Oppurtuno dare qualche coordinata. Nel 1933, "non solo come ebreo, ma anche come oppositore di Hitler" Sahl lascia la Germania. Passa per Praga, Zurigo (è in Svizzera che incrocia Ignazio Silone) e poi staziona a Parigi per un bel po'. Vive lì e spancia di brutto in quella che finì per chiamarsi drôle de guerre, ovvero quei mesi surreali-tragici che precedettero il pieno dispiego delle operazioni militari. Il primo libro di poesia che pubblica esce in America nel 1942 e si intitola Le chiare notti, sottotitolato Poesie dalla Francia e qua si concentrano davvero tutti gli anni francesi, l'esperienza dei campi di internamento dove finisce anche Walter Benjamin. Bellissimo, in questo primo libro, è il gruppo di poesie intitolate a Marsiglia, dove Sahl nel 1941 attende la nave che lo porta in salvo, dall'altra parte dell'Atlantico, e dove collabora attivamente anche con Varian Fry e la sua organizzazione che aiutò duemila intellettuali e artisti a fuggire da Hitler (tanto da meritarsi un film e il soprannome di "Shindler" degli artisti, oltre a altri riconoscimenti post mortem). A New York Sahl rimase per quasi tutta la vita, fino al 1989, con una parentesi di rientro non ancora "maturo" in Germania a fine anni Cinquanta. Per la cronaca, negli Stati Uniti Sahl visse di giornalismo (importanti collaborazioni come corrispondente di testate tedesche) e traduzioni (Arthur Miller, Eugene O'Neill, Thornton Wilder e Tennessee Williams).
Andando più dentro questo libro, senza invaderlo troppo, c'è da notare una forte componente pseudodiaristica nei diversi nuclei che compongono le raccolte, radunate sotto il bellissimo e apertissimo titolo del volume italiano ("Mi rifiuto di scrivere un necrologio per l’uomo come se fosse / un incidente biologico / tra due epoche glaciali"). Ed è sicuramente altrettanto forte il senso dell'essere testimone. Il volume Le chiare notti. Poesie dalla Francia lascia poi posto nel libro di Del Vecchio a una nutrita antologia dei libri che seguirono, distanziati di molti anni uno dall'altro: Noi siamo gli ultimi. Poesie del 1976 e Noi siamo gli ultimi. La talpa del 1991. E in tutto questo percorso di poesia però è come se ricadessimo, anche con l'immaginazione, in quei fondamentali anni trascorsi in Francia, anni di fame, sospetto, "esilio nell'esilio", solitudine radicale e radicalizzata. La migrazione e l'esilio furono forzate, necessarie, e tuttavia divennero poi scelta, conferma quotidiana. Visto che la curatrice conosce bene la materia di cui scrive, lascio la parola a Nadia Centorbi e rimando alla fine del post per un link contenente un gruppo di testi della raccolta. Nel suo saggio introduttivo intitolato Il cristallo nella lavina, Centorbi marca bene lo scivolamento lirico dalla prima raccolta alle successive:
"la centralità dell'io sembra dissolversi nella coralità di un soggetto lirico polimorfo, in quel noi che scandisce ossessivamente la sequenza lirica. Attraverso il noi il destino individuale del poeta si identifica con il destino di molti altri esuli incontrati, incrociati o semplicemente presenti nella schiera di quanti furono segnati dall’esperienza della fuga dalla patria. Con ciò, il poeta suggerisce che nell’esperienza dell’esilio, che egli ha condiviso con migliaia di altri profughi, non esiste un destino d’eccezione che possa valere su tutti gli altri come modello emblematico: tutti gli esuli, al di là delle diverse peculiarità che ne scandirono le rotte, costituiscono un unico coro, condividendo omogeneamente le stesse difficoltà, lo stesso martirio della persecuzione, della fuga nonché del disorientamento derivato da un’esistenza irreparabilmente stravolta. A differenza delle poesie del primo ciclo poetico, nei componimenti più tardi Sahl non cede alla malia di centralizzare la sua personale esperienza di esule e perseguitato. All’estemporaneità dei versi della fuga subentra la responsabilità morale di preservare una “memoria dell’esilio” che attecchisce, appunto, nella coralità del noi [...]."
Vorrei chiudere con due plausi. Il primo per il lavoro di cura e traduzione della giovane Nadia Centorbi, che non posso giudicare appieno ma che trovo centrato e coerente nella lingua d'arrivo. (Nadia Centorbi è autrice anche di due saggi che appaiono davvero unici nel panorama, uno del 2011 sull'androginia nella letteratura tedesca e l'altro del 2009 sulla poesia di Gottfried Benn e l'estraneità della patria, un tema che ora evidentemente s'incastra e s'arricchisce di questo lavoro su Sahl.) Il secondo plauso, già accennato, per l'editore Del Vecchio, una casa editrice nata a Roma soltanto nel 2007 e che a mio avviso rappresenta la più bella sorpresa del panorama italiano dell'ultimo lustro. Per approfondire vi consiglio davvero un giretto qui: propagazione del catalogo appassionante e volumi contraddistinti da una cura e soprattutto da una progettazione grafica che non si vedevano da tempo, affidate all'enfant terrible della comunicazione visiva Maurizio Ceccato e IFIX.
(Rinvio al blog di poesia di Ottavio Rossani su Corriere.it per la lettura di qualche testo di Hans Sahl nella traduzione di Nadia Centorbi. Sempre per Del Vecchio Editore segnalo che è appena uscito il libro - stavolta davvero breve - I passanti di Laurent Mauvigner, un "campione del libro breve" e autore del discusso Storia di un oblio.)
Il tuo ragionamento su case editrici e poesia non è dimostrabile ma forse fila e mi pare alla fine anche abbia un fondamento. Di sicuro manca scelta. A volte le collane di poesia e certe pubblicazioni sembra come moneta di scambio... Tuttavia non sono cose dimostrabili, anche se ha senso ogni tanto parlarne, senza che diventi un'ossessione. Maria D. ps. Del vecchio è una bella casa editrice, concordo
RispondiEliminaCerto Maria. Grazie. Nessuna ossessione, solo discussione. Un saluto. Alberto
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