giovedì 16 giugno 2016

"Piovono occhi morti": l'introduzione alla parte dedicata alla poesia straniera

Concludo la miniserie di post dedicata agli interventi letti in occasione di "Piovono occhi morti", la serata sulla poesia della Prima guerra mondiale dello scorso 9 giugno a Ca' dei Ricchi a Treviso. Quello che segue è il mio intervento, che precedeva una serie di letture in lingua straniera e traduzione da Georg Trakl, Peter Baum, Guillaume Apollinaire (al quale dobbiamo il titolo della serata), Pierre Reverdy, Siegfried Sassoon, Wilfred Owen, Ernest Hemingway, Anna Achmatova, Osip E. Mandel’štam, Miloš Crnjanski, Pastuškin (Andrei Budal), Jaroslav Kolman Cassius e, a chiusura, Giacomo Noventa.

Georg Trakl
Nella prima parte avete ascoltato alcune poesie di Giuseppe Ungaretti. In questo secondo tempo ascolterete poesie in lingua straniera e traduzione e alcune di queste sono le celeberrime poesie dei War Poets inglesi (Siegfried Sassoon e Wildred Owen). La poesia non fa quasi mai molto dibattere, tuttavia nel nostro paese di recente si è innescata una piccola discussione e polarizzazione attorno a questi due nuclei che potrebbero apparire emblematici: Ungaretti da un lato, i War Poets dall’altro. Sintetizzando si potrebbe dire che il succo del discorso, svoltosi anche nel sito di Wu Ming Foundation, era circa questo: laddove la poesia dei War Poets denuncia la propaganda bellica, la disumanizzazione e mostra una certa comprensibile e giusta empatia con il nemico, in Ungaretti il nemico semplicemente non c’è – Ungaretti “uomo di pena” è tutto rivolto al sé – rimane ineffabile. In Ungaretti scatta il lirismo, l’attaccamento alla vita nei momenti di massima disumanizzazione e ne esce un pianto paragonato a una pietra del Carso. 

A me questa discussione, prescindibile ma significativa, è parsa viziata, sterile e quindi inutile: la classica esca gettata nella rete, nei social network e nel dibattito per polarizzare, per semplificare, per arrivare poi a parlare dei legami di Ungaretti con il regime fascista. E poi si sa che i dualismi affascinano sempre, anche nel mondo dello sport ad esempio, dove sono creati ad arte dalla stampa per vendere di più. Insomma, rischiamo di farci male, anche perché in Italia con le macerie delle categorie di destra e sinistra da un bel po’ leggiamo persino il colore del latte. E dovremmo anche aprire una parentesi sul modo in cui il regime ha “impacchettato” la memoria della Prima guerra mondiale, e poi un’altra parentesi sulla quasi rimozione della Grande guerra in epoca post-resistenziale e repubblicana: insomma, ce n’è abbastanza per un saggio di 800 pagine senza nemmeno la garanzia di un qualche successo. Questo serva però per ribadire che necessariamente qualsiasi discorso parte e ritorna alla politica, perché troppo spesso ci dimentichiamo che qualsiasi guerra si dichiara per questioni dettate da un’agenda politica. Così fu anche per la Prima guerra mondiale, ovviamente, sebbene la lettura politica abbia da tempo lasciato la scena ad altre letture e tematizzazioni. Questo fatto è inspiegabile e inaccettabile e anche in questo quinquennio del centenario spesso la politica non si tocca, perché è scomodo riparlarne nell’Europa di oggi. Tornando a noi, non è vero che solo i War Poets (che fra l’altro ebbero pure incoraggiamenti alla scrittura da parte del governo di Londra) scrissero poesie per la collettività e di alto impatto culturale mentre Ungaretti le scrisse per sé. La guerra è primariamente una straordinaria esperienza collettiva e personale al contempo e rappresenta questo genere di esperienza ibrida per antonomasia e al massimo livello (in questo assomiglia molto alla poesia). La guerra è esperienza del compagno, del nemico e di molti gruppi, ma è anche un primo imprevedibile laboratorio di solitudine dell’uomo contemporaneo (lo percepiremo bene in alcune poesie che seguiranno). Questo schiacciamento di appartenenza e solitudine ha nella scrittura poetica una delle manifestazioni più nuove. Per chiudere questo passaggio aggiungerei che se una serata come questa saprà fornire qualche antidoto contro facili semplificazioni o “spezie” del dibattito, come curatori del programma potremmo essere soddisfatti. Più di tutto ci interessa offrirvi delle poesie scritte da chi la guerra l’ha vissuta realmente.

In questa seconda parte ascolteremo dunque alcune poesie in lingua straniera e in traduzione. La scelta multilinguistica potrà apparire bizzarra, visto che alcune sono lingue davvero poco conosciute qui. Di questo aspetto multilinguistico ne ha già accennato Marco Scarpa nel suo intervento, e dirò solo che la chiave multilinguistica ci è parsa uno dei pochi strumenti che avevamo a disposizione per restituire una spazialità alla lettura, proprio attraverso la variazione linguistica. Colgo lo spunto per soffermarmi sui concetti di spazio e tempo: questi gangli fondamentali della nostra vita cambieranno irrimediabilmente col conflitto, sia per la prima grande presa visione della vastità della guerra, contrapposta spesso all’esiguità degli spostamenti dei fronti, sia per quella progressiva familiarità con un tempo nuovo. Un esempio? Gli assalti e le uscite dalla trincea, precise al secondo, abitueranno ancor più alla sincronia e alla sincronizzazione, realtà (o forse irrealtà?) con la quale il mondo attuale fa sempre più i conti, fino ad arrivare a quella sincronia esagerata e irreale nonché alla mancanza di un senso del luogo nella quale ci hanno spinto i mezzi di comunicazione digitale (letti oggi i finali delle poesie di Ungaretti sembrano tag di georeferenziazione). Si tratta in realtà di un cambiamento nella percezione di tempo e spazio che trova impulso già alla fine del Diciannovesimo secolo e si completa proprio con la Prima guerra mondiale. Lo ha brillantemente mostrato Stephen Kern in un suo studio intitolato Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento. Il multilinguismo di questa serata è una questione di spazio quindi, di suono e di sostanza, ma anche una scelta scenica e di regia, per portarci altrove rimanendo fermi. 

Ascolteremo quindi poesie dal tedesco, francese, inglese, russo, serbo, sloveno, ceco e poi ci sarà un finale con una “lingua straniera” a sorpresa. Come sappiamo la guerra significò un’esplosione trasversale della scrittura, non solo poetica, narrativa o memorialistica (pensate ad esempio a un libro molto bello come il diario di Don Minzoni, cappellano militare lungo la linea del Piave). Le lettere e le cartoline costringeranno centinaia di migliaia di persone allo sforzo della scrittura ed è qui che ravvisiamo, nel caso del nostro paese, le prime manifestazioni di ciò che è stato studiato come “italiano popolare”. Questa sera abbiamo deciso di affrontare il versante poetico della scrittura che sgorgò abbondante dalle trincee o anche dai ripensamenti di quell’esperienza a guerra conclusa. Come è evidente c’è un portato di testimonianza eccezionale che proviene dalla letteratura mondiale di quegli anni, ma nei singoli testi c’è altresì un invito a tener alta la guardia contro le semplificazioni, a saper cogliere le differenze e le distinzioni che vanno necessariamente colte, per poter continuare a leggere un corpus di poesie che è ovviamente molto più ampio e sfaccettato di quanto possiamo offrire qui ora. Incominciamo con una poesia del poeta austriaco Georg Trakl intitolata Gródek, comune della Galizia, vicino al confine tra Polonia e Ucraina, tristemente noto come una delle prime carneficine del ’14. Di lì a poco, dopo aver assistito una novantina di feriti gravi, Trakl si suicidò all’ospedale di Cracovia, all’età di 27 anni. Overdose di cocaina. Ben prima della guerra, nel 1911, aveva scritto in Menschheit (“Umanità”) questi versi che leggiamo nella traduzione di Ida Porena:


Umanità schierata davanti a gole fiammeggianti,
un rullo di tamburo, buie fronti di guerrieri,
passi per la nebbia di sangue, stridio di ferro nero,
disperazione, notte in cervelli tetri.
Qui l’ombra di Eva, caccia e rosso oro.
Nube che luce trapassa, ultima cena.
Mite silenzio sta nel pane e vino
e in dodici si sono radunati.
Sotto gli ulivi a notte gridano nel sonno.
San Tommaso affonda la mano nella piaga.

Era appunto il 1911, in piena “belle époque”, e il suo sismografo era già più che ricettivo, in anticipo su tutto. Buon ascolto.

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