampi, ragni del male / che le braccia non riescono a strappare dagli occhi, / che succhiano la luce della speranza. Sotto ad esse / una buia voragine, un urlo grande, senza voce.

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Recensione a Fabrica (Atelier, 2009) apparsa su "La Mosca di Milano". Come ricordato, in questi giorni il libro di cui si parla esce in edizione accresciuta di inediti per Ladolfi Editore.

Gli operai fanno notizia solo quando muoiono. Talvolta quando vengono licenziati, ma l’azienda dev’essere una grande azienda (meglio se la Fiat) e il numero di interessati arrivare a qualche migliaia, altrimenti ci si deve accontentare di un trafiletto sul quotidiano locale di turno. L’operaio sembra scomparso dalla faccia della terra o, perlomeno, dalla faccia dell’Italia. Del suo lavoro concreto, del suo soffrire, dei suoi sentimenti quando è dentro la fabbrica nessuno parla più. 

Allora ci voleva proprio un’opera di poesia per riportare sensibilità sulla fabbrica e i suoi inquilini. Perché le fabbriche in Italia esistono ancora, nonostante molte siano in difficoltà. Con la forza silenziosa dei versi, ecco descritta la vita dentro le quattro mura del capannone, la vita delle dita riparate dai guanti che maneggiano strumenti, macchinari e semilavorati, ecco la vita dei sensi storditi così straordinariamente descritta in questo recente libro di Fabio Franzin, vincitore del prestigioso Premio Pascoli 2009, principale riconoscimento italiano per la poesia neodialettale. 

Tante piccole solitudini, tanti dolori silenti trovano nella poesia di Franzin un punto di visibilità e nel metro modulare delle cinquine che compongono il poema si intuisce visivamente il ritmo monotono e allucinante delle 8-10 ore trascorse mediamente da un operaio dentro la fabbrica, l’ossessione dei «toc» (i pezzi), sola unità di misura della produttività: «Marta l’à quarantatrè àni. / Da vintizhinque ‘a grata / cornìse co’a carta de véro, / el tanpón, ‘a ghe russa via / ‘a vernìse dura dae curve // del ‘egno; e ghe ‘à restà / come un segno tee man […]» («Marta ha quarantatre anni. / Da venticinque / leviga cornici col tampone, / la carta abrasiva, con questi umili strumenti frega / la vernice dura nelle modanature // del legno; e le è rimasto / come un segno nelle mani […]»). Tante e diverse le vite che si incrociano nei metri quadri dello scatolone-capannone, riprese nella loro vitalità imbrigliata con una furtiva occhiata colma di pietas: «Joussuf i ‘o ‘à mess / a ciapàr tòchi drio / ‘na multilame.» («Joussouf ha trovato posto / in coda / ad una multilame.»); «Luisa ‘a ‘é ‘na bèa tosa, / intiijénte e brava; l‘à / studià da segretaria, ma / posti in ofìcio no’ a ghi / n‘vea catà, dièse àni fa […].» («Luisa è una bella ragazza, / intelligente e brava; ha / studiato da segretaria d’azienda, ma / un impiego in ufficio non lo / trovò, dieci anni or sono […]»).

Fabrica si impone per la sua attualità, per il suo sguardo inflessibile e per la tessitura poetica che regala una lettura memorabile, lontana da quanto si trova in circolazione. Il libro mostra schiettamente di cosa vivono i poeti che ricercano verità. Raccomandato a chi ha un’immagine ancora troppo (inutilmente) “poetica” della poesia.

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