Gabriele Fedrigo |
Che cosa può un uomo? Attorno a questa domanda, appartenente ad un curiosissimo personaggio di un’opera giovanile di Paul Valéry, Gabriele Fedrigo ha costruito uno studio originale che intreccia la figura dello scrittore francese con l’avanzare delle conoscenze neuroscientifiche (G. M. Edelman, J.P. Changeux e A.R. Damasio su tutti) e il pensiero paleontologico di S. J. Gould. Valéry è, assieme ad altri, una figura chiave per chi si interessa della speculare illuminazione tra letteratura e scienza. Abbiamo chiesto all’autore di parlarci del suo interesse per Valéry e del suo ultimo libro Che cosa può un uomo? Potenzialità biologica, selezione naturale e cervello da Paul Valéry a Gerald M. Edelman (L’Harmattan Italia, Torino, 2005).
Incominciamo dalla letteratura. Il suo libro Che cosa può un uomo? prende avvio da un
personaggio di un’opera giovanile di Paul Valéry. Ci racconta chi è il signor
Teste?
“Monsieur Teste è una
delle figure più brillanti e nello stesso tempo più inquietanti della
produzione letteraria di Valéry”. Partire con questa affermazione, vuol dire
già offrire un primo inquadramento ad un personaggio che tende a sfuggire,
proprio per come Valéry l’ha concepito nel suo laboratorio mentale, ad ogni
classificazione, anche a quella molto generica di prodotto letterario… Mi scuso
con Monsieur Teste se l’ho dovuto trascinare, mio malgrado, in qualche
categoria culturale bell’e pronta, proprio lui che confinava le Lettere e la Filosofia tra “le Cose
Vaghe e le Cose Impure”. Quando scrive Teste, Valéry ha bene in mente un’idea a
lui molto cara che svilupperà a fondo negli scritti dedicati a Leonardo da
Vinci, a Gladiator e lungo i Cahiers. Si
tratta del concetto di combinazione. La
nostra mente, a cui non fa eccezione né quella del poeta, né del pittore o di
qualsiasi uomo della strada, è una fucina di combinazioni. Si combina tutto ciò
che noi designiamo come immagine, parole, suoni, ricordi, aspettative, ecc. Fra
queste combinazioni solo poche entrano nel campo della coscienza, altre ne
rimangono escluse totalmente, anche se questo non significa stato di
quiescenza. La produzione combinatoria non è guidata da un centro direttivo e
molte volte, non sempre per fortuna, quello che designiamo con la parola “io”(je) si trova in balia di tempeste e di assalti di
combinazioni di immagini o di ricordi con carichi emotivi più o meno intensi
tali da paralizzare o compromettere l’andamento generale della vita psichica,
soprattutto le nostre capacità d’azione. In Teste, l’idea di combinazione opera
soprattutto come strumento di smontaggio della propria personalità. Teste è
infatti colui che si de-costruisce psichicamente per poter esperire la
pluralità di combinazioni possibili della sua macchina combinatoria (Valéry
parla di Teste come del “più completo dei trasformatori psichici che sia mai
esistito”). Lo smontaggio si configura al contempo come esercizio dello
sguardo; l’effetto di questo esercizio è l’alienazione dal sé di tutte le
abitudini che lo costituiscono. Un vero e proprio ‘fare vuoto’ per molti
aspetti vicino alla meditazione buddista (Valéry parla di Teste come di “un
mistico senza Dio”). Come suggerisce l’etimo,
Teste è il testimone…del proprio sé e
della propria storia. Supponga di andare al cinema e che la storia del film sia
la sua vita, la domanda è: chi è (o
cos’è) colui che guarda il film rispetto a ciò che si sta proiettando? La
coscienza prende le distanze dal sé di cui è coscienza senza identificarsi in
alcun oggetto; Teste narra questo progressivo prendere le distanze dal sé per
tuffarsi nella sperimentazione del possibile, di cui il sé è uno dei tanti
prodotti… Ogni volta che mi accingo a studiare Teste non posso fare a meno di
pensare ad un suo cugino austriaco, intendo Ulrich de L’uomo senza
qualità. Ha presente?
Paul Valéry |
L’interesse di Valéry per
la scienza non è, come giustamente afferma, una semplice appendice. Valéry si è
accostato al sapere scientifico fin da giovane da vero autodidatta. Dia uno
sguardo ai primi Cahiers. Il riferimento
alle scienze matematiche e alla fisica è un motivo ricorrente. L’idea di
determinare una fisica della mente espressa in funzioni matematiche è stato uno
dei sogni più accarezzati dal giovane Valéry. Le scienze biologiche trovano un
inserimento più tardivo ma non meno importante nella riflessione di Valéry, al
punto da soppiantare quelle strettamente fisico-matematiche. Certo, se lei mi
chiede quale apporto scientifico abbia dato Valéry alla biologia, le dovrei
risponderei subito che il nome di Valéry non si lega né ad alcuna scoperta né
ad articoli scientifici in cui viene illustrato ad es., il funzionamento della
cellula o per restare al cervello, qualche area deputata a funzioni specifiche.
Eppure il livello della riflessione di Valéry tocca alcuni punti presenti in
neuroscienziati della statura di Edelman e di Changeux, come ad es. il ruolo
dell’attività spontanea del funzionamento cerebrale come base della potenzialità
combinatoria. Oltre alla spontaneità, Valéry non si stanca di dirci una cosa
che noi diamo per assodato ora (anche se molti stentano ancora ad ammetterlo),
e cioè che la mente è uno dei tanti prodotti del cervello, e che il cervello è
in un corpo che a sua volta si trova nell’ambiente. È il famoso C.E.M (corps, esprit, monde). Ancora prima di interrogarsi su temi di carattere
neurofisiologico, Valéry ha scandagliato profondamente le questioni riguardanti
la dinamica morfologica delle piante e degli involucri calcarei dei molluschi
marini: le conchiglie. Una delle opere più belle scritte è appunto L’homme
et la coquille. Le riflessioni riguardanti il
corpo e la circolazione sanguigna hanno trovato un posto di primo piano nei Cahiers. L’interesse per la scienza non è però solo frutto
di studio a tavolino. Valéry ha personalmente conosciuto scienziati di fama (le
ricordo fra gli altri Einstein e Mme Curie), visitando i laboratori di ricerca
e discutendo proficuamente con gli addetti ai lavori le loro premesse, i
risultati e i punti di vista generali che strutturano un certa teoria (in
ambito neuroscientifico non posso non ricordare Thierry de Martel, Théophile
Alajouanine, Ludo van Bogaert). Se vuole avere un saggio di queste conoscenze,
legga i lavori di Judith Robinson-Valéry.
G.M. Edelman |
Il paleontologo Stephen Jay Gould è stato l’autore
che forse più di altri ha promosso il concetto di “potenzialità biologica”.
Questo non vuol dire in alcun modo che altri prima di lui, come ad es. Spinoza,
Hobbes o lo stesso Darwin e Valéry non avessero già presente i termini del
problema. La categoria della “potenzialità” ha sicuramente una storia molto
fortunata nel pensiero occidentale. Tant’è che essa fa discutere ancora oggi. Lo
zigote è potenzialmente un uomo? L’idea di effettuare un’azione è
potenzialmente un’azione? Se da un lato non è possibile sfuggire alle
considerazioni aristoteliche sulla potenzialità, dall’altro non si è in alcun
modo obbligati ad abbracciare il punto di vista aristotelico. Il punto chiave
di tutta la costruzione aristotelica è la preminenza ontologica dell’Atto sulla
potenza. Si ricorda il famoso Motore Immobile? Ebbene tolto il Motore Immobile,
tutto svanisce, il movimento delle sfere celesti si blocca e addio mondo
animale e vegetale. Si tratta allora di lasciarsi alle spalle una metafisica
della potenzialità e percorrere una ricerca sulla fisiologia della potenzialità. Come ci ha insegnato Deleuze,
nell’ambito dello studio dei fenomeni biologici, Aristotele è suo malgrado
ancora legato all’impostazione platonica che punta a reperire la verità
dell’ente determinandone la vicinanza o la lontananza rispetto ad un’essenza.
In ambito biologico, è Darwin colui che spazzerà via qualsiasi possibilità di
fondare un approccio tipologico allo
studio dei viventi presenti, passati o futuri. Pur se rimane aperto ne L’origine delle specie, il problema di
definire cosa sia o meno una “specie”, con Darwin ci troviamo di fronte ad un
paesaggio dove ciò che conta non è tanto l’Idea di fringuello, ma proprio quel
singolo fringuello o quella singola orchidea. Meglio, ciò che possono quel singolo fringuello, quella
orchidea… Gran parte del pensiero contemporaneo può essere visto come un
assalto reiterato alla supremazia dell’essenza e a tutto ciò che pretende di
essere stabile, duraturo, ecc. Capire che cosa sia la “potenzialità biologica”
significa allora rispondere alla domanda: che cosa può un certo organismo? Quel
“può” va considerato tanto come gamma di funzioni di un organismo, in tutta la
varietà delle sue manifestazioni (dal livello microcellulare a quello
comportamentale), quanto come il possibile-funzionale
insito nella strutture biologiche e che gli eventi contingenti della storia
della vita potranno o meno portare alla nascita. Così, per restare vicino a
Gould e al suo amore per l’architettura (si leggano fra l’altro le belle pagine
dedicate al Duomo di Milano in La
struttura della teoria dell’evoluzione), chi avrebbe mai detto che le
“lunette” della Basilica di San Marco a Venezia, nate come sottoprodotto
architettonico, sarebbero servite per illustrare verità di fede? Il cuore della
potenzialità umana risiede nel nostro voluminoso cervello, meglio nella
particolare organizzazione neuronale specie-specifica e nello stile di sviluppo
ontogenetico di questo organo. Il cervello forgiato dalla selezione naturale
può compiere uno straordinario numero di attività. La sua potenzialità è
inscritta nei suoi neuroni e nella sua organizzazione. Ma questo non significa
che tutto ciò che può un cervello sia schiavo dei geni che lo hanno costruito e
dotato di certe capacità rispetto ad altre. Perché non mettere in soffitta
l’idea che tutto ciò che un uomo può compiere sia in funzione della fitness del suo pool di geni? Accanto
alla plasticità, il fattore della potenzialità cerebrale su cui ho cercato di
fare un po’ di chiarezza, riguarda il sorgere della coscienza. In anni molto
recenti si è scritto una quantità immensa di libri, saggi ed articoli sulla
coscienza. Che cosa vuol dire indagare la coscienza nell’ottica della
potenzialità? Non significa forse cercare di capire la nostra capacità di
questionare la realtà in cui viviamo e di autoquestionarci? E con quali esiti?
Fin dove spingere la nostra potenzialità d’azione che attraverso la coscienza
ha uno dei suoi elementi organizzativi più sofisticati? Ancora, chi stabilisce
i limiti? I neuroscienziati presi in esame (Edelman, Damasio, Changeux) non
hanno risposte pronte a queste domande e sembrano lontani dall’offrire
soluzioni immediate. Il livello su cui attualmente lavora l’ambito
neuroscientifico è ancora quello di determinare le basi neuronali della
coscienza. Proprio a partire dalle indagini neuroscientifiche e biologiche,
filosofi e scrittori possono attivamente intervenire su temi così centrali…non
che in passato ciò non sia avvenuto, come non poter ricordare Dostoevskij o più
vicino a noi la testimonianza di Primo Levi?
Che cosa può un uomo? è sicuramente uno studio originale per il panorama italiano. Qual è
stata la genesi dell’opera, quali le difficoltà? Quali altri studiosi hanno
approfondito il contenuto scientifico delle opere di Valéry traendone nuove ipotesi di ricerca
e nuove conclusioni?
In un primo momento l’idea d’impostare uno studio del
rapporto mente/cervello/selezione naturale in termini di potenzialità mi è
venuto dalla lettura svolta sui testi del neurologo Oliver Sacks e da quella
bellissima raccolta di saggi di storia naturale di Stephen Jay Gould intitolata
Otto piccoli porcellini. In entrambi
i casi, anche se da prospettive diverse, emerge un’idea a cui sono legato, cioè
che l’ordine mentale di una persona o quello dell’evoluzione delle specie, non
è fissato una volta per tutte. Anzi credo che sia già troppo azzardato parlare
di “ordine”. Chi lo stabilisce? E con quale autorità? C’è tutto un orizzonte di
possibilità d’azione e d’espressione che, anche nel caso delle malattie
invalidanti del sistema nervoso, vanno tenute aperte. In noi si formano
embrioni di avvenire e di possibilità che molto spesso non trovano luce. Valéry
si è confrontato direttamente con il mare del possibile di cui siamo intessuti.
Il mio lavoro preliminare è stato quello di determinare nei Cahiers l’occorrenza del termine implexe (implesso): per implexe, Valéry intende la capacità
combinatoria di un sistema organico (sia esso un cervello o l’organismo tout court) di generare configurazioni
di risposta da dare alle sollecitazioni esterne o a quelle endogene non
necessariamente legate agli eventi ambientali (è qui che compare il “lusso” del
pensiero). La genesi dell’“implesso” era già tutta contenuta nella domanda di
Monsieur Teste: “Che cosa può un uomo?”. La potenzialità dell’uomo non è però
un dono che “piove dal cielo”. Ecco allora la necessità di legare la
potenzialità umana al suo sostrato biologico, ciò è avvenuto interrogandosi
contemporaneamente sulle potenzialità della selezione naturale di forgiare
strutture e funzioni degli organismi e nel caso dell’uomo il suo formidabile
cervello. Attorno ai concetti di utilità biologica, adattamento, disadattamento
e funzioni non-adattative ho istituito un proficuo confronto fra autori
apparentemente così lontani come Darwin (naturalista), Valéry (poeta) e Gould
(paleontologo).
L’attenzione posta ai Cahiers
da scienziati di diverse discipline non è nuova nel panorama
internazionale. Ricordo ad esempio gli studi effettuati da René Thom
nell’ambito della teoria delle catastrofi o quelle di Prigogine sulle strutture
dissipative. Più recentemente troviamo un recupero di Valéry negli studi sulla
complessità effettuati da E. Morin. Come non ricordare infine le considerazioni
sviluppate da Jean Bernard in campo medico-scientifico?
Alcuni suoi scritti sono usciti inizialmente in lingua
francese. Qual è stata la reazione del pubblico d’oltralpe? Ho come l’impressione
che in Francia ci sia un contesto di ricezione molto più maturo per quelle
opere che intrecciano proficuamente letteratura e riflessione scientifica. È
un’impressione totalmente errata?
Il lavoro a cui fa
riferimento (Valéry et le cerveau dans les Cahiers,
Paris, 2000) è uscito in lingua francese al fine di permettere ad un pubblico
più vasto di studiosi di Valéry a livello internazionale di avvicinarsi più
facilmente alle mie ricerche sui Cahiers.
L’accoglienza data a questo lavoro è stata incoraggiante. Circa la “maturità”
di ricezione in ambito francese di una scrittura che intreccia letteratura e
scienza, direi che una seria riflessione su questo problema dipenda dal
contesto storico a cui si fa riferimento. Pensi ad es., alla fortuna del De
rerum natura di Lucrezio nella cultura europea.
In Francia l’esperienza dell’Encyclopédie,
ha permesso senza dubbio un connubio importante fra letteratura e scienza,
ponendosi oltre quella divisione fra “scienze umane” e “scienze naturali” che
condiziona ancora molte menti e molte penne. Non credo ad una rigida
separazione delle sfere di competenza (da una parte lo scrittore, dall’altro lo
scienziato, dall’altro ancora il poeta, ecc.) come sinonimo di serietà da dover
perseguire. Non ci credo semplicemente perché non siamo monadi chiuse. Così non
si riuscirebbe a capire nulla della Divina Commedia, senza le conoscenze scientifiche (per quanto
lontane da noi) di cui si è servito Dante. Prima ho fatto riferimento a Robert
Musil, ebbene come potremmo leggere la sua opera senza tener presente il legame
con E. Mach? Certo, Musil non si limita in alcun modo a riscrivere Mach! Prenda
invece scienziati che si sono nutriti di scrittura filosofica o letteraria. Che
dire di Einstein lettore di Spinoza? Gli stili divulgativi di scienziati delle
generazioni scorse non avevano forse una veste letteraria di prim’ordine, come
ad es. quelli di H. von Helmoltz, C. Sherrington e K.Goldstein?
Si dice spesso che ognuno crea i
propri precursori. Nel caso di uno studio come il suo, quali reputa i
precursori, i suggeritori di un approccio che lega indissolubilmente e
mirabilmente la letteratura e gli aggiornamenti della scienza? E inoltre, crede
che l’attività di uno scrittore e quella di uno scienziato possano (debbano)
essere reciprocamente “illuminanti”?
In parte le ho
già risposto prima. Non sto forse parlando di Valéry? Che dire dei tentativi di
prosa scientifica di Oliver Sacks? Le dicevo che non siamo monadi chiuse, e che
volenti o nolenti apparteniamo ad un certo periodo storico, ad una certa
visione del mondo che tanto le generazioni passate che quelle presenti
contribuiscono a costruire, modificare o abbandonare. All’interno di
quest’orizzonte opera lo scrittore e lo scienziato, con mezzi propri indagano a
loro modo una “realtà” che in sé non esiste (quante realtà esistono? e quanto
reale è il reale?, questioni che facevano sorridere Valéry), anche se noi ne
misuriamo gli “effetti” nella prassi quotidiana e scientifica. Se dobbiamo
porre il confronto sul piano della famosa “verità”, dica, avrebbe senso
chiedersi: quanta verità troviamo nella poesia di T.S. Eliot e quanta nella
teoria della relatività ristretta?
Concorda con l’affermazione che le
neuroscienze sono responsabili di una grande sferzata nella percezione “qualitativa”
dell’impresa scientifica e dei suoi risultati quando in precedenza questa era
legata a una percezione “quantitativa”, sicuramente errata ma non per questo
incapace di causare solidi fraintendimenti a lungo termine?
Scusi
l’affermazione è sua, di un neuroscienziato o di qualche filosofo della
scienza? Se ho ben capito la domanda, potrei dire che le neuroscienze come del
resto la stessa biologia non sono mai vissute in uno splendido isolamento
rispetto ad altri settori scientifici, come la chimica, la fisica, la
matematica, ecc. Immagini una macchina per la Risonanza Magnetica
costruita indipendentemente dagli studi fisico-matematici! Più di sferzata,
direi di grande opportunità data alla conoscenza dei meccanismi intimi degli
organi e dei tessuti dell’organismo. La questione del “qualitativo” e
“quantitativo” nell’impresa scientifica e tutti i tentativi di colmare o di
allargare il divario hanno accompagnato lo sviluppo della scienza fin dalle
riflessioni di Galileo Galilei.
A che cosa sta
lavorando adesso? Le tematiche di Che cosa può un uomo? stanno lasciando spazio a nuovi interessi di ricerca?
In questo periodo sto studiando i recettori delle
membrane batteriche, organismi che non hanno cervello ma che esibiscono
comportamenti molto interessanti. Chissà che non nasca un “Che cosa può un
batterio?”
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