mercoledì 25 dicembre 2013

Daniel Chamovitz ci racconta "quel che una pianta sa" in una guida ai "sensi" del mondo vegetale

Quanti di voi hanno una madre che parla alle piante? Non si tratta di follia, è una pratica diffusa, che ho riscontrato a più riprese: per far crescere sane le proprie piante sembra sia bene parlar loro a lungo. E di quante espressioni "vegetali" si è arricchito il nostro lessico? Pensiamo solo alla metafora-limite usata in ambito pseudomedicale: "ridotto a un vegetale". Che cosa sanno le piante? Che cosa percepiscono? Fino a che punto è corretto spingere l'immagine dei nostri sensi applicati al mondo vegetale, ovvero il parallelismo che guida e informa tutto questo bel libro del biologo israeliano Daniel Chamovitz? L'autore, direttore del Manna Center for Plant Biosciences all’Università di Tel Aviv, è riuscito a stendere un saggio ampiamente divulgativo su un tema potenzialmente insidioso e non certo facile, come potrebbe sembrare ad una prima vista. Il libro di cui oggi disponiamo in italiano (Raffaello Cortina Editore, pp. 174, euro 18, traduzione di Pier Luigi Gaspa) è scritto nella migliore prosa divulgativa di stampo anglosassone (quando scrivo "anglosassone" intendo anche: una tradizione e una cultura scientifica di base che, coadiuvate da impianti legislativi normali e da una giustizia messa in condizione di operare in condizioni normali, non danno solitamente vita a casi-baggianate, mostruosamente esiziali, come il recente caso tutto italiano "Stamina").

Il libro di Chamovitz, inserito nella bella e duratura collana "Scienza e idee" diretta da Giulio Giorello, non mancherà di interessare colleghi biologi, lettori curiosi e probabilmente persino i tanti neuroscienziati sparsi nel mondo. Con una prosa sempre accogliente, il nostro autore si chiede via via che cosa una pianta vede, annusa, prova, ode, come fa a capire dove si trova e persino quel che una pianta ricorda. Penso all'interesse che questo libro e la biologia vegetale può suscitare oggi, dopo la "sbornia" neuroscientifica e la grande promessa che certe imprese neuroscientifiche non sono state forse in grado di mantenere. Le piante infatti sembrano infatti il percorso più lontano dell'evoluzione da quella cosa che riconosciamo e chiamiamo "cervello". Chamovitz si guarda bene dal ripercorrere la strada di libri fortunati ma carenti dal punto di vista scientifico come La vita segreta delle piante di Tompkins e Bird, responsabile di una pesante ricaduta che per anni ha reso tutti diffidenti verso parallelismi e avvicinamenti tra piante e umani. Da quel che mi pare di registrare, allargando la visuale, mi sembra che da più parti (anche dalla sponda filosofica, come ad esempio nel recente Filosofia dell'animalità di Felice Cimatti) arrivi l'appello ad una maggiore distinzione tra i regni del vivente, a un nuovo compito di tracciatura di contorni e confini, per nuove definizioni, all'insegna di un rinnovato punto di partenza che asitonticamente vira verso un socratico saper di non sapere.

Chamovitz è naturalmente consapevole della diffidenza che il testo di Tompkins e Bird ha causato e si muove quindi con circospezione, partendo spesso da un'analisi semantica del "senso vegetale" che di volta in volta intende analizzare. La sua è una ricognizione aggiornata sulla letteratura scientifica prodotta negli ultimi due decenni, in un buon equilibrio tra excursus storico e stato dell'arte. Ne scopriremo davvero delle belle, come le analisi sulle povere piante martoriate a furia di Hendrix, Led Zeppelin, Mozart o Meat Loaf e troveremo indicazioni di video singolari come quello a cui vi rimando. Per restare all'apertura di questo intervento - alle nostre madri o nonne che parlano alle piante per farle crescere meglio - ciò che si ricava dal libro è che forse proprio l'udito è il senso più lontano dal mondo vegetale, anche se con le recenti mappature e sequenziamenti si sono scoperti dei geni "sordi" che uomini e piante condividono. Ma in fondo la scienza è una questione di definizioni, un discorso e una prassi che da secoli prende forma da un metodo scientifico e si esprime in un linguaggio che per statuto non può conoscere polisemia. Ora provo a indovinare che se un giorno cambierà la nostra definizione di "udito", forse potremmo scoprire una maggiore vicinanza con il mondo vegetale pure in questo "senso"; fuor di metafora arrivare a capire meglio quei geni "sordi" che condividiamo con le piante e di cui scrive anche Chamovitz.

Quel che una pianta sa è un libro del quale potete fidarvi, perché scritto con quella prudenza speculativa di cui la scienza, quando segue davvero il "metodo scientifico", non può fare a meno. Persino nel suo Epilogo Chamovitz raduna le forze per invocare prudenza attorno a una parola difficile come "intelligenza": se partiamo dall'assunto che una pianta è priva di cervello, qualsiasi descrizione antropomorfica e parallelismi come quello coi sensi umani, alla base di un simile libro, rischiano di essere minati alla base. Chamovitz è attentissimo nell'uso delle parole, in questo informato e appassionante saggio di biologia vegetale. Lascio a lui il finale:

"Ciò che dobbiamo capire a un livello più generale è che noi condividiamo la biologia non soltanto con le scimmiette e con i cani, ma che con le begonie e le sequoie. Quando ammiriamo il nostro roseto in piena fioritura, dovremmo considerarlo alla stregua di un cugino molto lontano, sapendo che, proprio come lui, possiamo distinguere ambienti complessi, e che condividiamo geni comuni. Quando guardiamo un'edera abbarbicarsi a una parete, stiamo guardando quello che, se non vi fosse stato un remoto incidente probabilistico, sarebbe potuto essere il nostro futuro. Stiamo osservando un altro possibile risultato della nostra stessa evoluzione, un risultato che ha imboccato una strada diversa circa due miliardi di anni fa.
La condivisione di un passato genetico non nega eoni di evoluzione separata. Anche se le piante e gli esseri umani mantengono capacità parallele di percepire ed essere consapevoli del mondo fisico, sentieri indipendenti dell'evoluzione hanno condotto a una caratteristica tipicamente umana, intelligenza a parte, che le piante non posseggono: la capacità di interessarsi alle cose e di prendersi cura di loro".

Ciao Darwin, ben ritrovato.

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