Librobreve intervista #29
Paolo Febbraro (foto: Dino Ignani) |
LB: Perché (finalmente, aggiungerei) un libro che sposta l'accento
sul Levi poeta?
RISPOSTA: Non so se si tratta di spostare l’accento: il Levi prosatore è un gigante della letteratura europea del XX secolo. Piuttosto ho voluto non trascurare qualcosa di molto importante, cui Levi ha finto di concedere poco spazio, dandogliene invece parecchio. Il punto è questo: la critica è anche un’indagine poliziesca, deve cercare il movente di un’opera, l’arma del delitto (le forme) e a volte anche stabilire se un delitto è stato commesso. Le poesie di Levi nascondevano qualcosa di non ancora ben collegato al resto, di non chiaro forse neppure al loro autore. Ho cercato di tendere dei fili, di chiarirmi i testi (gli indizi) mettendoli in relazione fra loro. Levi è uno scrittore estremamente chiaro: dunque secondo me è un mistero. Del resto, ho sempre avuto una speciale attrazione per gli scrittori cristallini, quasi fossero dei “casi” già risolti che mi chiamassero a ulteriori sospetti. Prendi Gadda: è un magnifico prosatore, compiaciutamente disperato, ma le sue complicazioni tetre e voluttuose additano vistosamente una psiche e una filosofia. Con Levi è tutto diverso.
LB: Ci racconti che cosa sono "i Totem della poesia" del titolo?
RISPOSTA: Sono quelle figure atemporali che albergano nei suoi versi, quegli esseri antichi, uomini, animali, piante, che sembrano attingere nelle sue poesie una base profonda della nostra mente, o una fase primigenia del nostro sviluppo. Levi ha vissuto un’esperienza che per 99 persone su cento è stata terminale: è stato respinto indietro in una fase della natura in cui la lotta per la sopravvivenza è stata totalizzante. Ho creduto di individuare in quella regressione dallo “stato civile” – e nella resistenza sovraumana che ha consentito a Levi di sopravvivere – una condizione che potesse tradursi in quegli emblemi di salvezza, durata, insidia, aridità.
RISPOSTA: Non so se si tratta di spostare l’accento: il Levi prosatore è un gigante della letteratura europea del XX secolo. Piuttosto ho voluto non trascurare qualcosa di molto importante, cui Levi ha finto di concedere poco spazio, dandogliene invece parecchio. Il punto è questo: la critica è anche un’indagine poliziesca, deve cercare il movente di un’opera, l’arma del delitto (le forme) e a volte anche stabilire se un delitto è stato commesso. Le poesie di Levi nascondevano qualcosa di non ancora ben collegato al resto, di non chiaro forse neppure al loro autore. Ho cercato di tendere dei fili, di chiarirmi i testi (gli indizi) mettendoli in relazione fra loro. Levi è uno scrittore estremamente chiaro: dunque secondo me è un mistero. Del resto, ho sempre avuto una speciale attrazione per gli scrittori cristallini, quasi fossero dei “casi” già risolti che mi chiamassero a ulteriori sospetti. Prendi Gadda: è un magnifico prosatore, compiaciutamente disperato, ma le sue complicazioni tetre e voluttuose additano vistosamente una psiche e una filosofia. Con Levi è tutto diverso.
LB: Ci racconti che cosa sono "i Totem della poesia" del titolo?
RISPOSTA: Sono quelle figure atemporali che albergano nei suoi versi, quegli esseri antichi, uomini, animali, piante, che sembrano attingere nelle sue poesie una base profonda della nostra mente, o una fase primigenia del nostro sviluppo. Levi ha vissuto un’esperienza che per 99 persone su cento è stata terminale: è stato respinto indietro in una fase della natura in cui la lotta per la sopravvivenza è stata totalizzante. Ho creduto di individuare in quella regressione dallo “stato civile” – e nella resistenza sovraumana che ha consentito a Levi di sopravvivere – una condizione che potesse tradursi in quegli emblemi di salvezza, durata, insidia, aridità.
LB: Mi è parso un libro che ti ha lasciato addosso dei desideri di
approfondimento. Mi sbaglio? Se no, quali sono?
RISPOSTA: Quando finisco un libro saggistico (mi è successo con Palazzeschi, con Saba, con la figura dell’Idiota e recentemente con Caproni e Seamus Heaney) provo il desiderio di distaccarmene. Non sono uno studioso accanito o accademico, non mi installo in osservatori permanenti. Cerco soltanto di illuminare una strada, di cucire intuizioni, contribuendo alle opere di chi verrà. Facendo lo stesso mestiere degli scrittori che indago, ogni saggio è anche potenzialmente un autoritratto, parziale e obliquo. L’autoritratto deve trovare altre stazioni e altre maschere, altrimenti rischierebbe di appropriarsi troppo violentemente del proprio oggetto e travisarlo. C’è anche altro, però. Quando dico “autoritratto”non alludo a un volgare adattamento dello scrittore che analizzo a me che ne scrivo. Ogni volta che leggo a fondo un autore cerco di capire qualcosa di più sulla letteratura, sui suoi enigmi, e dunque su ciò che capita anche a me quando scrivo versi o prosa. Solo in questo senso ciò che comprendo riverbera su di me e mi definisce. E ancora: non posso escludere che, leggendo in futuro testi di storia, di antropologia o di psicoanalisi, non s’inneschi in me un’altra “fantasia critica” da verificare sulle opere di autori che ho già affrontato, fra cui Primo Levi.
RISPOSTA: Quando finisco un libro saggistico (mi è successo con Palazzeschi, con Saba, con la figura dell’Idiota e recentemente con Caproni e Seamus Heaney) provo il desiderio di distaccarmene. Non sono uno studioso accanito o accademico, non mi installo in osservatori permanenti. Cerco soltanto di illuminare una strada, di cucire intuizioni, contribuendo alle opere di chi verrà. Facendo lo stesso mestiere degli scrittori che indago, ogni saggio è anche potenzialmente un autoritratto, parziale e obliquo. L’autoritratto deve trovare altre stazioni e altre maschere, altrimenti rischierebbe di appropriarsi troppo violentemente del proprio oggetto e travisarlo. C’è anche altro, però. Quando dico “autoritratto”non alludo a un volgare adattamento dello scrittore che analizzo a me che ne scrivo. Ogni volta che leggo a fondo un autore cerco di capire qualcosa di più sulla letteratura, sui suoi enigmi, e dunque su ciò che capita anche a me quando scrivo versi o prosa. Solo in questo senso ciò che comprendo riverbera su di me e mi definisce. E ancora: non posso escludere che, leggendo in futuro testi di storia, di antropologia o di psicoanalisi, non s’inneschi in me un’altra “fantasia critica” da verificare sulle opere di autori che ho già affrontato, fra cui Primo Levi.
LB: Collegandomi alla precedente domanda, vorrei dire che di Levi si è
scritto molto negli ultimi anni ma che forse l'iceberg della sua scrittura
debba essere in parte ancora perlustrato. Concordi? E se concordi, in quali
direzioni sposteresti la sonda dell'attenzione critica?
RISPOSTA: Trovo che quanto si è scritto su Levi sia spesso di ottima qualità. Il suo stile chiaro, unito alla estremità delle sue esperienze e al suicidio, ha attirato chi ha sentito il bisogno di collegarli, di spiegarli a vicenda. Questo è forse “il” tema leviano, lì si annidano i saggi futuri su di lui.
RISPOSTA: Trovo che quanto si è scritto su Levi sia spesso di ottima qualità. Il suo stile chiaro, unito alla estremità delle sue esperienze e al suicidio, ha attirato chi ha sentito il bisogno di collegarli, di spiegarli a vicenda. Questo è forse “il” tema leviano, lì si annidano i saggi futuri su di lui.
LB: Un capitolo del tuo libro si sofferma sull'umorismo in Levi, tema ripreso più volte eppure mai domo. Da quali premesse muove quella parte importante del tuo saggio?
RISPOSTA: Dall’amore per gli aspetti paradossali di un autore,
altrimenti “fissato” dalla critica precedente in un ruolo o addirittura in un
umore. Il ruolo di Levi è stato a lungo quello di testimone dell’assoluto
negativo, di razionalizzatore dell’assurdo, di notaio dell’iniquità. Invece
sappiamo bene che Primo Levi ha molti strati e pieghe segrete, che nutrono un
eccezionale genio narrativo e saggistico. Il mio saggio comincia, quasi
provocatoriamente, mettendo in risalto il piacere leviano della scrittura
efficace e avvincente. Anche l’umorismo è un aspetto rilevante, insidioso e
multiforme, del Levi maggiore, ma rischiava di rimanere sommerso nella grande,
nobilitante e asfittica idea che abbiamo di lui.
LB: Vorrei fare un piccolo esperimento. Vorrei che tu scegliessi una
poesia a tuo avviso importante nel "sistema periodico" leviano e che
provassi a dire perché lo è. Pubblicherei la poesia alla fine della tua
intervista...
RISPOSTA: La poesia è Fuga. È un incubo di aridità, che è quella del mondo e forse quella dell’Io. Non si sopravvive al Lager se non si perde tutta o molta della propria umana “umidità”. Al tempo stesso, lo stile del testimone deve essere oggettivo e senza fioriture. Forse in questa poesia enigmatica ed esemplare Levi sta cercando di dire che vorrebbe fuggire da sé stesso, dal proprio ruolo, oltre che dal proprio passato. Ma questa fuga è inane. Nel libro, poi, collego la poesia a un episodio che Levi raccontò in I sommersi e i salvati, e che sembra chiarirne il messaggio nascosto.
RISPOSTA: La poesia è Fuga. È un incubo di aridità, che è quella del mondo e forse quella dell’Io. Non si sopravvive al Lager se non si perde tutta o molta della propria umana “umidità”. Al tempo stesso, lo stile del testimone deve essere oggettivo e senza fioriture. Forse in questa poesia enigmatica ed esemplare Levi sta cercando di dire che vorrebbe fuggire da sé stesso, dal proprio ruolo, oltre che dal proprio passato. Ma questa fuga è inane. Nel libro, poi, collego la poesia a un episodio che Levi raccontò in I sommersi e i salvati, e che sembra chiarirne il messaggio nascosto.
LB: Per concludere, vorrei fare un altro esperimento mentale, forse
bislacco perché proiettato dopo la morte di Levi. Secondo te, se dovesse
aggiornare oggi la sua La ricerca delle radici, quali scrittori tra
quelli venuti dopo di lui potrebbe includere Levi nella sua personalissima
antologia?
RISPOSTA: Beh, La ricerca delle radici antologizzava le letture che Levi riteneva fondanti o formative per la propria giovinezza o per la fase decisiva della propria attività letteraria. Difficile dire se avrebbe trovato “radici” nella letteratura degli anni ’90 o Duemila. Credo che avrebbe fatto rimare alcune preferenze con molte indifferenze. E allora chiudo con una battuta: forse avrebbe incluso fra le sue radici un brano di Primo Levi e i totem della poesia!
RISPOSTA: Beh, La ricerca delle radici antologizzava le letture che Levi riteneva fondanti o formative per la propria giovinezza o per la fase decisiva della propria attività letteraria. Difficile dire se avrebbe trovato “radici” nella letteratura degli anni ’90 o Duemila. Credo che avrebbe fatto rimare alcune preferenze con molte indifferenze. E allora chiudo con una battuta: forse avrebbe incluso fra le sue radici un brano di Primo Levi e i totem della poesia!
Fuga
Roccia e sabbia e non acqua
Sabbia trapunta dai suoi passi
Senza numero fino all’orizzonte:
Era in fuga, e nessuno lo inseguiva.
Ghiaione trito e spento
Pietra rosa dal vento
Scissa dal gelo alterno,
Vento asciutto e non acqua.
Acqua niente per lui
Che solo d’acqua aveva bisogno,
Acqua per cancellare
Acqua feroce sogno
Acqua impossibile per rifarsi mondo.
Sole plumbeo senza raggi
Cielo e dune e non acqua
Acqua ironica finta dai miraggi
Acqua preziosa drenata in sudore
E in alto l’inaccessa acqua dei cirri.
Trovò il pozzo e discese,
Tuffò le mani e l’acqua si fece rossa.
Nessuno poté berne mai più.
Febbraro fa molto per la conoscenza della poesia e questo suo libretto ne è ulterior riprova. Buona giornata, andrea
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