sabato 16 agosto 2014

Dal signor Teste di Valéry al cervello delle neuroscienze. Intervista a Gabriele Fedrigo

Ripescaggi #37

Gabriele Fedrigo
Faccio anch'io come la televisione che in estate ci propina cose di trent'anni fa. E così ripesco cose vecchie. Lo faccio sempre dalla rivista "daemon". Si tratta di una vecchia intervista e ricordo che uscì nel numero legato al rapporto tra scienza e arti. 
Che cosa può un uomo? Attorno a questa domanda, appartenente ad un curiosissimo personaggio di un’opera giovanile di Paul Valéry, Gabriele Fedrigo ha costruito uno studio originale che intreccia la figura dello scrittore francese con l’avanzare delle conoscenze neuroscientifiche (G. M. Edelman, J.P. Changeux e A.R. Damasio su tutti) e il pensiero paleontologico di S. J. Gould. Valéry è, assieme ad altri, una figura chiave per chi si interessa della speculare illuminazione tra letteratura e scienza. Abbiamo chiesto all’autore di parlarci del suo interesse per Valéry e del suo ultimo libro Che cosa può un uomo? Potenzialità biologica, selezione naturale e cervello da Paul Valéry a Gerald M. Edelman (L’Harmattan Italia, Torino, 2005).

Incominciamo dalla letteratura. Il suo libro Che cosa può un uomo? prende avvio da un personaggio di un’opera giovanile di Paul Valéry. Ci racconta chi è il signor Teste?
“Monsieur Teste è una delle figure più brillanti e nello stesso tempo più inquietanti della produzione letteraria di Valéry”. Partire con questa affermazione, vuol dire già offrire un primo inquadramento ad un personaggio che tende a sfuggire, proprio per come Valéry l’ha concepito nel suo laboratorio mentale, ad ogni classificazione, anche a quella molto generica di prodotto letterario… Mi scuso con Monsieur Teste se l’ho dovuto trascinare, mio malgrado, in qualche categoria culturale bell’e pronta, proprio lui che confinava le Lettere e la Filosofia tra “le Cose Vaghe e le Cose Impure”. Quando scrive Teste, Valéry ha bene in mente un’idea a lui molto cara che svilupperà a fondo negli scritti dedicati a Leonardo da Vinci, a Gladiator e lungo i Cahiers. Si tratta del concetto di combinazione. La nostra mente, a cui non fa eccezione né quella del poeta, né del pittore o di qualsiasi uomo della strada, è una fucina di combinazioni. Si combina tutto ciò che noi designiamo come immagine, parole, suoni, ricordi, aspettative, ecc. Fra queste combinazioni solo poche entrano nel campo della coscienza, altre ne rimangono escluse totalmente, anche se questo non significa stato di quiescenza. La produzione combinatoria non è guidata da un centro direttivo e molte volte, non sempre per fortuna, quello che designiamo con la parola “io”(je) si trova in balia di tempeste e di assalti di combinazioni di immagini o di ricordi con carichi emotivi più o meno intensi tali da paralizzare o compromettere l’andamento generale della vita psichica, soprattutto le nostre capacità d’azione. In Teste, l’idea di combinazione opera soprattutto come strumento di smontaggio della propria personalità. Teste è infatti colui che si de-costruisce psichicamente per poter esperire la pluralità di combinazioni possibili della sua macchina combinatoria (Valéry parla di Teste come del “più completo dei trasformatori psichici che sia mai esistito”). Lo smontaggio si configura al contempo come esercizio dello sguardo; l’effetto di questo esercizio è l’alienazione dal sé di tutte le abitudini che lo costituiscono. Un vero e proprio ‘fare vuoto’ per molti aspetti vicino alla meditazione buddista (Valéry parla di Teste come di “un mistico senza Dio”). Come suggerisce l’etimo, Teste è il testimone…del proprio sé e della propria storia. Supponga di andare al cinema e che la storia del film sia la sua vita, la domanda è: chi è (o cos’è) colui che guarda il film rispetto a ciò che si sta proiettando? La coscienza prende le distanze dal sé di cui è coscienza senza identificarsi in alcun oggetto; Teste narra questo progressivo prendere le distanze dal sé per tuffarsi nella sperimentazione del possibile, di cui il sé è uno dei tanti prodotti… Ogni volta che mi accingo a studiare Teste non posso fare a meno di pensare ad un suo cugino austriaco, intendo Ulrich de L’uomo senza qualità. Ha presente?

Paul Valéry
L’opera giovanile avente il signor Teste come protagonista, dal punto di vista degli interessi scientifici, non è certo una meteora nella produzione di Valéry. Ci parla dell’evoluzione del pensiero (neuro)scientifico ante litteram dello scrittore francese, dalle opere giovanili ai Cahiers? Quali sono i riferimenti e le coordinate  principali in possesso di Valéry?
L’interesse di Valéry per la scienza non è, come giustamente afferma, una semplice appendice. Valéry si è accostato al sapere scientifico fin da giovane da vero autodidatta. Dia uno sguardo ai primi Cahiers. Il riferimento alle scienze matematiche e alla fisica è un motivo ricorrente. L’idea di determinare una fisica della mente espressa in funzioni matematiche è stato uno dei sogni più accarezzati dal giovane Valéry. Le scienze biologiche trovano un inserimento più tardivo ma non meno importante nella riflessione di Valéry, al punto da soppiantare quelle strettamente fisico-matematiche. Certo, se lei mi chiede quale apporto scientifico abbia dato Valéry alla biologia, le dovrei risponderei subito che il nome di Valéry non si lega né ad alcuna scoperta né ad articoli scientifici in cui viene illustrato ad es., il funzionamento della cellula o per restare al cervello, qualche area deputata a funzioni specifiche. Eppure il livello della riflessione di Valéry tocca alcuni punti presenti in neuroscienziati della statura di Edelman e di Changeux, come ad es. il ruolo dell’attività spontanea del funzionamento cerebrale come base della potenzialità combinatoria. Oltre alla spontaneità, Valéry non si stanca di dirci una cosa che noi diamo per assodato ora (anche se molti stentano ancora ad ammetterlo), e cioè che la mente è uno dei tanti prodotti del cervello, e che il cervello è in un corpo che a sua volta si trova nell’ambiente. È il famoso C.E.M (corps, esprit, monde). Ancora prima di interrogarsi su temi di carattere neurofisiologico, Valéry ha scandagliato profondamente le questioni riguardanti la dinamica morfologica delle piante e degli involucri calcarei dei molluschi marini: le conchiglie. Una delle opere più belle scritte è appunto L’homme et la coquille. Le riflessioni riguardanti il corpo e la circolazione sanguigna hanno trovato un posto di primo piano nei Cahiers. L’interesse per la scienza non è però solo frutto di studio a tavolino. Valéry ha personalmente conosciuto scienziati di fama (le ricordo fra gli altri Einstein e Mme Curie), visitando i laboratori di ricerca e discutendo proficuamente con gli addetti ai lavori le loro premesse, i risultati e i punti di vista generali che strutturano un certa teoria (in ambito neuroscientifico non posso non ricordare Thierry de Martel, Théophile Alajouanine, Ludo van Bogaert). Se vuole avere un saggio di queste conoscenze, legga i lavori di Judith Robinson-Valéry.

G.M. Edelman
Il concetto di “potenzialità biologica” – mi corregga se sbaglio – è la chiave di lettura del suo libro. Che cos’è la “potenzialità biologica” e come si intreccia con le tematiche della selezione naturale e del cervello, così come ce le raccontano neuroscienziati della statura di Damasio, Edelman o Changeux?
Il paleontologo Stephen Jay Gould è stato l’autore che forse più di altri ha promosso il concetto di “potenzialità biologica”. Questo non vuol dire in alcun modo che altri prima di lui, come ad es. Spinoza, Hobbes o lo stesso Darwin e Valéry non avessero già presente i termini del problema. La categoria della “potenzialità” ha sicuramente una storia molto fortunata nel pensiero occidentale. Tant’è che essa fa discutere ancora oggi. Lo zigote è potenzialmente un uomo? L’idea di effettuare un’azione è potenzialmente un’azione? Se da un lato non è possibile sfuggire alle considerazioni aristoteliche sulla potenzialità, dall’altro non si è in alcun modo obbligati ad abbracciare il punto di vista aristotelico. Il punto chiave di tutta la costruzione aristotelica è la preminenza ontologica dell’Atto sulla potenza. Si ricorda il famoso Motore Immobile? Ebbene tolto il Motore Immobile, tutto svanisce, il movimento delle sfere celesti si blocca e addio mondo animale e vegetale. Si tratta allora di lasciarsi alle spalle una metafisica della potenzialità e percorrere una ricerca sulla fisiologia della potenzialità. Come ci ha insegnato Deleuze, nell’ambito dello studio dei fenomeni biologici, Aristotele è suo malgrado ancora legato all’impostazione platonica che punta a reperire la verità dell’ente determinandone la vicinanza o la lontananza rispetto ad un’essenza. In ambito biologico, è Darwin colui che spazzerà via qualsiasi possibilità di fondare un approccio tipologico allo studio dei viventi presenti, passati o futuri. Pur se rimane aperto ne L’origine delle specie, il problema di definire cosa sia o meno una “specie”, con Darwin ci troviamo di fronte ad un paesaggio dove ciò che conta non è tanto l’Idea di fringuello, ma proprio quel singolo fringuello o quella singola orchidea. Meglio, ciò che possono quel singolo fringuello, quella orchidea… Gran parte del pensiero contemporaneo può essere visto come un assalto reiterato alla supremazia dell’essenza e a tutto ciò che pretende di essere stabile, duraturo, ecc. Capire che cosa sia la “potenzialità biologica” significa allora rispondere alla domanda: che cosa può un certo organismo? Quel “può” va considerato tanto come gamma di funzioni di un organismo, in tutta la varietà delle sue manifestazioni (dal livello microcellulare a quello comportamentale), quanto come il possibile-funzionale insito nella strutture biologiche e che gli eventi contingenti della storia della vita potranno o meno portare alla nascita. Così, per restare vicino a Gould e al suo amore per l’architettura (si leggano fra l’altro le belle pagine dedicate al Duomo di Milano in La struttura della teoria dell’evoluzione), chi avrebbe mai detto che le “lunette” della Basilica di San Marco a Venezia, nate come sottoprodotto architettonico, sarebbero servite per illustrare verità di fede? Il cuore della potenzialità umana risiede nel nostro voluminoso cervello, meglio nella particolare organizzazione neuronale specie-specifica e nello stile di sviluppo ontogenetico di questo organo. Il cervello forgiato dalla selezione naturale può compiere uno straordinario numero di attività. La sua potenzialità è inscritta nei suoi neuroni e nella sua organizzazione. Ma questo non significa che tutto ciò che può un cervello sia schiavo dei geni che lo hanno costruito e dotato di certe capacità rispetto ad altre. Perché non mettere in soffitta l’idea che tutto ciò che un uomo può compiere sia in funzione della fitness del suo pool di geni? Accanto alla plasticità, il fattore della potenzialità cerebrale su cui ho cercato di fare un po’ di chiarezza, riguarda il sorgere della coscienza. In anni molto recenti si è scritto una quantità immensa di libri, saggi ed articoli sulla coscienza. Che cosa vuol dire indagare la coscienza nell’ottica della potenzialità? Non significa forse cercare di capire la nostra capacità di questionare la realtà in cui viviamo e di autoquestionarci? E con quali esiti? Fin dove spingere la nostra potenzialità d’azione che attraverso la coscienza ha uno dei suoi elementi organizzativi più sofisticati? Ancora, chi stabilisce i limiti? I neuroscienziati presi in esame (Edelman, Damasio, Changeux) non hanno risposte pronte a queste domande e sembrano lontani dall’offrire soluzioni immediate. Il livello su cui attualmente lavora l’ambito neuroscientifico è ancora quello di determinare le basi neuronali della coscienza. Proprio a partire dalle indagini neuroscientifiche e biologiche, filosofi e scrittori possono attivamente intervenire su temi così centrali…non che in passato ciò non sia avvenuto, come non poter ricordare Dostoevskij o più vicino a noi la testimonianza di Primo Levi?

Che cosa può un uomo? è sicuramente uno studio originale per il panorama italiano. Qual è stata la genesi dell’opera, quali le difficoltà? Quali altri studiosi hanno approfondito il contenuto scientifico delle opere  di Valéry traendone nuove ipotesi di ricerca e nuove conclusioni?
In un primo momento l’idea d’impostare uno studio del rapporto mente/cervello/selezione naturale in termini di potenzialità mi è venuto dalla lettura svolta sui testi del neurologo Oliver Sacks e da quella bellissima raccolta di saggi di storia naturale di Stephen Jay Gould intitolata Otto piccoli porcellini. In entrambi i casi, anche se da prospettive diverse, emerge un’idea a cui sono legato, cioè che l’ordine mentale di una persona o quello dell’evoluzione delle specie, non è fissato una volta per tutte. Anzi credo che sia già troppo azzardato parlare di “ordine”. Chi lo stabilisce? E con quale autorità? C’è tutto un orizzonte di possibilità d’azione e d’espressione che, anche nel caso delle malattie invalidanti del sistema nervoso, vanno tenute aperte. In noi si formano embrioni di avvenire e di possibilità che molto spesso non trovano luce. Valéry si è confrontato direttamente con il mare del possibile di cui siamo intessuti. Il mio lavoro preliminare è stato quello di determinare nei Cahiers l’occorrenza del termine implexe (implesso): per implexe, Valéry intende la capacità combinatoria di un sistema organico (sia esso un cervello o l’organismo tout court) di generare configurazioni di risposta da dare alle sollecitazioni esterne o a quelle endogene non necessariamente legate agli eventi ambientali (è qui che compare il “lusso” del pensiero). La genesi dell’“implesso” era già tutta contenuta nella domanda di Monsieur Teste: “Che cosa può un uomo?”. La potenzialità dell’uomo non è però un dono che “piove dal cielo”. Ecco allora la necessità di legare la potenzialità umana al suo sostrato biologico, ciò è avvenuto interrogandosi contemporaneamente sulle potenzialità della selezione naturale di forgiare strutture e funzioni degli organismi e nel caso dell’uomo il suo formidabile cervello. Attorno ai concetti di utilità biologica, adattamento, disadattamento e funzioni non-adattative ho istituito un proficuo confronto fra autori apparentemente così lontani come Darwin (naturalista), Valéry (poeta) e Gould (paleontologo).
L’attenzione posta ai Cahiers da scienziati di diverse discipline non è nuova nel panorama internazionale. Ricordo ad esempio gli studi effettuati da René Thom nell’ambito della teoria delle catastrofi o quelle di Prigogine sulle strutture dissipative. Più recentemente troviamo un recupero di Valéry negli studi sulla complessità effettuati da E. Morin. Come non ricordare infine le considerazioni sviluppate da Jean Bernard in campo medico-scientifico?

Alcuni suoi scritti sono usciti inizialmente in lingua francese. Qual è stata la reazione del pubblico d’oltralpe? Ho come l’impressione che in Francia ci sia un contesto di ricezione molto più maturo per quelle opere che intrecciano proficuamente letteratura e riflessione scientifica. È un’impressione totalmente errata?
Il lavoro a cui fa riferimento (Valéry et le cerveau dans les Cahiers, Paris, 2000) è uscito in lingua francese al fine di permettere ad un pubblico più vasto di studiosi di Valéry a livello internazionale di avvicinarsi più facilmente alle mie ricerche sui Cahiers. L’accoglienza data a questo lavoro è stata incoraggiante. Circa la “maturità” di ricezione in ambito francese di una scrittura che intreccia letteratura e scienza, direi che una seria riflessione su questo problema dipenda dal contesto storico a cui si fa riferimento. Pensi ad es., alla fortuna del De rerum natura di Lucrezio nella cultura europea. In Francia l’esperienza dell’Encyclopédie, ha permesso senza dubbio un connubio importante fra letteratura e scienza, ponendosi oltre quella divisione fra “scienze umane” e “scienze naturali” che condiziona ancora molte menti e molte penne. Non credo ad una rigida separazione delle sfere di competenza (da una parte lo scrittore, dall’altro lo scienziato, dall’altro ancora il poeta, ecc.) come sinonimo di serietà da dover perseguire. Non ci credo semplicemente perché non siamo monadi chiuse. Così non si riuscirebbe a capire nulla della Divina Commedia, senza le conoscenze scientifiche (per quanto lontane da noi) di cui si è servito Dante. Prima ho fatto riferimento a Robert Musil, ebbene come potremmo leggere la sua opera senza tener presente il legame con E. Mach? Certo, Musil non si limita in alcun modo a riscrivere Mach! Prenda invece scienziati che si sono nutriti di scrittura filosofica o letteraria. Che dire di Einstein lettore di Spinoza? Gli stili divulgativi di scienziati delle generazioni scorse non avevano forse una veste letteraria di prim’ordine, come ad es. quelli di H. von Helmoltz, C. Sherrington e K.Goldstein?

Si dice spesso che ognuno crea i propri precursori. Nel caso di uno studio come il suo, quali reputa i precursori, i suggeritori di un approccio che lega indissolubilmente e mirabilmente la letteratura e gli aggiornamenti della scienza? E inoltre, crede che l’attività di uno scrittore e quella di uno scienziato possano (debbano) essere reciprocamente “illuminanti”?
In parte le ho già risposto prima. Non sto forse parlando di Valéry? Che dire dei tentativi di prosa scientifica di Oliver Sacks? Le dicevo che non siamo monadi chiuse, e che volenti o nolenti apparteniamo ad un certo periodo storico, ad una certa visione del mondo che tanto le generazioni passate che quelle presenti contribuiscono a costruire, modificare o abbandonare. All’interno di quest’orizzonte opera lo scrittore e lo scienziato, con mezzi propri indagano a loro modo una “realtà” che in sé non esiste (quante realtà esistono? e quanto reale è il reale?, questioni che facevano sorridere Valéry), anche se noi ne misuriamo gli “effetti” nella prassi quotidiana e scientifica. Se dobbiamo porre il confronto sul piano della famosa “verità”, dica, avrebbe senso chiedersi: quanta verità troviamo nella poesia di T.S. Eliot e quanta nella teoria della relatività ristretta?

Concorda con l’affermazione che le neuroscienze sono responsabili di una grande sferzata nella percezione “qualitativa” dell’impresa scientifica e dei suoi risultati quando in precedenza questa era legata a una percezione “quantitativa”, sicuramente errata ma non per questo incapace di causare solidi fraintendimenti a lungo termine?
Scusi l’affermazione è sua, di un neuroscienziato o di qualche filosofo della scienza? Se ho ben capito la domanda, potrei dire che le neuroscienze come del resto la stessa biologia non sono mai vissute in uno splendido isolamento rispetto ad altri settori scientifici, come la chimica, la fisica, la matematica, ecc. Immagini una macchina per la Risonanza Magnetica costruita indipendentemente dagli studi fisico-matematici! Più di sferzata, direi di grande opportunità data alla conoscenza dei meccanismi intimi degli organi e dei tessuti dell’organismo. La questione del “qualitativo” e “quantitativo” nell’impresa scientifica e tutti i tentativi di colmare o di allargare il divario hanno accompagnato lo sviluppo della scienza fin dalle riflessioni di Galileo Galilei.

A che cosa sta lavorando adesso? Le tematiche di Che cosa può un uomo? stanno lasciando spazio a nuovi interessi di ricerca?
In questo periodo sto studiando i recettori delle membrane batteriche, organismi che non hanno cervello ma che esibiscono comportamenti molto interessanti. Chissà che non nasca un “Che cosa può un batterio?” 

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