Sembra che il Veneto faccia parlar di sé. Tralasciando la cronaca politico-giudiziaria di questi ultimi tempi, qualche tempo fa anche il sito "Le parole e le cose" dedicava un intervento al "problema veneto", proprio in concomitanza con la premiazione di questo libro, e da quando la giuria del premio Calvino composta da Irene Bignardi, Maria Teresa Carbone, Matteo Di Gesù, Ernesto Ferrero ed Evelina Santangelo ha decretato Cartongesso (Einaudi, pp. 248, euro 19.50) vincitore di uno dei premi più prestigiosi, sembra tutto un nuovo puntare di riflettori sul caso veneto. Che cosa avrà mai di speciale questa zona d'Italia? Osservatorio privilegiato? Laboratorio inquietante del futuro? Zona cerniera tra Est e Nord dell'Europa? Exemplum del caso italiano nel suo complesso? C'è da dire che leggendo questo libro, almeno per una persona che ha speso in questa regione buona parte della propria vita, è tutto più semplice. Mi riferisco alla scrittura. I numerosi inserti dialettali, la sintassi, gli impliciti della dizione e dello sguardo risultano accessibili. Il libro, che non è ascrivibile a un genere ben preciso (né romanzo, né pamphlet) si apre con una memorabile e doverosa invettiva contro l'escalation della parola "territorio". Finalmente! Era ora che qualcuno dicesse del ribrezzo che tale parola provoca quando la si sente nella bocca dei politici, degli amministratori, degli operatori culturali (e c'è pure spazio per prendersela contro la rucola, sì, la rucola, anche se devo dire che avevo un amico che voleva fare la tesi di laurea sull'ascesa incontrastata della rucola tra tramezzini, bresaola e tagliata di manzo). Tutti ma proprio tutti si riempiono noiosamente e tristemente la bocca di territorio per poter meglio reificare il paesaggio e il conseguente consumo di suolo e risorse. Maino mostra sin dalle prime battute quello che è a mio avviso il punto di forza di questa proposta di lettura: una capacità ancora viva di fare critica sociale partendo e ritornando alle parole. Qui, prima ancora che nella geografia, sta a mio avviso l'interesse maggiore che si deve riservare a questo libro che per altri versi, durante la lettura, ha rischiato invece di lasciarmi pericolosamente indifferente, come qualcosa che ti dice "è così", "siete/siamo così", senza aggiungere nulla di nuovo al dato. Ma sto scendendo sul piano delle valutazioni personali e invece mi interessa parlare un po' di questo lavoro.
Quello che Maino dice (vomita?) descrivendo luoghi, persone, prassi di questa regione credo lo pensiamo davvero in molti tra i miei coetanei. La novità allora sta più nel come lo dice e nel fatto che abbia deciso di scrivere chiaro mostrando una preferenza per l'accumulo, per la paratassi, per il ricorso frequente al corsivo, per l'inserto dialettale (che talvolta però pare tradotto in modo rinunciatario e non capisco se è una scelta redazionale, visto che l'autore mostra invece di saper collocare esattamente l'inserto dialettale), per il gusto per il dato numerico ricorrente con il numero scritto in lettere seguito dal numero in cifre tra parentesi (il contrario di un assegno, circa), per l'affollamento in una pressoché totale assenza di trama che sembra ricalcare mimeticamente la devastazione morale, psicologica e urbanistica che è stata impressa su questa terra nel dopoguerra. L'impressione che il lettore ricava è quella di una violenta e copiosa vomitata, senza interruzioni. Non vi sono né capitoli né paragrafi. Tutto un continuum, una colata lavica (anzi no, di cemento) presto solidificata, un blocco massiccio dove non passa aria, un flusso di una fissità stordente dove si ricorda che tutto è già accaduto, che una generazione (quella dell'autore) era già morta e sepolta prima dei vent'anni e si trova ora morbosamente attaccata alla generazione precedente dei padri e delle madri. Anche tipograficamente l'impressione è questa: un unico blocco di testo dove passa pochissima luce. I temi allora sono in parte già in queste corde dello stile, e Maino dimostra di conoscere bene la materia trattata anche quando parla dei costruttori di case durante il boom della speculazione edilizia. Insomma l'autore non pecca certo di imprecisione, una caratteristica tipica della stampa locale, ad esempio, la quale faceva imbestialire colui che per alcuni versi potrebbe essere considerato un precursore di Maino. Mi riferisco a quel Vitaliano Trevisan che però scriveva ancora, a tutti gli effetti, dei romanzi e nel quale troviamo un'idea forte di romanzo risalente all'ossessione bernhardiana. La suddetta devastazione materiale e morale, l'ipocrisia grande, lo scempio, la fatica di vivere in un posto di massima degradazione psichica: nel libro di Maino troverete tutto questo. Detto diversamente potremmo pensare di tenere in mano il classico saggio di "antropologia del vicino", scritto però come mai un antropologo si sognerebbe di scrivere, una sorta di Marc Augé inferocito e incazzato che rumina Ruzante e forse anche Gadda dopo aver digerito Zanzotto.
Si parla di Veneto (anzi, di "veneto" con la minuscola) ma naturalmente lo sguardo potrebbe aprirsi a tutta la nostra penisola. La stessa giuria del premio Calvino scrive nella motivazione: "Un’invettiva
contro il disfacimento del Veneto (e, per sineddoche, dell’intera
nazione) e la sua trasformazione in un non-luogo di consumi banali, di
vite perse in una generale omologazione, di cui è emblema la corruzione
della parola." L'accento antropologico è evidente anche nel ricorso a una parola-spia come "non-luogo". Bella trovata quella dei non-luoghi, peccato abbia fatto il suo tempo però, a mio avviso: i non-luoghi di oggi saranno i veri luoghi di domani? E i luoghi rimasti oggi saranno i non-luoghi di domani? Di questo passo che senso avrà parlare di luoghi se si è definitivamente espunto un senso che definirei divino del luogo e del paesaggio? La cosa curiosa è però chiedersi cosa capiscono di questo libro fuori dal Veneto, quali siano le percezioni in altre regioni. Credo sia questo il punto o un punto. Chissà se Maino è andato in tour a presentare il libro e quali impressioni ha ricavato della lettura fuori dai confini regionali. Questo è un aspetto che mi interesserebbe approfondire. Una delle ragioni di utilità della pubblicazione di Cartongesso è proprio l'effetto che questo libro può causare fuori dal Veneto, perché non è tanto il circolo chiuso e forse asfittico che la lettura Veneto-Maino-veneto che mi interessa, bensì la reazione e percezione che lontano da qui si ha di queste pagine e di quello che vi si legge. Non mi interessa cosa pensano i miei amici e coetanei con i quali ci siamo detti mille volte, senza pensare di metterle in un libro, le cose che Maino scrive (magari qualcuno ha provato a farlo in una poesia), non mi interessa cosa pensano i leghisti rimasti che probabilmente questo libro di Maino non lo leggeranno mai, non mi interessa né chi adora né chi difende a spada tratta questa regione né chi ci vive dentro lamentandosi e criticandola continuamente, proprio ora che un'intera classe politica è sotto inchiesta giudiziaria. Non mi interessa cosa penserebbero di questo libro i miei genitori. Non mi interessa nulla di tutto questo. Mi interessa il fuori e il lontano da qui e piuttosto mi interesserebbe molto di più il pensiero dei giovani veneti che hanno appena fatto la maturità. A tratti, leggendo il libro di Maino, ho pensato a come il confine tra la grande utilità e la perfetta inutilità di queste pagine sia pericolosamente labile. (Forse questa labilità vale per ogni libro o quantomeno per molti libri.) Detto diversamente sto provando a dire che il destino di questa eruzione di Maino è davvero nelle nostre mani e dipende da chi la legge e la interpreta. Sono problemi di circolazione dell'opera letteraria. Chi si occupa di storia della letteratura lo sa bene e sa bene in quale assurdo cortocircuito comunicativo si trovasse ad esempio, proprio da queste parti, la ricezione comicotragica dell'opera di quel grande padovano del Cinquecento che di nome fa Angelo Beolco. In Cartongesso non si salva davvero nessuno, e non parliamo solo di Veneto/veneto. Non si salva proprio nessuno, nemmeno chi sorriderà o applaudirà leggendo queste pagine e penserà che Maino ha tutte le ragioni del mondo. Quindi? Quindi, ad un certo punto, sembra che l'unica soluzione per risorgere sia solo un distruttivo e azzerante "gratta e vinci". Un azzardo?
un non veneto, tra le altre cose, si preoccupa del fatto che, nella prosa di questo paese, che non fa altro che tentare in tutti i modi (vomito compreso) di spiegar(si) questo paese, l'abisso del dettaglio possa far perdere forza alla durata delle emozioni (come la rabbia), dei pensieri e anche dello stile.
RispondiEliminaanche un libro (in)sensato come quello di maino, è destinato forse a essere molto "breve", più di quanto si meriti la forza del suo livore.
secondo me, finché continuiamo con i romanzi "storici", rimarremo nella palude
astrazione ci va. ripulire la prosa dagli hic e dai nunc, ridare alle parole uno sbrego universale
e infatti questi sono anni di poesia
la prosa vince la sua sconfitta di pirro nell'illusione degli scaffali di librerie, quelle sì, sempre più astratte
ma sono anni di poesia
bell'articolo Alberto, accorato e dolente. Il libro non l'ho letto ma mi appresterò a farlo.
RispondiEliminaDa veneto che non vive più in veneto da 16 anni vorrei dire la mia sulla questione che credo centrale di questo intervento con una battuta. A Roma un vecchio caro giornalista, esperto di beghe letterarie della capitale, a mia domanda su Carlo Levi, scrittore che lui conosceva bene, mi ha raccontato che girava una barzelletta sul suo conto. Quando incontravi Levi per strada non ti chiedeva ma "come stai?" ma "come sto?"
Ecco il veneto e' proprio così. Quando torno da New York mi chiedono se il radicchio di Treviso in America vende bene.
LOVE
Grazie Fabio e Franco.
RispondiEliminaBell'articolo! Il libro l'ho appena finito. Una parola: potente!
RispondiEliminaLa ringrazio del commento. Un saluto
RispondiEliminaBell'articolo! Il libro l'ho appena finito. Una parola: potente!
RispondiElimina