Librobreve intervista #70
Franca Cavagnoli |
Esce per Feltrinelli il 20 ottobre Un ritratto dell’artista da
giovane di James Joyce nella traduzione di Franca Cavagnoli (pp. 320, euro 9,50). Scrittrice e traduttrice, Franca Cavagnoli ha pubblicato per Frassinelli i romanzi Una pioggia bruciante (2000, Feltrinelli Zoom 2015), Non si è seri a 17 anni (2007) e Luminusa (2015). Ha pubblicato anche La voce del testo. L’arte e il mestiere di tradurre (2012; Premio Lo straniero 2013) Mbaqanga (2013) e Black (2014). Ha tradotto e curato opere di J.M. Coetzee, Nadine Gordimer, Katherine Mansfield, Toni Morrison, V.S. Naipaul. Per Feltrinelli ha curato e tradotto anche Il grande Gatsby (2011, premio Von Rezzori 2011 per la traduzione letteraria) e i Racconti (2013) di Francis Scott Fitzgerald.
LB: Qual è l'ultimo libro che ha tradotto e quale è stata invece la sua
prima esperienza di traduzione letteraria? Che ricordo ne conserva?
R: L’ultimo è Un ritratto dell’artista da giovane di Joyce, che esce in questi giorni per Feltrinelli. È uno dei libri più importanti della mia adolescenza e desideravo tradurlo da molto tempo, ma non mi sentivo mai pronta. Anche il primo è stato un romanzo irlandese – La ragazza dagli occhi verdi di Edna O’Brien, uscito per e/o. Ricordo lo smarrimento, la perenne sensazione di non farcela, un forte sentimento di impotenza.
LB: Oggi immagino che tutti traducano direttamente al computer ma immagino altresì che non sia stato sempre così. Al di là delle possibilità di controllo e revisione globale del testo che un qualsiasi software di elaborazione testi consente, pensa che questo cambiamento abbia dei riverberi sul risultato che magari non sono ancora stati studiati? (Mi ha colpito la sua annotazione sulla "s" del nome Gatsby che, in fase di traduzione, lei digitava "z", riportando il personaggio nell'alveo del suo nome originario James Gatz. Con una penna in mano sarebbe successo?)
R: Certo che sarebbe successo. Non ha a che fare con il mezzo con cui si scrive – il computer o la macchina da scrivere. È un lapsus. Quella ‘z’ ha cominciato a venire fuori a un certo punto della traduzione, durante la scena al Plaza, ed è stata rivelatrice. Per me Jay Gatsby è tornato a essere James Gatz in quella scena lì: il sogno ormai langue e l’illusione si schianta a terra in mille schegge.
LB: Nella sua prefazione alla nuova traduzione de Il grande Gatsby uscita per Feltrinelli, lei ricorda Ricoeur e quella sorta di "elaborazione del lutto" che si verifica nell'atto di accoglienza che è ogni traduzione. Qual è stato il lutto più difficile da elaborare?
R: L’ultimo. È sempre l’ultimo. E i miei tempi di elaborazione del lutto – il travaglio del lutto – sono lunghi. Riuscirò a non sentire più questo sentimento di mestizia, il distacco da Stephen Dedalus, solo fra molto tempo.
R: L’ultimo è Un ritratto dell’artista da giovane di Joyce, che esce in questi giorni per Feltrinelli. È uno dei libri più importanti della mia adolescenza e desideravo tradurlo da molto tempo, ma non mi sentivo mai pronta. Anche il primo è stato un romanzo irlandese – La ragazza dagli occhi verdi di Edna O’Brien, uscito per e/o. Ricordo lo smarrimento, la perenne sensazione di non farcela, un forte sentimento di impotenza.
LB: Oggi immagino che tutti traducano direttamente al computer ma immagino altresì che non sia stato sempre così. Al di là delle possibilità di controllo e revisione globale del testo che un qualsiasi software di elaborazione testi consente, pensa che questo cambiamento abbia dei riverberi sul risultato che magari non sono ancora stati studiati? (Mi ha colpito la sua annotazione sulla "s" del nome Gatsby che, in fase di traduzione, lei digitava "z", riportando il personaggio nell'alveo del suo nome originario James Gatz. Con una penna in mano sarebbe successo?)
R: Certo che sarebbe successo. Non ha a che fare con il mezzo con cui si scrive – il computer o la macchina da scrivere. È un lapsus. Quella ‘z’ ha cominciato a venire fuori a un certo punto della traduzione, durante la scena al Plaza, ed è stata rivelatrice. Per me Jay Gatsby è tornato a essere James Gatz in quella scena lì: il sogno ormai langue e l’illusione si schianta a terra in mille schegge.
LB: Nella sua prefazione alla nuova traduzione de Il grande Gatsby uscita per Feltrinelli, lei ricorda Ricoeur e quella sorta di "elaborazione del lutto" che si verifica nell'atto di accoglienza che è ogni traduzione. Qual è stato il lutto più difficile da elaborare?
R: L’ultimo. È sempre l’ultimo. E i miei tempi di elaborazione del lutto – il travaglio del lutto – sono lunghi. Riuscirò a non sentire più questo sentimento di mestizia, il distacco da Stephen Dedalus, solo fra molto tempo.
Giuseppe Pontiggia |
LB: Sempre in quella sua prefazione veniamo a conoscenza delle
preoccupazioni di Fitzgerald per i risvolti e i comunicati stampa che dovevano
accompagnare l'uscita del suo libro nel 1925 (libro che - ricordiamo - ebbe
inizialmente un'accoglienza tiepida). Nei contratti di traduzione che ho letto
mi ha sempre colpito il fatto che il traduttore dovesse fornire,
contestualmente al file finale della traduzione, anche una proposta di
risvolto, la quale poteva poi essere ripresa e adattata dalla redazione, così
come totalmente ignorata. Mi sono chiari i motivi "industriali" di
questa richiesta. Lei che ne pensa? Chi dovrebbe scrivere i risvolti e soprattutto che cosa si dovrebbe scrivere
nei risvolti? (Io ad esempio confesso che per anni ho fatto fatica ad
avvicinarmi al romanzo di Fitzgerald proprio a causa delle copertine e delle
quarte di copertina che mi sembravano tutte uguali, scontate e ripetitive;
quando finalmente ho letto il romanzo mi è parso che tutti quei paratesti e
confezioni avessero solo incrostato malamente un libro che è molto altro e
forse tutt'altro.)
R: Molti editori non lo scrivono nel contratto e alcuni non lo chiedono proprio. Non dovrebbe essere imposto. Scrivere un risvolto è una delle cose più difficili: bisogna selezionare attentamente ciò che si decide di inserire quando si ha a disposizione solo una ventina di righe. Dovrebbe occuparsene l’editor o il direttore editoriale: è una grande responsabilità. Ma può farlo anche chi traduce, se se la sente. Io li faccio da molti anni e ho imparato dal mio Maestro, Giuseppe Pontiggia. Un risvolto dovrebbe dare le coordinate sul contenuto e avere un valore informativo, promozionale e critico. Dovrebbe suggerire la trama e far risaltare gli elementi forti del libro: un paio, non di più. La difficoltà sta proprio qui: è difficile concentrare tanto in poche righe. Non ricordo più chi ha detto: «Non ho abbastanza tempo per essere breve». E poi il linguaggio deve essere evocativo, espressivo. Bisogna, cioè, badare alle valenze espressive e non solo a quelle concettuali, mentre la maggior parte dei risvolti è scritta in una prosa solo mediamente comunicativa.
LB: Che la poesia non paghi è vero anche nell'ambito della traduzione. Scorrendo la sua bibliografia si nota una sostanziale assenza della poesia. Effettivamente è così? E se è così, le manca poter tradurre poesia? Quale libro di poesia vorrebbe tradurre?
R: No, non mi manca. Leggo poesia – ora sto leggendo le dolenti liriche di Herbert riunite in L’epilogo della tempesta (Adelphi) – ma non ho con la poesia la frequentazione quotidiana che ho con la prosa. Non traduco poesia perché non scrivo poesia. Scrivo e traduco romanzi e racconti. Ma ho tradotto molta prosa poetica, da Sarah Kirsch a Katherine Mansfield a James Joyce. Prima di Un ritratto dell’artista da giovane ho tradotto Giacomo Joyce, una narrazione in prosa poetica, l’unico testo che Joyce ha ambientato a Trieste e non a Dublino.
LB: Sbuffa mai mentre traduce? In quali circostanze solitamente?
R: No. Se mai mi escono sospiri di autentica disperazione, quando non capisco fino in fondo quello che leggo e la ricerca che faccio non dà frutti.
LB: Chiedo un consiglio e una regola, se è possibile parlare di regola: nel caso di una traduzione di un romanzo, crede sia meglio operare continue revisioni sull'avanzamento della traduzione o cercare di concentrare e ridurre i momenti dedicati alla revisione del testo tradotto?
R: L’uno e l’altro. Alla fine della mattinata di lavoro rileggo quello che ho tradotto quella mattina. E lo stesso faccio l’indomani prima di cominciare a tradurre: rileggo quello che ho tradotto il giorno prima. E poi, quando ho finito la traduzione, cominciano le varie revisioni di tutto il libro: con il testo a fronte prima e, dopo, più letture dell’italiano senza più guardare il testo inglese, o solo occasionalmente. Rileggo più volte, e l’ultima rilettura è sempre a voce alta.
LB: Studiare teoria della traduzione è importante, oltre ad essere affascinante. La preparazione teorica di un traduttore ne aumenta sicuramente consapevolezza e senso di responsabilità. Ci consiglia un paio di testi fondamentali, uno di base e introduttivo e uno "avanzato", già immerso in questo tema?
R: Consiglierei il mio La voce del testo (Feltrinelli, Premio Lo Straniero 2013) e Traduzioni estreme di Franco Nasi (Quodlibet).
LB: Accenniamo brevemente agli aspetti della formazione dei nuovi traduttori. Che cosa si può insegnare e che cosa non si può insegnare?
R: Si può insegnare tutto, ma chi vuole imparare deve avere un’inclinazione, sentire forte, dentro, il desiderio di tradurre.
LB: Per chiudere vorrei che ci segnalasse il lavoro di qualche giovane traduttore, magari ancora non notato, che secondo lei merita particolare attenzione. Grazie.
R: Consiglierei senz’altro i lavori di due traduttrici davvero in gamba – Stella Sacchini e Camilla Diez –, che traducono dall’inglese e dal francese rispettivamente e hanno vinto il Premio Babel per giovani traduttori nel 2014 e 2015. È un premio che abbiamo voluto istituire per dare visibilità ai giovani. Da quest’anno il premio ha cambiato nome e ora si chiama Premio Babel-Booksinitaly. Abbiamo comunicato la rosa dei finalisti proprio oggi: Stefano Musilli, Luca Salvatore e Marta Silvetti.
R: Molti editori non lo scrivono nel contratto e alcuni non lo chiedono proprio. Non dovrebbe essere imposto. Scrivere un risvolto è una delle cose più difficili: bisogna selezionare attentamente ciò che si decide di inserire quando si ha a disposizione solo una ventina di righe. Dovrebbe occuparsene l’editor o il direttore editoriale: è una grande responsabilità. Ma può farlo anche chi traduce, se se la sente. Io li faccio da molti anni e ho imparato dal mio Maestro, Giuseppe Pontiggia. Un risvolto dovrebbe dare le coordinate sul contenuto e avere un valore informativo, promozionale e critico. Dovrebbe suggerire la trama e far risaltare gli elementi forti del libro: un paio, non di più. La difficoltà sta proprio qui: è difficile concentrare tanto in poche righe. Non ricordo più chi ha detto: «Non ho abbastanza tempo per essere breve». E poi il linguaggio deve essere evocativo, espressivo. Bisogna, cioè, badare alle valenze espressive e non solo a quelle concettuali, mentre la maggior parte dei risvolti è scritta in una prosa solo mediamente comunicativa.
LB: Che la poesia non paghi è vero anche nell'ambito della traduzione. Scorrendo la sua bibliografia si nota una sostanziale assenza della poesia. Effettivamente è così? E se è così, le manca poter tradurre poesia? Quale libro di poesia vorrebbe tradurre?
R: No, non mi manca. Leggo poesia – ora sto leggendo le dolenti liriche di Herbert riunite in L’epilogo della tempesta (Adelphi) – ma non ho con la poesia la frequentazione quotidiana che ho con la prosa. Non traduco poesia perché non scrivo poesia. Scrivo e traduco romanzi e racconti. Ma ho tradotto molta prosa poetica, da Sarah Kirsch a Katherine Mansfield a James Joyce. Prima di Un ritratto dell’artista da giovane ho tradotto Giacomo Joyce, una narrazione in prosa poetica, l’unico testo che Joyce ha ambientato a Trieste e non a Dublino.
LB: Sbuffa mai mentre traduce? In quali circostanze solitamente?
R: No. Se mai mi escono sospiri di autentica disperazione, quando non capisco fino in fondo quello che leggo e la ricerca che faccio non dà frutti.
LB: Chiedo un consiglio e una regola, se è possibile parlare di regola: nel caso di una traduzione di un romanzo, crede sia meglio operare continue revisioni sull'avanzamento della traduzione o cercare di concentrare e ridurre i momenti dedicati alla revisione del testo tradotto?
R: L’uno e l’altro. Alla fine della mattinata di lavoro rileggo quello che ho tradotto quella mattina. E lo stesso faccio l’indomani prima di cominciare a tradurre: rileggo quello che ho tradotto il giorno prima. E poi, quando ho finito la traduzione, cominciano le varie revisioni di tutto il libro: con il testo a fronte prima e, dopo, più letture dell’italiano senza più guardare il testo inglese, o solo occasionalmente. Rileggo più volte, e l’ultima rilettura è sempre a voce alta.
LB: Studiare teoria della traduzione è importante, oltre ad essere affascinante. La preparazione teorica di un traduttore ne aumenta sicuramente consapevolezza e senso di responsabilità. Ci consiglia un paio di testi fondamentali, uno di base e introduttivo e uno "avanzato", già immerso in questo tema?
R: Consiglierei il mio La voce del testo (Feltrinelli, Premio Lo Straniero 2013) e Traduzioni estreme di Franco Nasi (Quodlibet).
LB: Accenniamo brevemente agli aspetti della formazione dei nuovi traduttori. Che cosa si può insegnare e che cosa non si può insegnare?
R: Si può insegnare tutto, ma chi vuole imparare deve avere un’inclinazione, sentire forte, dentro, il desiderio di tradurre.
LB: Per chiudere vorrei che ci segnalasse il lavoro di qualche giovane traduttore, magari ancora non notato, che secondo lei merita particolare attenzione. Grazie.
R: Consiglierei senz’altro i lavori di due traduttrici davvero in gamba – Stella Sacchini e Camilla Diez –, che traducono dall’inglese e dal francese rispettivamente e hanno vinto il Premio Babel per giovani traduttori nel 2014 e 2015. È un premio che abbiamo voluto istituire per dare visibilità ai giovani. Da quest’anno il premio ha cambiato nome e ora si chiama Premio Babel-Booksinitaly. Abbiamo comunicato la rosa dei finalisti proprio oggi: Stefano Musilli, Luca Salvatore e Marta Silvetti.
Da Franca si impara sempre. grazie: Paul
RispondiElimina