sabato 4 maggio 2013

Matteo Marchesini e gli "Atti mancati"

Non ha bisogno del mio irrilevante endorsement Matteo Marchesini, recente candidato al Premio Strega. Che talento vero di scrittura non manchi a questo poeta, critico e ora narratore (dopo un libro di racconti, ecco qui il primo "romanzo", parola virgolettata per i motivi che andranno a chiudere questo mio intervento) è fuori di dubbio se si scorre la sua prosa. Penso anche al suo recente saggio dove mette in riga cinque figure chiave del Novecento: Savinio, Noventa, Fortini, Bianciardi e Bellocchio. E comunque altri, ben più dotati e navigati, hanno sottolineato il talento. Il fatto che però tutti i nostri valenti big, da Goffredo Fofi a Massimo Onofri, da Giorgio Manacorda a Filippo La Porta, assieme ai loro discepoli, inseriscano, quasi pedissequamente ormai (sono ammesse leggere variazioni sul tema), la postilla "il più interessante della sua generazione" ogni volta che ne scrivono non è poi il massimo della vita e della critica, non è nemmeno il massimo per i loro generosi lettori e in fondo neanche per Marchesini stesso. Proverò comunque a dire perché questo libro possa diventare una lettura (quella sì) rilevante per le persone della nostra generazione. Non solo per noi, ma anche e soprattutto per noi, direi molto più per noi che per le generazioni di succitati big nati tra il 1937 (Fofi) e il 1961, anno di nascita del più giovane e sempre interessante Onofri. Il motivo di questa premessa è però presto riassunto: se esiste ancora una funzione della critica legata a scelte qualitativamente discriminanti, rincorse anche mediante stratagemmi che servono a creare rotture di continuità o a smuovere acque stagnanti, non si capisce il perché di questo sostanziale appiattirsi di formule critiche coagulate attorno a questo giovane autore. Tali stratagemmi della critica, banalizzati e ridotti all'osso, ricorrono generalmente all'innalzamento/lode di nomi poco noti ove non del tutto sconosciuti o, al contrario, al ridimensionamento/stroncatura di nomi più noti o largamente noti. Riconosco che questo mio dire è un banalizzare, ma semplifica molti meccanismi della critica attuale e passata. Il fatto che però dovrebbe tranquillizzare tutti è che con Marchesini non siamo davanti né a uno sconosciuto sprovveduto né tantomeno al già avvenuto riconoscimento di un nuovo Savinio. Quindi suggerirei rilassamento, positivo rilassamento, un po' di ragionevole calma, per tornare all'opera, al "romanzo", alla scrittura, e per provare a interrogarci se queste formule critiche stiano giovando davvero al percorso di questo trentaquattrenne. In fondo la critica è (sarebbe) qualcosa di troppo importante per rasentare questo conformismo di formule.

Il nome di Marchesini a più di qualcuno ricorderà collaborazioni radiofoniche con Radio Radicale, poesie e pagine di critica sempre accese sulle pagine di quotidiani importanti, dall'edizione bolognese del "Corriere della Sera" a "Il Foglio" dove ritrova il "suo" Berardinelli, passando per "Domenica" de "Il Sole-24 Ore" dove scrivono talvolta La Porta, Fofi e Paolo Febbraro, come Marchesini vicino a Manacorda da lunga data. Ho letto Atti mancati (Voland, pp. 128, euro 13) con la curiosità che si dedica al primo romanzo di una persona che per qualche tempo della propria vita si è intercettata, pur da lontano e a distanza di sicurezza (ricordo con piacere l'omaggio delle poesie del suo I cani alla tua tavola, alcuni anni fa, per mezzo delle riviste "daemon" e "Atelier", dove avevamo amici in comune che oggi sarebbero più flebilmente consegnati al reticolo di Facebook), distanza/isolamento forse simili a quelli ricercati dal protagonista prima dell'irrompere sulla scena di Lucia. Ed è per questo che arrivo oggi a parlarvi di questi Atti, che in prima battuta mi hanno fatto sorvolare, di converso a quello che dirò tra poco, sopra ad altri atti, da quelli "linguistici" di Austin (quando si fa qualcosa con le parole, come quando qualcuno proclama/dichiara qualcuno o qualcosa), a quelli "impuri" della tradizione cattolica a quelli bellissimi e fusi in una sola parola, Atimpuri, di Luigi Meneghello. Ho forse il vizio di dare troppo peso ai titoli, pensando che con questi l'autore, il suo editore o il suo editor aprano brecce giganti sullo scalcinato muro della prosa contemporanea (quest'ultimo non sia inteso necessariamente come un giudizio di valore). In psicanalisi, apprendo aprendo una generosa Wikipedia, l'"atto mancato", detto paraprassia in ambiente britannico, coincide con un errore d'azione, laddove si vorrebbe fare un'azione e se ne compie un'altra, "guidati" dall'inconscio. A suo modo, anche il celebre lapsus linguistico è un atto mancato. In ambiente germanofono, nella lingua di Freud in sostanza, suona più come "azione difettosa", manchevole di qualcosa. E in effetti pare vivere in questa dimensione Marco, il trentenne protagonista di queste pagine, persona che si è progressivamente isolata (di sé dice: "Non ricordi nemmeno più quando ha preso piede in te questa necessità di limare, escludere, cancellare tutto: rapporti, viaggi, imprevisti quotidiani") e che al momento del ciak della macchina da presa della narrazione vive di quella professione di free lance della cultura ("un lavoro che non ha orari e quasi non ha gesti, asettico, ripulito da ogni sgradevole contatto umano") qui quasi assurta a simbolo di una parte di una generazione, che è poi la stessa alla quale appartengo (Matteo Marchesini è nato nel 1979 a Castelfranco Emilia). La mia convinzione è però che questo non sia l'ennesimo romanzo troppo debitore della psicanalisi. "Atto" e "azione" hanno fondamento comune nel latino "agere", eppure c'è un abisso - lo stesso che sembra ibernare la nostra generazione in quest'epoca - tra azione e atti. Forse siamo protagonisti di azioni, ma non di atti. Il mio pensiero sul titolo, in altre parole, è che rischiamo di (non?) passare alla storia per la generazione degli atti mancati, dei gesti normali intrecciati a quelli inadeguati e difettosi, in uno scoordinamento non più correggibile: forse una moderna edizione delle "occasioni" montaliane e magari, come generazione, abbiamo soltanto inaugurato una stagione.

A muovere questo romanzo d'esordio è un quadrilatero di relazioni, elemento geometrico innovativo rispetto al tradizionale ménage à trois, a maggior ragione se consideriamo che un punto di questa figura non agisce, in quanto è già morto, anche se forse il suo agire in absentia è massiccio e di peso. Marchesini poi sembra avere tatuata sull'iride dell'occhio la mappa dei luoghi e delle vie che descrive, nominate con ossessività che diventa via via rassicurante. (A dispetto di una bella copertina con un parabrezza coperto da gocce di pioggia pronte a essere spazzate dal tergicristallo, non ho avvertito una caratterizzazione meteorologica forte in questo romanzo, sensazione che ho registrato come misteriosa mancanza.) Sono davvero decine e decine le vie di Bologna nominate e le strade che conducono Marco e Lucia fuori dalla città, verso l'Appennino, all'interno della Micra di lui, quando incomincia una rincorsa affannosa al passato del loro fidanzamento, interrotto da una fuga di Lucia (sintomaticamente Le donne spariscono in silenzio è il titolo di un libro di racconti dell'autore), cinque anni prima del suo ritorno in scena. Lucia riappare durante la consegna del premio "Bolognino d'oro" a Bernardo Pagi, uno dei punti del quadrilatero, maestro di Marco e conoscenza comune. Marco è chiamato a coprire la cerimonia con un pezzo di cronaca culturale e da qui prende avvio il libro e un periodo di nuovi incontri tra lui e Lucia, di dialoghi zoppi, di glaciale tenerezza e di nuove scoperte, laceranti e decisive come la cicatrice che compare ad un certo punto sul corpo di Lucia. Lacerante è anche il ricordo riaffiorante di Ernesto, amico comune che ha trovato la morte in un incidente, in una delle tante strade che avviluppano una Bologna inspiegabilmente labirintica eppure priva di Minotauro, anche se la presenza di Lucia potrebbe essere ricondotta, in un goffo tentativo di critica "mitologica", ad una moderna, enigmatica e malata Arianna. Lucia aveva provato attrazione per Ernesto e la sua fuga si colloca dopo il mortale incidente, avvolto in circostanze misteriose che lasciano pensare a un suicidio. Anche l'ingresso sulla scena di Davide, fratello di Ernesto ricoverato in ospedale psichiatrico, è un fattore che allarga la convincente geometria che sottende il romanzo breve di Marchesini.

E su tutto campeggia proprio l'ossessione del romanzo, da intendersi qui come genitivo duplice, soggettivo e oggettivo: ossessione che appartiene ed è insita nel romanzo e che simultaneamente riguarda il romanzo. Per questo ho virgolettato la parola "romanzo" all'inizio del mio scritto: romanzo da concludere e condividere con la ritrovata Lucia, nel caso di Marco, romanzo nelle pagine di Ernesto non consegnate a Pagi e il romanzo vero di Marchesini, che il lettore si trova tra le mani. Le storie arrivano alla fine, sempre, così come le nostre vite: è una verità banale, lapalissiana quanto abbagliante. Un punto chiave sembra saldare le diverse esperienze di scrittura praticate da Marco e si trova all'inizio: "Ti chiedi per quanto tempo sarà possibile barare scrivendo il tuo articolo giornaliero senza lasciar capire che dietro è stato tolto l’audio dell’esperienza." (il corsivo è mio). Non possono non ritornare a galla certe scorribande attuali della critica sui temi dell'esperienza, della sua assenza e del trauma. Pensavo - e qui qualcuno magari storcerà il naso - alle pagine dedicate da Scurati all'inesperienza, nel suo libriccino La letteratura dell'inesperienza, pensavo anche a Daniele Giglioli che ha scritto un libro eloquentemente intitolato Senza trauma e poi allo stato dell'arte di Guido Mazzoni contenuto nella sua maggiore fatica, Teoria del romanzo (questo è invece un titolo che, nella sua genericità da manuale universitario, finisce coll'essere riduttivo del portato innovativo del saggio). Marco, il protagonista, alla presenza di Lucia, persona che ha amato e visto fuggire senza troppe spiegazioni e con la quale ha ripreso solo qualche timido contatto via Skype, subisce le scosse più profonde. La scoperta della grave malattia di Lucia, del suo slittamento e deperimento fisico, recepito con puntuali rintocchi durante gli imprevedibili appuntamenti che si susseguono dopo il giorno del ritrovo al Bolognino d'Oro, diventa paradossalmente una liberazione, una fessurazione nella crosta troppo dura e rinsecchita del protagonista. Lucia è colei che "fa capitare delle cose" e in questo passaggio si ravvisa quasi il nucleo del libro e dell'amore raccontato, forse il perché del timore che il protagonista prova al cospetto di Lucia.

L'ho letto come un libro-mappa che consiglio, proprio a te che pazientemente sei arrivato fino a qui e che magari, come rintocca l'incipit, senza tanti preavvisi, ad un certo punto e "senza accorgertene, hai trentatré anni". A maggior ragione se "ti sei costruito a posteriori un’adolescenza normale, una prima giovinezza decente di compagnie e bravate. E quasi quasi ci credi." Un libro utile per iniziare a fare i conti con i recessi spaziosi della nostra pusillanimità allargata e,  in fondo, col nostro mai sopito sogno di una particella di immortalità consegnato miseramente alla scrittura. Insomma, per ricollegarmi alle battute iniziali, dopo aver letto questo libro credo ci sia qualcosa di più interessante e problematico da provare a dire, al di là della formuletta che vuole l'autore come "il più interessante della sua generazione". E poi, mi domando con ancor più forza dopo la lettura: siamo una generazione interessante? C'è qualcosa o qualcuno di davvero interessante tra noi? E se sì, dove e come andare a scovarlo? Non ho risposte chiare, è evidente.

Ah, dimenticavo, solo per la cronaca: quasi ogni recensore vi suggerisce di far combaciare le curvature del personaggio di Bernardo Pagi con il profilo di Alfonso Berardinelli, critico militante-importante-rilevante (e tutti gli aggettivi in -ante che volete), figura sulla quale però, a mio avviso, ci siamo un po' troppo incistati tutti negli ultimi anni. Sappiate che non è obbligatorio pensare a Berardinelli quando leggete di Bernardo Pagi; è solo un'indicazione di lettura, e il libro si può serenamente leggere lo stesso, anche ignorando questo prodigo consiglio. Trasportando il tutto in un'altra lingua, più garbata del nostro idioma ormai illividito a tutti i livelli del consorzio civile (e spesso anche nella lingua della critica), qualcuno potrebbe uscire con un sorriso e con un liberatorio who cares?


2 commenti:

  1. Ma avete visto chi son gli altri alla finale del Premio??

    RispondiElimina
  2. Visti sì, ma anche dimenticati. Ricordo Siti... e se volete c'è un Busi molto attivo sullo Strega... non seguo molto i premi, anche se qui ho già parlato di un altro "stregato" come Nesi. Grazie AC

    RispondiElimina