Intellettuale della "tentazione fascista" per il finlandese Tarmo Kunnas, assieme a Céline, Drieu La Rochelle, Robert Brasillach e altri, maestro di scrittura per molti (tra cui Hemingway, che lo metterà in un personale Olimpo), esempio tra i più serrati e coerenti del nativismo europeo, il Nobel norvegese Knut Hamsun ha conosciuto una sostanziale continuità di proposta. (Trovo un peccato però che non si trovi più il saggio intitolato La vita culturale dell'America moderna edito alcuni anni fa da Arianna editrice. Lì si evince il pensiero sull'America corrotta della separazione totale tra uomo e ambiente, una nazione vissuta in prima persona negli anni in cui fece esperienza del millemestieri, prima di riapprodare in patria e consegnare tutto a opere come Pan o Il risveglio della terra). Per i sentieri dove cresce l'erba (Fazi, pp. 176, euro 16, traduzione di Maria Valeria D'Avino) però mancava ed è ritornato disponibile dopo anni di assenza. Rappresenta l'opera conclusiva del longevo (1859 - 1952) scrittore, attraversato da ogni parte dai camminatori della letteratura del secolo scorso. Il libro, uscito nel 1949 e scritto nel 1948, è un regesto di ciò che rimane del tempo trascorso tra le mura di ospedali psichiatrici e ospizi, un esempio di "stile tardo" di inconciliabilità e mancata riappacificazione, se vogliamo usare una categoria battezzata da Edward Said, un'opera letta spesso strumentalmente per provare a scandagliare i dubbi sulle sue facoltà mentali, sulla sua "sanità". La copertina che ritrae Hamsun ancora giovane è un po' fuorviante. Ci sarebbero state altre foto dell'autore anziano, ma ben si comprende il fascino fotografico curvo del pince-nez e dei curvi baffi...
Il triennio 1945-1948 rappresentò per lo scrittore un frangente di enorme umiliazione da parte di tutta la popolazione norvegese. I legami di Hamsun con la politica sono noti, così come il sostegno a Quisling e al Pangermanesimo, e sarebbe davvero ora di iniziare ad affrontare questa marea di scrittori e intellettuali con maggiore serenità per quello che ci offrono, senza star lì a giustificarsi quasi, come a dire in modo dozzinalmente sciatto, "io sono di sinistra ma leggo comunque Pound, Céline, Jünger o Malaparte e D'Annunzio". Sono giustificazioni che lasciano davvero il tempo che trovano, per molti versi fanno sorridere, eppure non sono ancora del tutto scomparse, come se un pubblico che sta "di là" le richiedesse continuamente. Questa è l'ipocrisia bella e buona del nostro tempo, il quale ha un tremendo bisogno di ridurre e semplificare sempre qualsiasi aspetto di un reale che si mostra ogni giorno sempre più arduo. Di fondo il problema è pedagogico ed è anche sulle parole; ad esempio basterebbe prendere una parola come "fascista", ancora presente nel linguaggio politico italiano e usata spesso a vanvera come insulto proprio da chi ai veri fascisti è più vicino, senza la mimima consapevolezza storica del suo portato. E come testimonianza specifica di questo momento di storia europea possiamo leggere il libro in questione. Per i sentieri dove cresce l'erba non è il capolavoro dello scrittore, ma richiama a sé quell'attenzione che si deve a un'opera conclusiva che brucia di quelle antinomie che alimentano gli scrittori più interessanti (non è anche Manzoni, ad esempio, uno scrittore pieno di antinomie?). Queste pagine allora sono quelle di chi da idolo di un intero paese è passato a vergogna e traditore nazionale nel giro di un ventennio (Jacques Sémelin in Senz'armi di fronte a Hitler mostra bene la non-clemenza dei paesi scandinavi con coloro che si erano compromessi coi totalitarismi). Il libro mantiene intatto quello sguardo che non dobbiamo smarrire, quella scrittura che è il motivo per cui tra decenni rileggeremo ancora quest'autore che portò alle estreme conseguenze un rapporto panico tra io e ambiente, un binomio che declinato sul solco dei totalitarismi aveva cercato di evitare la decadenza europea. Si tratta di un capitolo lungo, immenso, di storia del pensiero, da affrontare senza le ipocrisie più becere dell'accademia e della politica dozzinale e sciatta a cui siamo, da troppo tempo, assuefatti.
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