Nell’ultimo
mese mi sono arrivate due novità della casa editrice Via del Vento
di Pistoia, la quale pubblica davvero solo libri brevi. Negli anni ha costruito
un catalogo che si muove anche in molte zone lasciate nell'oscurità da altri editori e potreste capire meglio quello che vado
dicendo con un giro nel sito Internet. Il risultato finale è il susseguirsi di titoli
importanti, rari. I libri sono oggetti contenuti in peso/volume dove riesce
anche – caso quasi unico nel panorama – il connubio tra editore e sponsor privati (nelle ultime pagine potete
infatti trovare dei piedini pubblicitari di attività dell’area pistoiese).
Parto dal
primo libro giunto. Si tratta di Vedo
vivere, non vivo. Pensieri sull’arte del pittore e xilografo svizzero Felix
Vallotton (pp. 40, euro 4, cura e traduzione di Marco Alessandrini). Formatosi
nella Parigi degli anni Ottanta dell’Ottocento ad ammirare Dürer, Holbein, Rembrandt e a imparare da Degas, inizierà presto ad annotare le proprie riflessioni su Livre de raison. Oppositore (e così sia!)
dell’impressionismo, orientò la propria produzione sulla bidimensionalità e
ricercò spesso soggetti di vita quotidiana, nel segno di un’ammirazione
crescente per il Doganiere Rousseau e Toulouse-Lautrec. L’ultimo decennio del
secolo diciannovesimo lo vede impegnato nelle xilografie (anche a tema sociale), prima di un ritorno alla pittura “d’interno”
e di nudo all’inizio del Novecento. Un esempio dei suoi pensieri? Eccolo: “Holbein
ha dipinto la vita, per nulla debordante come in Rubens, misteriosa come in
Rembrandt o splendida come in Raffaello: ha semplicemente dipinto la vita così
com’è, quella di ogni giorno, seguendo le sorti della salute, dei buoni e cattivi
momenti […] Tutti, uomini e donne, in Holbein appaiono in un primo tempo
simpatici, e questo è il contributo dell’artista, della dolcezza del suo genio.
Ma ecco che via via, con l’osservarli, si profilano i caratteri ed emergono gli
animi: una dopo l’altra sorgono le diverse personalità, come gli individui
nella folla; allora da ogni sguardo fuoriesce un raggio differente, tetro,
violento o indifferente, tenero, crudele o sinistro.”
L’altro libro
è un emblematico La Bibbia di Bertold
Brecht (pp. 40, euro 4, traduzione di Giusy Alati Fusco, note e postfazione di
Vincenzo Ruggiero Perrino). Intanto va detto che per il drammaturgo di Augusta (come di Augusta era Holbein),
contrariamente a quanto si potrebbe credere, la Bibbia fu il libro più
importante e duraturo. Io ho scritto “contrariamente a quanto si potrebbe
credere” perché fu lo stesso Brecht in un’intervista a
rispondere in tale modo sulla Bibbia, quasi stupito di quel che andava dicendo. Eppure va anche detto che è così, cioè
che è proprio la Bibbia, con la sua gestualità incorporata nel testo, che ha
stabilito un immaginario stabile e duraturo per quella che reputiamo essere la
letteratura d’Occidente (come ricorda Vincenzo Ruggiero Perrino, in una nota
del Diario Brecht scrive “Certe
parole della Bibbia sono indistruttibili. Esse vanno da parte a parte. Si pongono
come brividi sotto pelle, che passano lungo la schiena, come nell’amore”). Naturalmente
mi rendo anche conto di dire un’ovvietà sulla Bibbia e sulla sua centralità, ma
spesso ce ne dimentichiamo e comunque nel caso di Brecht poteva sembrare meno
ovvio. Comunque fu proprio Brecht a rimarcare a più riprese questo legame,
visibilissimo con questi due atti unici della gioventù qui finalmente radunati: i testi
teatrali di “La Bibbia” e “Oratorio”. Il primo si sofferma su un frammento
della guerra d’indipendenza dei Paesi Bassi contro le truppe cattoliche di
Spagna nel Cinquecento e si pone con la forza di un testo che testimonia un passaggio
fondamentale della vita e della formazione. Il secondo atto unico rappresenta l’enigmatico
caso di un oratorio di cui non conosciamo la musica. Il protagonista agisce nel
bel mezzo di una crisi spirituale radicale. Vincenzo Ruggiero Perrino, nella sua postfazione intitolata "Scenari biblici nel giovane Brecht", scrive di
un testo perfettamente allineato con certi stilemi dei contemporanei
espressionisti (si stima la stesura nell’estate del 1917) nel quale emerge un
lacerante nichilismo e dove “prevalgono la condizione di esilio spirituale, la
contrapposizione ad un dio freddo e ostile al mondo, le impurità del pensiero,
e la concezione di una donna che è ostacolo e non compagna all’uomo”.
Non sono sicura di aver capito l'inciso sull'Impressionismo...
RispondiEliminaNulla, l'inciso era una battuta che celava malamente una personale distanza e disinteresse per l'impressionismo. A me l'impressionismo quasi in blocco non piace e non interessa proprio, penso sia uno dei movimenti più sovrastimati della storia dell'arte e trovare in Vallotton un suo oppositore coevo quasi mi rincuora. Le Musée d'Orsay che sottotitolava la mostra sui macchiaioli di qualche anno fa "Des impressionnistes italiens ?" mi fa sorridere e arrabbiare al contempo, e non per questioni "nazionali" o peggio ancora nazionalistiche, bensì per ragioni artistiche e pittoriche. Ma si sa che un sottotitolo di una mostra d'arte è questione di marketing oggi e si vede allora che poteva funzionare far passare i macchiaioli come impressionisti italiani, pur con quel punto di domanda che rende tutto ancora più fastidioso, alla fine. Un saluto, A.
Elimina