giovedì 8 dicembre 2016

Pirandello poeta. Il verso come «serio comento a questa fantocciata della vita». Un'intervista a Selene Gagliardi

Librobreve intervista #72 

L'espressione "Pirandello poeta" dovrebbe subito collocare in un terreno insolito, dal momento che quasi mai si ricorda Pirandello per le sue poesie. A perlustrare la produzione in versi dello scrittore siciliano ci ha pensato Selene Gagliardi, che da poco ha pubblicato il saggio Pirandello poeta. Il verso come “serio comento a questa fantocciata della vita” (Augh!, pp. 172, euro 14). Le risposte che seguono rappresentano un'opportunità per tornare a parlare di questo lato. Si affrontano anche temi "spinosi" come quello dell'analisi testuale, tornato - almeno un po' - alla ribalta nei discorsi generali attorno alla poesia, all'analisi del testo e al modo in cui insegnarla.


Luigi Pirandello (1867 - 1936)
LB: A quando risalgono gli ultimi studi critici sulla scrittura poetica di Pirandello e cosa si è voluto recuperare (o da cosa ci si è distanziati) con questo recente libro?
R: In realtà dei veri e propri studi critici sulla produzione lirica di Pirandello non sono mai partiti, o meglio non sono partiti studi organici, essendo le analisi della poesia pirandelliana sempre affidata all’iniziativa di singoli ricercatori appassionati alla materia. Sicuramente sono pesati molto i giudizi negativi di due luminari della critica letteraria novecentesca come Leone de Castris e Luigi Russo, che addirittura additò i versi dell’Agrigentino come opera di “scolasticume”. Una nuova spinta alla lettura del Pirandello lirico, tuttavia, si è avuta dopo la pubblicazione di una raccolta complessiva delle sue liriche, curata da Manlio Lo Vecchio-Musti e che prese vita nel 1960 (e non a caso nel ’66 e nel ’68 videro la luce due monografie sull’argomento, a opera rispettivamente di Francesco Bonanni e Vittoriano Esposito). Altro capitolo fondamentale è stato il convegno internazionale organizzato dal Centro Nazionale di Studi Pirandelliani di Agrigento, che nel 1981 venne dedicato proprio al Pirandello poeta. Probabilmente fu quello il primo, vero studio sistematico delle raccolte in versi dello scrittore. Da lì si accesero di nuovo i riflettori su una parte dell’opera pirandelliana tanto poco studiata. Personalmente, per comporre questo libro ho cercato di trovare una mia strada, evitando confronti diretti con chi mi aveva preceduto nell’analisi. 

LB: Come è nata l'idea di questa pubblicazione?
R: Il progetto è nato quasi per caso, trovandomi a sfogliare un volume degli anni Novanta che comprendeva tutte le liriche, i saggi e altri scritti vari di Pirandello: si trattava di una versione aggiornata della già citata raccolta a cura di Lo Vecchio-Musti, contenuta nella famosa e prestigiosa collana dei Meridiani Mondadori. Aprendolo e leggendone subito alcune parti, mi è venuto in mente che non avevo mai sentito parlare di un Pirandello poeta e che quindi mi sarebbe piaciuto approfondire l’argomento. Era il 2011 e a quel tempo stavo per laurearmi alla Facoltà di Lettere dell’Università La Sapienza di Roma e perciò ho proposto al mio relatore, Francesco Muzzioli, di affrontare il tutto in una tesi. In corso d’opera ci siamo accorti della scarsità delle fonti critiche, per questo ho tentato di fare analisi inedite sulle liriche di Pirandello. Una volta ottenuto il diploma di laurea, ho rimaneggiato un po’ la dissertazione e inviato lo studio a diverse case editrici. La proposta più convincente è stata quella di Augh. 

LB: Lo studio si struttura in due aree principali: nella prima si analizza il percorso lirico di Pirandello, mentre nella seconda si ricorre all'analisi testuale. Ultimamente, almeno tra gli addetti ai lavori e con particolare riferimento a come si insegna la poesia a scuola, si parla molto di analisi testuale. Quali sono gli strumenti e le linee di forza attraverso le quali si è strutturata l'analisi testuale sul corpus poetico di Luigi Pirandello?
R: L’analisi testuale viene abitualmente fatta nelle scuole, per affinare la capacità critica dei ragazzi, ma in realtà in ambito accademico è meno frequentata di quanto si potrebbe immaginare. Raramente nel corso delle lezioni universitarie c’è il tempo per prendere in mano un testo e farne una puntuale disamina, e d’altronde i saggi che illustrino dettagliatamente dei testi non sono diffusissimi, in quanto si preferisce dare spazio al resoconto dell’analisi o comunque andare meno a fondo per poter affrontare più tematiche. Inoltre, in ambito accademico c’è anche una disputa tra diverse scuole di pensiero su come approcciare un’opera, tanto che la storia della critica letteraria vede più “schieramenti” contrapposti. A mio avviso, tuttavia, è fondamentale tornare a leggere il testo direttamente. Innanzitutto è necessario avere una buona base di conoscenza delle figure retoriche, anche se potrebbe sembrare superfluo. Per me, al contrario, è stato fondamentale: ad esempio, andando a leggere la lirica Meriggio, sulla scorta della retorica mi sono accorta che Pirandello aveva operato un fittissimo ribaltamento degli stilemi poetici di d’Annunzio (e in particolare della sua lirica omonima di qualche anno prima), ribaltamento tutt’altro che evidente a una prima lettura dei versi. Per ambientazione, lessico e metrica i due componimenti sembrano non accostabili, eppure grazie all’analisi retorica è risultato evidente che Pirandello voleva imitare il Vate, ma per opposizione, andando a scardinare punto per punto il suo modo di fare poesia. Spesso la retorica ci mostra quello che i poeti non vogliono dirci apertamente.

Georg Simmel (1858 - 1918)
LB: Restano saldi in questa recente pubblicazione molti rimandi filosofici, che emergono anche affrontando il Pirandello poeta... 
R: Pirandello è nato nel 1967, quindi gli anni della sua gioventù e del suo sviluppo intellettuale li ha vissuti in un periodo in cui imperversava la cosiddetta filosofia negativa (si pensi soprattutto a Schopenhauer e Nietzsche, ma anche a Simmel e Bergson). A cavallo tra i due secoli sono in particolare tre i lasciti filosofici che l’Agrigentino eredita e rielabora: la concezione vitalistica del mondo, secondo cui la realtà sarebbe un flusso in perpetuo movimento, in eterno divenire, per cui il reale è ontologicamente disarmonico e contraddittorio; l’incapacità – derivante direttamente dal primo assunto – per l’uomo di comprendere davvero ciò che lo circonda, infliiggendogli continuamente un forte senso di smarrimento; la presa di coscienza che anche l’uomo stesso altro non era se non un insieme di varie personalità, continuamente in evoluzione, tanto che il concetto di identità, di io, appariva a Pirandello ridicolo (e in tal senso grande importanza ebbero le scoperte di Freud e di Binet, che portarono nello scrittore siciliano all’utilizzo della metafora della maschera). Da qui la caduta di ogni ideale e di ogni convinzione precostituita, così come la necessità di elaborare un’arte, quella umoristica, che mettesse in risalto le contraddizioni e del mondo al di fuori di noi e di quanto avviene dentro di noi. Ridendone di gusto.

LB: Non v'è dubbio sulla modernità del Pirandello drammaturgo. In che misura la sua scrittura poetica illumina (o è illuminata da) la sua scrittura di teatro o prosa?
R: Per comprendere in toto l’arte pirandelliana, bisogna considerare le date in cui le varie opere del Maestro (così lo chiamavano i suoi collaboratori) furono composte. Pirandello fu poeta costante nella prima fase della sua carriera (anzi, iniziò come poeta e solo dopo l’incontro con Luigi Capuana si diede alla scrittura in prosa). Eppure dal 1912 in poi l’Agrigentino non pubblicò più sillogi in versi, dedicandosi interamente alla scrittura di teatro, romanzi e novelle, lasciando alla lirica un ruolo marginale da un punto di vista editoriale (ma non da quello sentimentale, tanto che in realtà Pirandello non smise mai del tutto di comporre versi). La poesia, quindi, anticipa cronologicamente la grande produzione drammaturgica e novellistica soprattutto, precorrendo le tematiche fondamentali del Pirandello maturo (la caduta di tutti gli ideali, l’impossibilità di credere in qualsivoglia divinità o principio precostituito, una sorta di pessimismo di matrice leopardiana, la presenza dell’ipocrisia nella società borghese, la necessità per l’uomo di vestire una maschera per destreggiarsi nel mondo), ma mostra uno stile inedito rispetto all’umorista che diventerà e contiene in germe dei temi poi poco sviluppati, come la passione storica, l’amore smodato per la natura incontaminata, il bisogno d’amore.

LB: Vorrei chiudere con un passaggio dal libro.
Ma perché l’uomo, in un’epoca in cui si era accertata l’illusorietà del concetto classico di identità, non riusciva a rinunciare all’opprimente bisogno di velare il proprio indefinito volto con una deformante maschera? Pirandello fornisce una spiegazione di matrice esistenziale e sociologica: l’uomo comune non potrebbe mai sostenere la vertigine dell’assenza di una determinazione individuale, non potrebbe mai portare avanti la propria vita fronteggiando titanicamente la carenza di un senso ultimo dell’esistenza, non potrebbe mai accettare il distanziamento da quella società – che la rinuncia alla fossilizzazione in un’identità precisa comporterebbe – nella cui integrazione scopre la propria ragione d’essere. Ed esattamente come accade per i ragni, le lumache e i molluschi, condicio sine qua non per l’essere umano è possedere “un piccolo mondo […] per vivere in esso e per vivere di esso. Un ideale, un sentimento, una abitudine, un’occupazione – ecco il piccolo mondo […]. Senza questo è impossibile la vita”. L’umorista, allora, non può pascersi beatamente nel riso che una tale buffonesca condizione gli fa nascere spontaneamente sulle labbra, ma viene colto, immediatamente dopo, da un acuminato sentimento di compatimento per la miserrima vanità delle cose umane, alle quali comunque gli è impossibile aderire. Ogni uomo, del resto, soggiace non solo alla maschera identitaria che volontariamente si pone sul volto, bensì anche alle infinite categorizzazioni in cui a forza viene immesso dagli individui con cui entra in contatto. L’insieme delle classificazioni a cui ciascun individuo viene fatto corrispondere rappresenta la totalità di altrettante trappole, dalle quali qualunque esperimento d’evasione risulterebbe vacuo. L’autore, inoltre, individua una terza tipologia di maschera, per così dire “naturale” – oltre a quella sociale e a quella che ogni uomo si autoimpone –, che trova perspicuo riscontro nei versi della lirica su cui si sta ragionando: il reclusorio del corpo. (pp. 150-151)

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