A distanza di settant'anni esatti dall'8 settembre 1943, scrivo indirettamente dell'altra data simbolica che l'ha preceduta, il 25 luglio 1943. Parto dalla buona scelta dell'editore Castelvecchi di pubblicare nella collana "(etcetera)" l'intervento che Giaime Pintor scrisse in seguito alla capitolazione di Mussolini per mezzo della mozione Grandi del luglio 1943. Il testo, già presente in coda del quasi introvabile e prezioso Il sangue d'Europa (Einaudi, 1950, poi 1975, curato da Valentino Gerratana), è ora isolato e presentato con il titolo L'ora del riscatto. 25 luglio 1943 (pp. 57, euro 7,50). Si tratta in realtà di un testo uscito postumo a New York, nel volume IV dei "Quaderni italiani", e scritto nell'ottobre del 1943 a Napoli. Pintor qui ripercorre con massima lucidità e per gradi, con una prosa limpida come certe acque mediterranee, i terribili mesi che principiano nel 1942 con la sconfitta tedesca di Stalingrado e approdano rapidamente alla liberazione alleata dell'Africa orientale, premessa ai bombardamenti su Pantelleria, Linosa, Lampedusa (operazione Corkscrew, il "cavatappi") e al conseguente sbarco in Sicilia (operazione Husky). Pintor arriva a rapide falcate, già nelle prime pagine, a camminare sopra le dinamiche interne all'Italia del disfacimento mussoliniano e alle parallele trame della corona di Casa Savoia. Sa catturare l'accelerazione che conduce velocemente ai primi bombardamenti alleati sulla penisola e a quello, anche simbolicamente di peso, della capitale. Ed ecco la data del 25 luglio 1943: appositamente ho scritto "capitolazione di Mussolini" e non "capitolazione dell'intero Fascismo", perché, come è noto, il 25 luglio 1943 non rappresenta del tutto la caduta di quell'apparato statale che il ventennio fascista aveva modellato. Troppo spesso a certe date viene dato un valore di spartiacque eccessivo. Pur nell'importanza non solo simbolica del 25 luglio, non si deve correre troppo, visto che si rischia di perdere il filo di alcune continuità o delle permanenze. Lo scritto di Pintor aiuta anche in questo, pur non essendo sgorgato per questo fine: i due mesi scarsi compresi tra la fine di quel luglio e l'8 settembre infatti si capiscono meglio quando ci si concentra sulla fluidità di quella situazione (che pure, per molti versi, è corretto definire di stallo), e non tanto sui punti fermi dati dalle date. Se è vero che il 25 luglio finisce il Fascismo è anche vero che con il 25 luglio non si esaurisce la sua struttura burocratico-militare e non termina formalmente l'alleanza di guerra con la Germania.
Sorprendente è la capacità di lettura dei personaggi. Penso al caso del maresciallo Badoglio in particolare. Ciò che resta di questo piccolo libro è la vivida fotografia dell'opposizione clandestina al Fascismo, già "esaurita", per quel che concerne la sua funzione originaria, nella primavera del 1943, il riconoscimento di una situazione di stasi e quasi paradossale data dallo scontrarsi di un certo grado di maturità giunto dall'opinione pubblica e dall'effettivo stallo dell'azione politica (proprio quella politica che talvolta grossolanamente dimentichiamo nell'atto di narrare le tragedie delle guerre mondiali, come non c'entrasse, come se le guerre non partissero e facessero ritorno alla politica, come se tragedie come la Grande Guerra o la Shoah potessero fare a meno della politica per essere raccontate). E su tutto, trovo sia importante per il lettore d'oggi rilevare la capacità di ripresa "a caldo" della situazione, in un testo che intreccia continuamente il dato storico a quello generazionale (quasi sociologico, eppur privo della vaghezza di tanta sociologia). L'abbozzo sicuro di lettura della società italiana trasformata "geneticamente" dal ventennio, gli attimi immediatamente successivi, lo sviluppo degli scenari internazionali: Pintor, appena ventiquattrenne, sa parlarci di tutto questo in una manciata di pagine.
I fatti storici sono comunque noti: l'inclinarsi delle potenze dell'Asse, la "pancia molle" d'Europa rappresentata, nelle celebri parole di Winston Churchill, dalla stessa Italia e la rapida disgregazione di quei mesi tumultuosi (a proposito di creatività linguistica delle ambasciate, sto leggendo L'azzardo del 1915. Come l'Italia decide la sua guerra di Gian Enrico Rusconi e a partire da questo libro incomincio a pensare che si potrebbe ormai compilare un'antologia delle colorate e creative espressioni usate dalle cancellerie europee per dipingere l'Italia e così potremmo capire meglio cose dell'oggi). Questi fatti sono sullo sfondo del ragionamento di Pintor. Ciò che il giovane laureato in giurisprudenza e brillante germanista ne ricava è un'analisi che sarebbe fin troppo facile definire soltanto lucida (come ho fatto io stesso, nelle prime righe) e fin troppo scontato far combaciare creativamente con l'oggi: l'inettitudine di un'intera classe politica, il fallimento, la mancanza di coraggio e senso di responsabilità di ogni azione (lo stato totalitario è anche una immensa macchina deresponsabilizzante). Questi sono dei tratti comuni, ma non sono la realtà storica. Se così facciamo, la storia rischia di trasformarsi in un giochino da settimana enigmistica dove cerchiamo solo lievi differenze tra vignette sostanzialmente uguali. Anche alla luce di questi tratti-punti fermi schiacciati da Pintor prendono quota il valore e il senso profondo della lettera aggiunta in appendice. Il piccolo libro di Castelvecchi si conclude infatti con la lettera che Giaime inviò al fratello Luigi Pintor tre giorni prima di morire, ferito a morte da un'esplosione di una mina nei pressi di Castelnuovo al Volturno, il primo dicembre 1943. Il testo della lettera è molto celebre, uno dei più citati quando si ripercorrono le motivazioni resistenziali della generazione di Pintor. Come potete vedere anche dal link, quella lettera completa e quasi glossa lo scritto più ampio che dà il titolo a questo volume.
Dicevo tuttavia che è sin troppo facile voler cercare parallelismi con l'Italia attuale. Editorialmente e giornalisticamente parlando, pure la presunta durata temporale del "berlusconismo" sembra prestarsi per ulteriori e inconcludenti parallelismi. Quando ci si appassiona a certe similitudini storiche inutili, persino il metodo "americano" al quale stiamo assistendo da anni (prima nei Balcani e ora nei paesi del Medio Oriente) sembra porsi in una sorta di sostanziale continuità e parallelismo con quanto accadeva alla fine della Seconda guerra mondiale. Credo non ci sia nulla di più pernicioso di questi parallelismi pigri. Se è vero che la storia come disciplina è "scienza del cambiamento" come voleva Marc Bloch, quel che può fare la lettura di libri come questo è simile all'azione di un bagno tonificante in acqua fredda: risvegliare, se possibile, i muscoli delle intelligenze ancora vigili. Ma, si sa, non ci si bagna mai della stessa acqua storica. Per questo i parallelismi (volgarmente detti anche "corsi e ricorsi", tanto cari ai giornalisti e pure, inspiegabilmente, ad alcuni storici), sono pericolosi. Sono brutalmente banali e regnano dov'è pigrizia intellettuale. Pintor stesso, quando in queste pagine si appella alla storia e al Risorgimento in particolar modo, sembra aver chiaro questo punto. Il lavoro dell'editore talvolta può essere più raffinato e penetrante di quello giornalistico: rimettere in circolazione un testo, quel testo soltanto, senza violentarlo o soffocarlo di inutili prefazioni che lo attualizzino con banalizzazioni acrobatiche. Lasciarlo agire, reagire.
Nessun commento:
Posta un commento