lunedì 14 settembre 2015

Domatori di organi_Silvio D’Arzo

di Luca Rizzatello

Fra qualche tempo – così, in via amichevole – ti invierò anche qualche mia poesia che qui è piaciuta. Alcune usciranno sul “Contemporaneo” – ma attento a non dir niente: ci ho messo sotto “Andrew Mackenzie” (traduzione di Silvio D’Arzo). E tutti ci han creduto! Un letterato che conosci anche tu le ha trovate tutte di suo gusto, e ha avuto perfino il coraggio di dire che l’originale di una di queste lui l’aveva letta in un’antologia di poeti canadesi. Siamo già a questo punto!1. Nel rapporto epistolare con l’editore Enrico Vallecchi, le questioni legate alla scelta del nome2 ricorrono con altissima frequenza, essendo il mascheramento, come è già stato rilevato dai critici, parte integrante del processo di scrittura di Ezio Comparoni. Il ritratto di (per convenzione e comodità) Silvio D’Arzo, prenderà quindi le mosse proprio da una poesia in cui l’eteronimo raddoppia, dal momento che all’anagrafe non esistevano né Andrew Mackenzie, autore del presunto testo originale, tantomeno il suo traduttore, Silvio D’Arzo3. SD’A non ha mai pubblicato un libro di poesie4; alcune poesie sono uscite in rivista, firmate con nomi differenti5.

Purgatorio di A. Nervud, Professore (1897…)6

Quassù, dove l’amaro
del mandorlo si fa
non già profumo, ma sentimento,
lontano come l’ultimo
pomo rimasto all’albero
io sento, Ettore, te, che al sicomoro
mesto appoggiavi la fragile lancia
nello sgomento plenilunio.
Ma te, quello
che dall’ultimo banco sorrideva
nel suo lucido riso
di me vecchio bambino e della verde
luna che piange sui lecci del mare,
perché sento vicino come l’anima
del mio pietoso mandorlo? – Oh ragazzo,
ironico ragazzo,
che in fiduciosa immemoria
vai sicuro di te per le tue strade.
[...]
Ma qui, dove l’amaro
mandorlo di me respira
e la nostalgia si fa trifoglio,
perché infrangermi ancora
del mio Ettore morto sul lido l’amabile sguardo?
perché avvilirmi questa
poca memoria di perdute arene?

Ogni tecnica propriamente detta ha una propria forma. Ciò vale per ogni atteggiamento del corpo. Ogni società ha abitudini proprie. […] Ebbi una specie di rivelazione, mentre ero degente in un ospedale di New York. Mi chiedevo dove avessi già visto delle signorine che camminavano come le mie infermiere. Avevo tutto il tempo di riflettere. Mi ricordai, infine, che le avevo viste al cinema. Tornato in Francia, notai, soprattutto a Parigi, la frequenza di questa andatura: le ragazze francesi camminavano nello stesso modo. In effetti, grazie al cinema, il modo di camminare americano cominciava ad arrivare anche da noi. […] Abbiamo commesso, io stesso ho commesso per molti anni, l’errore fondamentale di ritenere che esistano delle tecniche solo quando ci sono gli strumenti. Bisogna, invece, ritornare a nozioni antiche, ai dati platonici sulla tecnica (Platone parlava di una tecnica della musica e in particolare della danza) ed estendere questa nozione. Io chiamo tecnica un atto tradizionale efficace (e voi vedete che, sotto questo aspetto, esso non differisce dall’atto magico, religioso, simbolico). Occorre che sia tradizionale ed efficace. Non esiste tecnica né trasmissione, se non c’è tradizione.7


A più riprese, SD’A si confronta con il suo editore Enrico Vallecchi esprimendo una posizione lucidamente orientata in merito al dispositivo della traduzione. Quando scrive che un editore di Milano mi ha proposto di tradurre per lui qualche buon testo inglese: io, nel parlargli, gli ho manifestato le mie simpatie per Conrad (in questo caso, tradurrei “Youth”, che è così bello e in Italia pressoché sconosciuto) e per Barrie. […] Ora, dal momento che mi è venuto voglia di tradurre opere brevi e complete, (ma lentamente, maturamente, quasi rivivendole) io ho pensato a te8, oppure che sono molto contento che a te piaccia, per la tua Biblioteca, “Peter Pan”: io cercherò di tradurlo nella migliore maniera possibile: e spero che mi riuscirà perché non faccio né farò mai il traduttore di professione, e tradurrò soltanto in casi eccezionali, quando troverò un’opera che per me rappresenti veramente qualche cosa. Mi piacerebbe (e rispondimi se sei dell’avviso) fare precedere la traduzione da un sostanzioso saggio su “Peter Pan” particolarmente (si capisce) e in generale sulla letteratura infantile: un problema che mi ha sempre interessato moltissimo9, SD’A ribadisce la distanza che separa la traduzione di professione dalla traduzione come strumento anzitutto autoconoscitivo (ovvero ancorato ad un immaginario estremamente significante, che consenta di attraversare le opere non tanto come meri spazi del testo, ma come passaggi dell’esperienza, quasi rivivendole); questo processo, che si sviluppa a partire da un principio di piacere (seppur mediato dalla coscienza critica di un lettore/scrittore), consente (direi meglio necessita) in un secondo momento l’apertura a speculazioni teoriche che consentano l’inserimento di uno specifico testo/tassello nel quadro generale della tradizione: un’altra ragione del mio ritardo e, credo, del mio esaurimento nervoso è lo studio che ho fatto su alcuni grandi scrittori inglesi e americani: ho letto molto e ho tratto appunti e considerazioni perché il mio intendimento è, anche, quello di pubblicare un volume (e, più, col tempo) di saggi su grandi autori non conosciuti come meriterebbero: non rivelazioni, però: io alle rivelazioni credo poco: ma, per esempio, (ci sto già lavorando) uno studio abbastanza lungo su “Tre viaggi”: quello di “Gordon Pym”, quello del capitano Achab di “Moby Dick”, quello dell’”Hispaniola” di Stevenson ectc. E cercherò che la forma sia adatta, non all’angolo del caffè e nemmeno alla piazza, ma allo studio, alla sala da pranzo o cose simili. Si verifica una situazione (paradossale, stando agli intenti espressi da SD’A) in cui l’opera di divulgazione di autori altri si risolve in una proiezione: non essere conosciuto come meriterebbe è infatti uno dei temi ricorrenti nelle lettere di SD’A, tanto nella dimensione autoriale10, quanto in quella esistenziale11. Quindi il testo altro da introiettare e da tradurre, che in prima battuta si allinea con l’invito al viaggio, o alla dislocazione, diventa un organismo autosufficiente, soggetto a un rovesciamento radicale che lo rende estraneo anche alle logiche di mercato per le quali era stato concepito: bene, io ti voglio fare una proposta: e ti prego, ripeto, di ponderarla con spirito amichevole ed attenzione: anche perché se fosse realizzabile, si potrebbe tagliare la testa a tutti gli ostacoli del mondo.  […] potresti tu, anche senza che il libro fosse pubblicato in Italia, proporne la traduzione agli editori inglesi e americani di cui mi parlavi e coi quali sei a contatto?12+12bis. Poi, traduce The scholars13, di W. B. Yeats, che in origine è così:

Bald heads forgetful of their sins,
Old, learned, respectable bald heads
Edit and annotate the lines
That young men, tossing on their beds,
Rhymed out in love’s despair
To flatter beauty’s ignorant ear.

 
They’ll cough in the ink to the world’s end;
Wear out the carpet with their shoes
Earning respect; have no strange friend;
If they have sinned nobody knows.
Lord, what would they say
Should their
Catullus walk that way?

ma sembra che questa poesia la abbia scritta lui; prendiamo questi forgetful, ignorant e nobody knows in posizioni così forti: esperienza VS oblio. Nella poesia Così vinti dal dolore…14 si legge: Oh sapere, sapere. E non potere scordare, in Canto d’amore del supplente Fleirbig15 si legge: e che solo può darmi sollievo perché non sa niente di me, in Il lamento dell’Anna dei bambini (Imitazione da una ballata inglese)16 si legge: Bambino, che mi hai tutto donato e tutto tolto/ e fatto dimenticare qualche volta/ d’essere povera, ingenua e senza sole. Fuori dal testo, il depistaggio messo in atto per evitare di tracciare un’unica identità, o in altri termini la possibilità di poter fare perdere le proprie tracce in qualsiasi momento per ripartire, viene progettato e condiviso con pochi amici eletti, non senza contraddizioni: 1) ti prego – dal momento che ormai, penso, il “caso d’Arzo”, a Reggio, fra gli amici, sarà già stato messo in archivio – di fare sempre appello alla tua impassibilità: dal momento che io, per nulla al mondo, dirò mai che sono S.d.A., né prove definitive mai verranno, tu non farai mai quelle brutte figure che già temi. Secondariamente, penso – se io ho difeso contro tutti così rabbiosamente quel segreto, cambiando nome, età, faccia e ogni cosa – che autorizza mai gli amici pensare o – peggio – a sospettare che tu sia stato messo al corrente della cosa? […] 2) Ho deciso di non scrivere più. (Con serenità, sai, con piena serenità: il fatto che qualcheduno (che non sia tu) sa o sospetta che sono io, m’impedisce di scrivere: è così17. Ma non è tutto, e infatti iniziamo da un termine cardine: aware, o meglio mono no aware. Il termine è molto antico, ma la consapevolezza del mono no aware nasce solo in periodo Heian. All’inizio era un semplice aa oppure hare: «Aa, che splendida luna!», «Hare, che bel fiore! », che poi si fuse in aware. Si trattava di esclamazioni di piacevole sorpresa del tipo: «La luna velata, aware!», con le quali si intendeva sottolineare qualcosa di bello, qualcosa la cui vista destava un acuto coinvolgimento personale. Successivamente aware si scrisse con il carattere di tristezza, dispiacere, pietà: una sensazione di melanconia, molto spesso sucitata proprio dalla bellezza di ciò che si sta ammirando e dalla consapevolezza che è destinata a sfiorire. Mono no aware è la «sensibilità delle cose» e nasce dal rapporto tra vita e sogno, realtà e visione, natura e arte, sentimento e passione. […] La difficoltà di rendere in modo adeguato in un’altra lingua cos’è il mono no aware sta proprio in questo: non si tratta di un concetto estetico, ma di una percezione che accomuna il soggetto a ciò che lo circonda18. Nell’operazione di SD’A la varianza delle identità è inversamente proporzionale alla costanza stilistica, esposta ai limiti del monolinguismo; consideriamo alcune ricorrentissime parole talismano:

Purgatorio di A. Nervud, Professore

-         Quassù (A), dove l’amaro
-         nello sgomento plenilunio (B)
-         della verde | luna (B) che piange sui lecci del mare


Così vinti dal dolore…

-         che sull’asino (C) gramo | te ne andavi cantando
-         colla luna (B) impigliata contro i rami del noce
-         te ne andavi cantando per crocicchi e le siepi (D)
-         e che almeno la nebbia (E) che mi scende sugli occhi
-         impedisse che lei, lei, più grande d’un secchio (F)


Canto d’amore del supplente Fleirbig

-         sul dolce morir dell’autunno (G)
-         saliva il fianco del colle (A)
-         sparendo al ciglio del consueto colle (A)


Rimpianto (frammento)

-         Ah, le nebbie (E) d’autunno (G)
-         luna (B) impigliata ai rami del mio nudo | noce
-         via, su asini (C) vecchi come case
-         per colli (A) e siepi a fare le serenate!...


Il lamento dell’Anna dei bambini (Imitazione da una ballata inglese)

-         e i tuoi compagni che sbucano, poi, cauti, uno ad uno, dalle siepi (D)
-         col tuo secchiello (F) dei pesci (L) fra le mani


I bambini hanno il vestito nuovo

-         alla vecchia Collina (A) di Pictown
-         Il Buon Maestro va oltre la Collina (A).
-         le lucertole (H) azzurre e verdi al sole
-         al caldo sole… l’acqua (I) è vostra

Preghiera come un’altra
-         chi pescò le anime | e i pesci (L) in calde acque (I)
-         la lucertola (H) muore


Così, la multidentità si scioglie nei testi a un grado profondo, e non si distingue più quale sia la lastra, e quale sia la luce; oppure, come ha scritto Ezio Comparoni: ma c’è un fatto. Il carattere più intimo, più essenziale di un fantasma, quello che di lui più ci sgomenta non è certo la sua inconsistenza o il suo pallore (e meno che mai il suo lenzuolo, è sottointeso): il lato che ce li fa orridi e patetici è la loro condizione di esiliati, quella loro condanna ad aggirarsi fra luoghi e memorie che non sono i loro, quella impossibilità di comunicare, quella loro mancanza di radici: quella loro eterna, assoluta estraneità: a tutto e a tutti; e anche a loro stessi […] Mi piaceva che tu lo sapessi. Tante cose19.

Note

1 lettera a Enrico Vallecchi del 18 giugno 1945. Tutte le lettere citate fanno riferimento al volume Silvio D’Arzo – Lettere, a cura di Alberto Sebastiani (Monte Università Parma Editore, 2004)
2 Mi risolvo a fare quanto non ho mai fatto con nessuno: a dirvi cioè chi sono veramente: mi chiamo, anziché Silvio d’Arzo, Ezio Comparoni. Lettera a Enrico Vallecchi dell’aprile/maggio 1943
3 questa nota ha la funzione di strappare un sorriso anche al lettore più accigliato, ed ecco venirci in aiuto Alphonse Allais: Shakespeare non è mai esistito, tutte le sue opere sono state scritte da uno sconosciuto che aveva il suo stesso nome.
4 ne ha pubblicato uno Ezio Comparoni, a quindici anni, intitolato Luci e penombre. Le poesie trattate in questa sede sono Purgatorio di A. Nervud, Professore (1897…); Così vinti dal dolore…; Canto d’amore del supplente Fleirbig; Rimpianto (frammento); Il lamento dell’Anna dei bambini (Imitazione da una ballata inglese); I bambini hanno il vestito nuovo; Preghiera come un’altra, e sono raccolte nel volume Silvio D’Arzo, Poesie (Edizioni Diabasis, 1995)
5 ecco tutti i nomi utilizzati: Silvio D’Arzo, Adelmo Ferrari, Raffaele Comparoni, Alberto Colli, Aldo Colli, Andrea Colli, Aldo Collin, Andrew Mackenzie, Nino Cavazzoni, Silvia, Oreste Nasi, Sandro Nadi, Sandro Nedi, Tullio Mari.
6 in una lettera a Emilio Vallecchi del 28 dicembre 1943 era stata presentata come Ragazzo (Dall’epitaffio del Professor Dominioni)
7 Marcel Mauss, Le tecniche del corpo, Nozione di tecnica del corpo, in Teoria generale della magia, Einaudi, pp. 385-392
8 lettera a Enrico Vallecchi del 29 ottobre 1945
9 lettera a Enrico Vallecchi del 14 novembre 1945
10 lettera a Enrico Vallecchi del 7 gennaio 1946
11 Ezio Comparoni era figlio di Rosalinda Comparoni e di padre ignoto
12 lettera a Enrico Vallecchi del 6 aprile 1948
12bis la cesura si estende anche alla scelta del nome: se vuoi ancora, mettiamo, invece del mio nome, un nome inglese o americano: attirerebbe di più. (lettera a Enrico Vallecchi del 29 luglio 1946)
13 contenuto in The Wild Swans at Coole; questa la traduzione di SD’A: Queste teste dimentiche dei loro peccati,/ vecchie, erudite, rispettabili calve teste,/ vanno commentando e annotando i versi/ che giovani uomini, smaniando nei loro letti,/ composero nel delirio d’amore,/ per accarezzare l’orecchio ignorante della bellezza.// Costoro tossiranno nell’inchiostro fino alla fine del mondo,/ e consumeranno il tappeto colle loro scarpe,/ guadagnandosi reputazione: non hanno alcun strano amico,/ se essi hanno peccato nessuno lo sa./ Dio, che cosa mai potrebbero scrivere/ se il loro Catullo avesse seguito questa strada.   
14 pubblicato in Palatina, n. 13, gennaio 1960
15 pubblicato in La Fiera Letteraria, a. I, n. 29, 24 ottobre 1946, con il nome di Oreste Nasi
16 pubblicato in Il Contemporaneo, a. I, n. 2, 31 ottobre 1946, con il nome di Tullio Mari
17 lettera a Canzio Dasioli del 14 aprile 1943
18 Letteratura giapponese, volume I, (a cura di Adriana Boscaro), p. 9
19 lettera a Ada Gorini dell’8 agosto 1950

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