Di Guido Cavani ho già avuto modo di scrivere, ripubblicando una vecchia recensione al suo romanzo più noto, Zebio Còtal, uscito per Feltrinelli nel 1961 per interessamento congiunto di Giorgio Bassani e Pier Paolo Pasolini, il quale ne firmò la prefazione (ora lo trovate nel catalogo di Isbn Edizioni). Cavani era prima di tutto poeta, e ciò si avverte segnatamente in questi Racconti, in particolar modo in quello in appendice, Il tramonto, l'unico che non troverete in un precedente volume intitolato Il fiume e altri racconti edito a Padova da Bino Rebellato nel 1970 (tre anni prima, a Modena, per l'editrice Cooptip erano usciti anche i Racconti in penombra). Per Cavani, la scrittura di racconti inizia molto prima, già negli anni Trenta e puntella un po' tutta la sua storia di scrittore. Troverete in questi racconti, che diversamente dallo Zebio non subirono il massiccio editing bassaniano, tutta la geografia, tutta una digestione verista e ermetica che arriva da lontano. Mi riferisco a certe scelte lessicali, alla descrizione dei climi e dell'atmosfera (intesa come atmosfera in senso meteorologico), e dell'azione degli uomini in quest'atmosfera. Quest'ultimi scivolano nel paesaggio e nella sua violenza, una violenza racchiusa a forza dentro una cornice che pare richiamare quella di Cesare Pavese, senza che nello scrittore modenese diventi però così marcata quella riflessione sul mito e sulla violenza che riconduce a Furio Jesi e ad altri studiosi.
La casa editrice Incontri di Sassuolo, nella meritoria ripubblicazione di questi racconti, ha scelto la mietitura di Bruegel per la copertina di questo libro che esce nella collana denominata "Kufferle", a cura di Nicola Caleffi e Guglielmo Leoni, con l'introduzione di Fabio Marri. Pure tra i non estimatori, come fu ad esempio Montale, Cavani seppe instillare il dubbio di un'arte che "sa legare i suoi personaggi al flusso delle acque, al
colore del cielo, al ribollimento delle spume e al volo delle anatre
selvatiche... Non dimenticheremo mai la pagina in cui il fischio di un
merlo diventa più importante di una situazione che si avvia alla
catastrofe." Non mancano in questi racconti le cose e le persone che popolavano le pagine del romanzo più noto, ma è come se il passo fosse controllato da un ritmo dimentico di quello della prosa, più vicino a una prosa poetica talvolta. Non a caso il già citato Il tramonto nacque come poemetto di endecasillabi: "È un sole rosso, rotondo, che mentre si coagula ha i battiti di un cuore umano. L'uomo ha sul volto nero la fatica del cammino, l'abbandono, che è la cosa più vera in lui. Entra cautamente sulla stradicciola, ma si capisce bene che non è fatto per entrare in nessuna casa. Le soglie sono ancora buie; tutta la gente è ancora nel campo perché è il tempo della mietitura. Sembra quasi che la notte sia calata in anticipo."
Leggendo questi brevi Racconti (pp. 104, € 12) non si possono dimenticare le parole di Pasolini sulla sua lingua, anche perché credo sia proprio la lingua di Cavani che oggi ci interessa maggiormente, forse più ancora delle sue storie, dei suoi personaggi e delle sue già citate atmosfere. La sua è una lingua che esce e scavalca la stagione ermetica. Scrive lo scrittore di Casarsa, tra le righe dove lo avvicina al regista giapponese Kenji Mizoguchi, che "[...] La sua lingua ha nel tempo stesso qualcosa di scialbamente provinciale e qualcosa di prodigiosamente extra-temporale. È un fatto, direi, per definizione italiano: se in Italia la società non abbraccia una rilevante zona media, e i dislivelli sono continui e drammatici. In provincia di Modena un uomo colto è con un piede nella melma piccolo-borghese e con l’altro nei regni della morte. È così divaricato che pare vivere il Cavani. Pare quasi impossibile poterlo un giorno percepire fisicamente: e, in realtà, egli vive in un’altra epoca storica – la quale, d’altronde, ci è ancora profondamente contemporanea. L’Italia è il paese dei «petits maîtres» ritardatari. Cavani è uno di questi. Solo che l’assolutezza che si usa attribuire ai piccoli maestri, ai minori in genere – l’assolutezza artigianale, o infantile, o angelica – non è poi reperibile, in Cavani, perché egli, benché ai margini – e ai confini dei regni della morte emiliana – è ancora uno di noi: la sua assolutezza non è del tipo canonico: è fatta anche di debolezza, di errore, di approssimazione, di miseria, di coscienza estetica, di aprioristica poeticità." Aggiungerei oggi che è fatta di quella temperatura che sta solitamente nella regione intermedia tra il sole e l'ombra, ed è spesso una regione penosa. E di penombra.
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