Leggere una Grande Guerra #2
Una poesia da #35
"Leggere
una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei
libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con
un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello
internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o
meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o
stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni
che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le
segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica.
(In coordinamento con World War I Bridges).
Del poeta "austro-ungarico" Gustav Heinse non so se sia mai uscito qualcosa in italiano prima di questo volume intitolato Il monte in fiamme, Ai morti del San Michele e di San Martino del Carso, 1915/1916 1937 (Kolibris Edizioni, euro 12, a cura di Paola Maria Filippi). Non so nemmeno se esistano altre case editrici altrettanto attive nelle nuove traduzioni e il merito va ascritto alla principale animatrice di queste edizioni, Chiara De Luca (intervistata qui). Questo libro ha duplice valenza: colma un vuoto di traduzione di un importante poeta e arriva nel periodo "caldo" del Centenario. Heinse, al secolo Josef Klein, nacque nel 1896 a Herceg Novi (Castelnuovo, Dalmazia). Morì a Sofia nel 1971 da dove risiedeva dal lontano 1924. In queste righe veloci si ricordi soltanto il suo grande operato di traduttore e mediatore di culture, un vero facitore di ponti. E certo non è da escludere che l'esperienza della Prima guerra mondiale abbia deviato in tutto e per tutto il corso della sua vita. Il suo impatto con la trincea e la guerra lo trasforma presto in un esponente del pacifismo e filantropismo (guerra come punto più basso della civilizzazione). La sua è una poesia che non ci sembra poi così lontana da noi nei toni, nelle scelte e nelle omissioni. Da tempo poi penso che quella zona corrispondente all'attuale confine italo-sloveno abbia fatto bene alla storia della poesia e della letteratura europea globalmente intesa. Lascio riempire a voi le caselle coi nomi, io ci aggiungo anche questo di Heinse. Nella scelta del testo sono stato un po' guidato dalla recente rilettura di Un anno sull'Altipiano di Emilio Lussu, da quel "tornare in prima linea" che chiude la poesia di Heinse e dal significato di questo "ritorno" in Lussu, e poi dal ripensare le tante braccia che Lussu riprende alzarsi e abbassarsi freneticamente, dal fianco alla bocca e dalla bocca al fianco, per portare alle labbra la bottiglia di cognac prima di un assalto. Chi non ha vissuto l'assalto non ha potuto conoscere davvero quella guerra. Prima di lasciarvi alla poesia, ecco solo qualche notizia sulla guerra di Heinse, reperibile nel ricco contributo di Paola Maria Filippi:
"Josef Klein, allo scoppio della guerra, viene inviato sul fronte italiano. Presta servizio come ufficiale nel k.u.k. Ungarisches Infanterie Regiment “Rupprecht Kronprinz von Bayern” Nr. 43, creato nel 1914 e costituito per il 78% da rumeni, il 20% da magiari e il 2% da militari di altra nazionalità. La divisa era quella ungherese.
La difficoltà, o meglio l’impossibilità, di riconoscere negli italiani la controparte da annientare e le durissime vicende della guerra di trincea inducono Heinse a tener nota per iscritto di quanto accade attorno a lui, ma soprattutto delle sensazioni e dei sentimenti che lo frastornano. La scrittura lo aiuta a riflettere, rielaborare, a prendere le distanze, a sopravvivere. Rimarchevole in lui non solo la necessità di fissare esperienze che per un qualche aspetto lo hanno colpito, ma di volerlo fare sotto forma di diario, e di un diario particolare, in cui le parole e le frasi si dispongano quanto più possibile armonicamente, alla ricerca di un ordine più vincolante della libera struttura prosastica, in una consuetudine alla “compattezza”, che aiuti a prendere le distanze, a superare l’indicibilità degli accadimenti e delle impressioni. La ricerca di una forma “bella”, per altro, e più che mai, data la materia, non è certo fine a se stessa. Va inquadrata in una necessità assoluta di distanziazione, nel tentativo di recupero di una normalità che rimandi al “prima” dell’evento. Dicendo le cose “entro le norme” ci si sforza di operare per ricondurre disgregazione e caos entro la regolarità di un dire in precedenza riservato ai momenti, non della quotidianità, ma della nobilitazione del vivere, della contemplazione, dello spirito. Ma malgrado la ricerca di espressioni e formulazioni ricche di rime, assonanze, lemmi preziosi, Heinse percepisce con pena crescente la non appropriatezza di quel suo voler lavorare con strumenti che prima della barbarie potevano aiutare a gestire sofferenza e disagio, mentre ora si rivelano insufficienti non tanto a raccontare, ma quasi offensivi nei confronti di una esperienza indicibile, come egli stesso sosterrà molti anni dopo."
Comeno, 13 settembre 1916
Siamo riserve, nel porto sicuro,
dodici miglia nelle retrovie e mangiamo e dormiamo
da quindici giorni orfani delle paure
e dei mille supplizi.
A tratto a tratto la contraerea strepita sferzante
inseguendo un aereo sopra di noi.
E noi continuiamo a stravaccarci, a sonnecchiare, a sbadigliare
o facciamo di qualcuno il nostro diversivo.
Litighiamo e imprechiamo e giochiamo e beviamo,
per non sprofondare nella disperazione:
dobbiamo tornare in prima linea.
Comen, den 13. September 1916
Wir sind Reserve, im schützenden Hafen,
zwölf Meilen zurück und essen und schlafen,
seit vierzehn Tagen ledig der Ängste
und tausend Plagen.
Zuweilen poltern und peitschen Flaks,
wenn sie über uns einen Flieger jagen.
Wir räkeln uns weiter und dösen und gähnen
oder nehmen selber einen aufs Korn.
Wir hadern und fluchen und spielen und trinken,
um nicht in die Not des Verzagens zu sinken,
denn wir müssen wieder nach vorn.
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