Librobreve intervista #42
LB: Paula Fox e Janet
Fitch, e poi Alan Bennett e Elizabeth Bishop per Adelphi assieme a molti altri
lavori. A quale traduzione ti senti più legata e in un certo senso, magari, a
quale sei più grata, se così si può dire?
R: Sono parole che amo molto, “legata” e “grata”, perché rendono proprio lo slancio innato che mi rende indispensabile il tradurre, ovvero il desiderio di uno scambio profondo – di vissuti, di mondi e di emozioni. Per questa ragione, visto che è questo che mi preme, seleziono subito due autori per me fondamentali che ho tradotto, Janet Fitch e Alan Bennett, per motivi molto diversi. Forse però è doveroso precisare perché ho ‘scartato’ Paula Fox ed Elizabeth Bishop, che sono indubbiamente due autrici molto importanti. È semplicissimo: per me vita e scrittura sono la stessa cosa, una è l’esplorazione dell’altra. Poiché dunque io traduco come vivo, tendo a essere attratta dalle persone che non si difendono troppo nei confronti della vita, che affrontano di petto, e con generosità, ogni genere di avvenimento. Paula Fox ed Elizabeth Bishop a mio sentire interpongono un filtro fra quello che vivono e quello che tramutano in scrittura, sono troppo consapevoli della distanza fra le parole e le cose, e per questa ragione la traduzione dei loro testi per me è stata più difficoltosa.
Veniamo dunque a Janet Fitch e White Oleander, un libro che è uscito nel 2000 per Il Saggiatore con il titolo Oleandro Bianco. Posso solo dire che è uno dei romanzi che più ho vissuto in prima persona, arrivando a sentire fortemente ogni personaggio, anche nella parte che forse risulta meno essenziale (la seconda metà del libro). A tutt’oggi – e di anni ne sono passati – io ancora ‘sento’ la protagonista, Astrid, e Ingrid, la madre, come persone vive, delle quali avverto la necessità in ogni pagina. Nonostante la stesura finale della versione italiana sia andata incontro a ogni sorta di contrattempi su cui ora non intendo soffermarmi (in pratica il romanzo stava per uscire con la seconda parte che ancora non avevo revisionato), continuo ad avvertire che pulsa di vita, e – cosa importantissima – alcuni momenti del libro continuano a tornarmi in mente quando meno me l’aspetto.
Alan Bennett è un altro mondo ancora: The Uncommon Reader (La sovrana lettrice), uscito in italiano nel 2007, è un romanzo breve che in ogni riga mostra la sua vocazione teatrale: le descrizioni sono ridotte al minimo, i protagonisti sono caratterizzati da pochi tratti indispensabili, è un mondo intero che prende forma da poche osservazioni ironiche, geniali. Partecipazione assoluta dell’autore al suo universo, oltre che all’irresistibile protagonista, eppure presenza di quel velo che serve a rappresentare ogni dettaglio con il linguaggio più congruo. Che responsabilità – per chi traduce! Quante riscritture, quante revisioni, tentativi di rendere efficaci le battute anche per il lettore italiano. Con Adelphi si lavora sulle bozze come se si stesse scrivendo un testo nella lingua di arrivo, e io condivido questo modo di procedere, anche se i Translation Studies sarebbero pronti a metterci sotto processo…
R: Sono parole che amo molto, “legata” e “grata”, perché rendono proprio lo slancio innato che mi rende indispensabile il tradurre, ovvero il desiderio di uno scambio profondo – di vissuti, di mondi e di emozioni. Per questa ragione, visto che è questo che mi preme, seleziono subito due autori per me fondamentali che ho tradotto, Janet Fitch e Alan Bennett, per motivi molto diversi. Forse però è doveroso precisare perché ho ‘scartato’ Paula Fox ed Elizabeth Bishop, che sono indubbiamente due autrici molto importanti. È semplicissimo: per me vita e scrittura sono la stessa cosa, una è l’esplorazione dell’altra. Poiché dunque io traduco come vivo, tendo a essere attratta dalle persone che non si difendono troppo nei confronti della vita, che affrontano di petto, e con generosità, ogni genere di avvenimento. Paula Fox ed Elizabeth Bishop a mio sentire interpongono un filtro fra quello che vivono e quello che tramutano in scrittura, sono troppo consapevoli della distanza fra le parole e le cose, e per questa ragione la traduzione dei loro testi per me è stata più difficoltosa.
Veniamo dunque a Janet Fitch e White Oleander, un libro che è uscito nel 2000 per Il Saggiatore con il titolo Oleandro Bianco. Posso solo dire che è uno dei romanzi che più ho vissuto in prima persona, arrivando a sentire fortemente ogni personaggio, anche nella parte che forse risulta meno essenziale (la seconda metà del libro). A tutt’oggi – e di anni ne sono passati – io ancora ‘sento’ la protagonista, Astrid, e Ingrid, la madre, come persone vive, delle quali avverto la necessità in ogni pagina. Nonostante la stesura finale della versione italiana sia andata incontro a ogni sorta di contrattempi su cui ora non intendo soffermarmi (in pratica il romanzo stava per uscire con la seconda parte che ancora non avevo revisionato), continuo ad avvertire che pulsa di vita, e – cosa importantissima – alcuni momenti del libro continuano a tornarmi in mente quando meno me l’aspetto.
Alan Bennett è un altro mondo ancora: The Uncommon Reader (La sovrana lettrice), uscito in italiano nel 2007, è un romanzo breve che in ogni riga mostra la sua vocazione teatrale: le descrizioni sono ridotte al minimo, i protagonisti sono caratterizzati da pochi tratti indispensabili, è un mondo intero che prende forma da poche osservazioni ironiche, geniali. Partecipazione assoluta dell’autore al suo universo, oltre che all’irresistibile protagonista, eppure presenza di quel velo che serve a rappresentare ogni dettaglio con il linguaggio più congruo. Che responsabilità – per chi traduce! Quante riscritture, quante revisioni, tentativi di rendere efficaci le battute anche per il lettore italiano. Con Adelphi si lavora sulle bozze come se si stesse scrivendo un testo nella lingua di arrivo, e io condivido questo modo di procedere, anche se i Translation Studies sarebbero pronti a metterci sotto processo…
B: Ora la freccia del tempo nei tuoi lavori di traduzione sembra aver
improvvisamente preso una direzione verso tempi più lontani. Ci racconti di
Shelley?
R: Trovo molto interessante questo tuffo nel passato, che forse ho potuto affrontare solo dopo avere affinato i miei ‘strumenti’ su opere di autori contemporanei. Qualche anno fa, tramite un contatto con la casa editrice Marsilio, mi è stato chiesto di tradurre un poema lungo, Adonais, del poeta romantico Percy Bysshe Shelley, scritto e pubblicato nel 1821. Il volume in cui sarebbe stato incluso (la cui pubblicazione dovrebbe essere prevista per il prossimo settembre) porta il titolo di Adone, e racchiude varie opere di autori che hanno scritto la loro versione poetica di questo mito. Mi sento di fare queste precisazioni, perché, quando traduco, ho sempre presente il tipo di pubblicazione finale, e questa consapevolezza mi influenza molto nelle scelte. In questo caso, per esempio, ho sentito che non era indispensabile essere un’esperta dell’opera di Shelley (ci sono studiosi che sono molto più addentro di me nella conoscenza della scrittura di questo poeta romantico) ma che era fondamentale trovare una ‘voce’ per il poema in italiano che fosse viva, e convincente. Ho la sensazione di adottare sempre più un approccio ‘teatrale’ ai testi che traduco, nel senso che – istintivamente – concentro il lavoro seguendo un metodo che si potrebbe definire ‘stanislavskijano’, ovvero mirato a trovare le soluzioni che ritengo più idonee solo dopo aver ricercato una profonda immedesimazione con l’autore nel momento in cui si è trovato a scrivere quel particolare testo. Prendiamo l’Adonais: Adone per Shelley non è soltanto il mito omonimo, ma è anche John Keats. Shelley scrive infatti Adonais dopo aver saputo della morte del poeta e, soprattutto, mosso dal senso di angoscia derivante dal fatto di sapere quanto Keats fosse rimasto interiormente distrutto dalle critiche mosse al suo poema Endymion, proprio da alcuni degli intellettuali da lui ritenuti più influenti. In breve: nello scrivere Adonais, Shelley pensa a Keats, e nel pensare a Keats si identifica con lui, e pensa anche a se stesso, alla sua sorte di poeta. Io avrei dovuto innestarmi in questa ‘catena di immedesimazioni’. Come fare? Ho cercato di fare una prima stesura del poema solo dopo aver letto il più possibile di Shelley attinente a quel periodo. Lettere, altre opere e, in particolare, il saggio A Defence of Poetry (Difesa della poesia), che il poeta scrive nello stesso anno e a cui affida tutte le sue riflessioni sulla poesia. A ciò è seguita l’individuazione delle ‘forze universalizzanti’ che mi sembrava Shelley ritenesse fondamentali nella poesia: 1) la musica del verso; 2) l’elemento del piacere; 3) la personificazione; 4) le potenzialità della poesia legate all’infinito e, infine, 5) l’elemento divino della poesia. È proprio da queste ‘forze universalizzanti’ che ho cercato di farmi guidare nelle revisioni del poema, scegliendo non solo le parole ma anche la ritmica, o le sonorità, che più mi sembravano soddisfare queste ‘richieste’. Infine: rilettura ad alta voce, per sentire se c’era, questa voce, e correggere dove si indeboliva, dove non era abbastanza caratterizzata.
R: Trovo molto interessante questo tuffo nel passato, che forse ho potuto affrontare solo dopo avere affinato i miei ‘strumenti’ su opere di autori contemporanei. Qualche anno fa, tramite un contatto con la casa editrice Marsilio, mi è stato chiesto di tradurre un poema lungo, Adonais, del poeta romantico Percy Bysshe Shelley, scritto e pubblicato nel 1821. Il volume in cui sarebbe stato incluso (la cui pubblicazione dovrebbe essere prevista per il prossimo settembre) porta il titolo di Adone, e racchiude varie opere di autori che hanno scritto la loro versione poetica di questo mito. Mi sento di fare queste precisazioni, perché, quando traduco, ho sempre presente il tipo di pubblicazione finale, e questa consapevolezza mi influenza molto nelle scelte. In questo caso, per esempio, ho sentito che non era indispensabile essere un’esperta dell’opera di Shelley (ci sono studiosi che sono molto più addentro di me nella conoscenza della scrittura di questo poeta romantico) ma che era fondamentale trovare una ‘voce’ per il poema in italiano che fosse viva, e convincente. Ho la sensazione di adottare sempre più un approccio ‘teatrale’ ai testi che traduco, nel senso che – istintivamente – concentro il lavoro seguendo un metodo che si potrebbe definire ‘stanislavskijano’, ovvero mirato a trovare le soluzioni che ritengo più idonee solo dopo aver ricercato una profonda immedesimazione con l’autore nel momento in cui si è trovato a scrivere quel particolare testo. Prendiamo l’Adonais: Adone per Shelley non è soltanto il mito omonimo, ma è anche John Keats. Shelley scrive infatti Adonais dopo aver saputo della morte del poeta e, soprattutto, mosso dal senso di angoscia derivante dal fatto di sapere quanto Keats fosse rimasto interiormente distrutto dalle critiche mosse al suo poema Endymion, proprio da alcuni degli intellettuali da lui ritenuti più influenti. In breve: nello scrivere Adonais, Shelley pensa a Keats, e nel pensare a Keats si identifica con lui, e pensa anche a se stesso, alla sua sorte di poeta. Io avrei dovuto innestarmi in questa ‘catena di immedesimazioni’. Come fare? Ho cercato di fare una prima stesura del poema solo dopo aver letto il più possibile di Shelley attinente a quel periodo. Lettere, altre opere e, in particolare, il saggio A Defence of Poetry (Difesa della poesia), che il poeta scrive nello stesso anno e a cui affida tutte le sue riflessioni sulla poesia. A ciò è seguita l’individuazione delle ‘forze universalizzanti’ che mi sembrava Shelley ritenesse fondamentali nella poesia: 1) la musica del verso; 2) l’elemento del piacere; 3) la personificazione; 4) le potenzialità della poesia legate all’infinito e, infine, 5) l’elemento divino della poesia. È proprio da queste ‘forze universalizzanti’ che ho cercato di farmi guidare nelle revisioni del poema, scegliendo non solo le parole ma anche la ritmica, o le sonorità, che più mi sembravano soddisfare queste ‘richieste’. Infine: rilettura ad alta voce, per sentire se c’era, questa voce, e correggere dove si indeboliva, dove non era abbastanza caratterizzata.
LB: Mi
parlavi del lavoro presente su Byron...
R: Byron l’ho incontrato mentre inseguivo Shelley… Dicevo prima che tradurre per me è vivere, in effetti nella vita e nella traduzione mi accade la stessa cosa: conosco persone indispensabili che mi portano a incontrare altre persone indispensabili. Devo dire che verso Byron mi ha fatto ‘virare’ una mia amica compositrice di Venezia, Letizia Michielon, la quale dopo aver letto la mia raccolta di poesie Luce ritirata (dove parla in prima persona la scultrice francese Camille Claudel), ha ritenuto che io potessi dare voce al personaggio quasi muto di Astarte che compare nel poema Manfred (1817) di George Gordon Byron. Letizia voleva scrivere le musiche, ma voleva una voce per Astarte, che nel poema si limita a pronunciare poche battute.
Possiamo parlare di traduzione anche in questo caso? Io ritengo di sì, anche se mi rendo conto che la mia affermazione è del tutto discutibile. Traduzione per me significa movimento verso l’altro da sé, non attaccamento al proprio ego, esplorazione di altri esseri, e non necessariamente umani, e non necessariamente viventi…
L’esperienza di tradurre è commovente perché io sento con tutta me stessa che gli scrittori, o – più in generale – le creature che accudisco poi finiscono per aiutarmi nei momenti difficili, o per spalancarmi un nuovo orizzonte quando comincio a sentirmi intrappolata entro i limiti soffocanti di mondi noti. Anche Byron ha fatto questo per me: per dare voce a Astarte, e scrivere i testi che sono confluiti nella breve raccolta Le parole sono respiro – a loro volta tradotti in musica da vari compositori contemporanei (fra cui Letizia Michielon), e l’anno scorso interpretati alle Sale Apollinee della Fenice di Venezia – ho letto lettere di Byron, biografie, libri che indagano il suo rapporto forse incestuoso con la sorella Augusta, che mi sembrava essere alla base della necessità che aveva dato vita al poema Manfred, e forse all’imperativo di lasciare Astarte (Augusta?) quasi letteralmente senza parole.
Byron poeta è come Byron uomo, e cioè estremamente contagioso: non dà tregua, in lui un interesse segue a un altro, una curiosità ne scatena mille ulteriori, il vissuto scivolato nel passato chiede di vivere altre miriadi di esperienze nel presente, quasi senza respiro…
Ecco perché adesso sto traducendo il suo poema Parisina, ispirato alla misteriosa vicenda tutta ferrarese di Ugo e Parisina, in cui – inutile dirlo – anch’io (originaria e tuttora vivente e amante perenne della città estense) non posso fare a meno di sprofondare. Ho letto le lettere che Byron ha scritto da Ferrara, e quanto mi suggestiona immaginarmi lui che nell’Ottocento arriva nella mia città, si fa chiudere nella cella dove era prigioniero il Tasso, legge manoscritti, si lascia sedurre da Ugo e Parisina… si può forse resistere alla tentazione di seguire le orme del grande poeta romantico?
R: Byron l’ho incontrato mentre inseguivo Shelley… Dicevo prima che tradurre per me è vivere, in effetti nella vita e nella traduzione mi accade la stessa cosa: conosco persone indispensabili che mi portano a incontrare altre persone indispensabili. Devo dire che verso Byron mi ha fatto ‘virare’ una mia amica compositrice di Venezia, Letizia Michielon, la quale dopo aver letto la mia raccolta di poesie Luce ritirata (dove parla in prima persona la scultrice francese Camille Claudel), ha ritenuto che io potessi dare voce al personaggio quasi muto di Astarte che compare nel poema Manfred (1817) di George Gordon Byron. Letizia voleva scrivere le musiche, ma voleva una voce per Astarte, che nel poema si limita a pronunciare poche battute.
Possiamo parlare di traduzione anche in questo caso? Io ritengo di sì, anche se mi rendo conto che la mia affermazione è del tutto discutibile. Traduzione per me significa movimento verso l’altro da sé, non attaccamento al proprio ego, esplorazione di altri esseri, e non necessariamente umani, e non necessariamente viventi…
L’esperienza di tradurre è commovente perché io sento con tutta me stessa che gli scrittori, o – più in generale – le creature che accudisco poi finiscono per aiutarmi nei momenti difficili, o per spalancarmi un nuovo orizzonte quando comincio a sentirmi intrappolata entro i limiti soffocanti di mondi noti. Anche Byron ha fatto questo per me: per dare voce a Astarte, e scrivere i testi che sono confluiti nella breve raccolta Le parole sono respiro – a loro volta tradotti in musica da vari compositori contemporanei (fra cui Letizia Michielon), e l’anno scorso interpretati alle Sale Apollinee della Fenice di Venezia – ho letto lettere di Byron, biografie, libri che indagano il suo rapporto forse incestuoso con la sorella Augusta, che mi sembrava essere alla base della necessità che aveva dato vita al poema Manfred, e forse all’imperativo di lasciare Astarte (Augusta?) quasi letteralmente senza parole.
Byron poeta è come Byron uomo, e cioè estremamente contagioso: non dà tregua, in lui un interesse segue a un altro, una curiosità ne scatena mille ulteriori, il vissuto scivolato nel passato chiede di vivere altre miriadi di esperienze nel presente, quasi senza respiro…
Ecco perché adesso sto traducendo il suo poema Parisina, ispirato alla misteriosa vicenda tutta ferrarese di Ugo e Parisina, in cui – inutile dirlo – anch’io (originaria e tuttora vivente e amante perenne della città estense) non posso fare a meno di sprofondare. Ho letto le lettere che Byron ha scritto da Ferrara, e quanto mi suggestiona immaginarmi lui che nell’Ottocento arriva nella mia città, si fa chiudere nella cella dove era prigioniero il Tasso, legge manoscritti, si lascia sedurre da Ugo e Parisina… si può forse resistere alla tentazione di seguire le orme del grande poeta romantico?
LB: C’è un poeta e un narratore che vorresti tradurre o ritradurre?
R: Vorrei imparare il tedesco per tradurre (per me, visto che è già tradotto) R. M. Rilke, il russo per tradurre (sempre per me, visto che lo sta traducendo in toto la meravigliosa Serena Vitale) Osip Mandel’štam, lo spagnolo per tradurre (per me) le opere di Javier Marías che ha scritto e che scriverà e – soprattutto – vorrei ritradurre (per me) tutto Shakespeare perché solo dentro le sue opere si sente la vita – tutta… che ne dici del mio idealismo romantico?
LB: Da quali grandi traduttori italiani senti di aver appreso di più?
R: Certamente da Serena Vitale (nella foto a lato), che ho appena nominato, anche se non so il russo, perché anche lei per tradurre entra nel mondo dei ‘suoi’ autori, li fa propri e posso percepire questo – pur non conoscendo la lingua di partenza – nelle splendide versioni che ci dona, e nei testi che scrive lei stessa. Per quanto riguarda la poesia non posso non nominare Cristina Campo – le sue traduzioni di John Donne mi si sono imposte come manifesti di bellezza al di là e in accompagnamento alla sconvolgente bellezza della poesia di John Donne. Ma anche Anna Nadotti e Fausto Galuzzi, per aver dato vita all’universo di A. S. Byatt, un’autrice che ammiro per la vastità del suo immaginario.
R: Certamente da Serena Vitale (nella foto a lato), che ho appena nominato, anche se non so il russo, perché anche lei per tradurre entra nel mondo dei ‘suoi’ autori, li fa propri e posso percepire questo – pur non conoscendo la lingua di partenza – nelle splendide versioni che ci dona, e nei testi che scrive lei stessa. Per quanto riguarda la poesia non posso non nominare Cristina Campo – le sue traduzioni di John Donne mi si sono imposte come manifesti di bellezza al di là e in accompagnamento alla sconvolgente bellezza della poesia di John Donne. Ma anche Anna Nadotti e Fausto Galuzzi, per aver dato vita all’universo di A. S. Byatt, un’autrice che ammiro per la vastità del suo immaginario.
LB: Vorrei evitare domande tecnico-economiche sulla condizione del traduttore in Italia, ma vorrei invece farti una domanda tecnica sul tuo modo di tradurre, sulla tua quotidianità quando sei nel clou del lavoro e persino sul tuo tavolo di traduttrice. Ce lo descrivi? Grazie.
R: Questa domanda è bellissima… il mio tavolo di traduttrice quando sono nel clou del lavoro (che ultimamente non è mai esclusivo, purtroppo, ma sempre obbligato a convivere con altri mille lavori…) è – come dire? – una trincea… mi piace questa immagine, naturalmente se presa dal lato ironico che spero sia evidente. Devo scavare uno spazio nella quotidianità invasa da mille altre necessità più o meno concrete – come tutti immagino – ma tradurre richiede (per quanto mi riguarda) una dedizione assoluta. E allora impilo libri fondamentali, dizionari, poeti che mi sono necessari per il loro stile, il loro amore per la parola nel momento in cui traduco altro che li chiama, e necessito di penne stilografiche (non si può immaginare quante…) a più colori, e anche molte matite (perché nulla per me è definitivo, nella traduzione, devo poter cancellare, sempre) e poi un bel quaderno, perché magari quella particolare traduzione mi sta risvegliando il desiderio parallelo di scrivere, e una quantità di libri (più o meno utili o inutili) che ho preso in prestito in biblioteca perché potenzialmente possono contenere un riferimento di cui sono all’oscuro, e un dizionario enciclopedico, che spero sempre possa contenere il mondo – in ogni attimo – e sopra quello una pila di libri di Ghiannis Ritsos (mi serve –absolutely! – per rinnovare l’inventiva, se mi perdo nelle secche della traduzione tecnica parola per parola e dimentico che tradurre è ricreare). Una luce – per la notte – quando viene l’ispirazione per un riferimento misterioso che si è cercato per molti giorni e improvvisamente si apre nel più imprevisto momento di silenzio. Una pila di lettere – accatastate contro la luce – che sono fiera di aver conservato nella loro natura cartacea. Foto – di chi amo – che devo poter guardare negli occhi quando mi perdo. E la mia ‘pila privata’ che non posso rivelare in dettaglio (altrimenti che privato è?) che racchiude libri, lettere, altri libri con dediche di chi amo e mi ricorda, anche lui in ogni attimo, che tradurre è amare, oltre che vivere, e che la soluzione di una frase oscura è sempre nel dono massimo di sé. Con questo concludo, mi sembra di avere reso il caos tanto amato del mio tavolo di lavoro!
Di getto, come mi capita sempre più spesso.
RispondiEliminaAppena terminata la lettura in una pausa di lavoro ed è stata una bella iniezione di amore per vita e parola.
Grazie. Aiuta a continuare nel giorno.
PS Volendo stampare una plaquette
...con ONE ART della Bishop (non più di 40-50 esemplari con traduzione), a chi potrei chiedere il permesso? Spero la richiesta non risulti inopportuna. Ancora Grazie.
RispondiEliminaGrazie Gaetano. Monica ti leggerà e eventualmente ti saprà dire.
RispondiElimina