venerdì 3 marzo 2017

7x7 con Cristina Alziati: "Come non piangenti" in una lettura di Alessandra Conte (terza puntata)


7x7 è una rubrica articolata in regolari uscite metrico-stilistiche nell'arco di sette venerdì e dedicate ad un libro. Come non piangenti è il libro di poesia di Cristina Alziati, pubblicato da Marcos y Marcos nel 2011 nella collana Gli Alianti, per il quale è stata scelta l'immagine emblema del Vergesslicher Engel di Paul Klee. Le analisi sono tratte da un più ampio studio di Alessandra Conte, dedicato a Cnp nel 2014.


Notte


Ho fatto ancora tardi sulle carte, i tagli
il titolo che manca – come decenni orsono
nelle stanze occupate di Festa del Perdono,
ora ristrutturate patinate, che nemmeno davanti
io vi passo più. Dal bar accanto un presidente
dimostrative mini atomiche promette, io
faccio ancora tardi. Da sotto i quintali di ferro
una fede trascrivo, dove schianta. Adesso
a Korogocho vanno al suicidio i piccoli
tenendosi per mano, cieco grumo
ultimo amore che contro la notte ama.


Notte è la prima poesia con titolo che si incontri nel libro. La notte è il momento che accoglie la scrittura e la ricezione, e notte è la cecità delle società occidentali nei confronti dei diseredati. E ancora, notte è ogni vita dimenticata che si consuma davanti alla suddetta cecità. Ripetere l’esperienza di attardarsi sulle carte, è metonimia che presume si abbia a che fare con lo studio e la scrittura, che ripropone questioni come depurare parti, i tagli, e decidere titoli, «il titolo che manca». La reiterazione induce al paragone con il tempo passato, «come decenni orsono», ed è occasione per spostare l’asse spazio-temporale e ricordare gli stabili di via Festa del Perdono, sede dell’Università degli Studi di Milano, dove un tempo l’attività era per l’autrice, probabilmente studentessa, abituale. In questa strada milanese dal nome vagamente ironico, visto il contesto della poesia, c’era e c’è un edificio un tempo occupato, che però ora esibisce locali ristrutturati e degni delle migliori riviste d’arredamento («stanze […] ora ristrutturate patinate»), davanti alle quali l’autrice, forse anche per lo stridore tra la realtà attuale ed il ricordo, non passa più. Il primo periodo narra tutto ciò snodandosi nei primi quattro versi e all’inizio del quinto. La dizione è nitida e fonicamente orchestrata. Netta è la predominanza della vocale /a/, aperta ed anteriore, specie in posizione tonica nelle parole usate e, al primo verso, si associa per lo più a bisillabi (fatto; tardi; carte; tagli): se ne ricava quasi un facile senso di accumulo, anche grazie al ritmo cui si uniscono tali suoni. La sequenza del primo verso, ipermetro a base endecasillabica, dove il metro tradizionale viene suggerito dal respiro della virgola, scandisce infatti un’alternanza regolare tra pieni e vuoti degli accenti. Si susseguono le sillabe toniche ed atone, completando una serie che, iniziando in levare, valorizza le sillabe pari. Sembra che il verso si costruisca “a orecchio”, tramite parole che ripropongono minimi nuclei sonori o singoli fonemi, come fossero generativi a catena rispetto alle scelte lessicali successive. Per esempio i suoni /a/ e /r/ associati, si alternano in sequenza nel primo verso («ancoRA tARdi sulle cARte»), dove la sillaba -ta- ricorre, in tardi e tagli – parole assonanti e consonanti imperfettamente – a fine verso, che si raccorda con la parola titolo all’inizio del successivo, dove mANCa e ORsono si collegano ad ancora tramite le porzioni -anc- e -or- . Tra i versi 2 e 3 si colloca addirittura una rima tra orsono : Perdono. Accanto alla consueta musicalità cui l’Alziati pone cura, emerge la possibilità di intravvedere un senso ironico nell’uso dei suoni e nelle scelte lessicali. Tale risonanza si riverbera nelle qualificazioni delle stanze, dove la somiglianza di suono si esibisce nella desinenza. Si delinea una sequenza di rima interna facile tra i versi 3 e 4, ossia tra occupate : ristrutturate : patinate, dove la ripetizione del suffisso -ate, specie nella coppia al verso 4 (al cui confine segnato da virgola si delinea un endecasillabo affiancato poi da un settenario), mostrerebbe la petulante cura e decoro estetico, rispetto all’uso socialmente distinto e impegnato di decenni prima. Lo stridore si individua dal punto di vista temporale (nella coppia orsono / ora) e stilistico, contrapponendo lo scarso impegno di una rima facile e il registro colloquiale dell’uso del che polivalente al contenuto «nemmeno davanti / io vi passo più», che si distingue per l’uso del vi avverbiale, elevato, in luogo del corrente ci, e per la costruzione con inversione che, come uno degli aspetti della prolessi, rappresenterebbe un’enfasi sulla parte di informazione anticipata, nemmeno davanti. A questo punto il secondo periodo propone un cambiamento di fotogramma: lo sguardo si sposta accanto, e si vede un bar. L’atmosfera della zona non è più quella di un tempo, vivace e studentesca: dal bar vicino, probabilmente uno dei tanti della Milano da bere, una radio o uno schermo diffondono la colonna sonora, il consueto rumorio delle notizie internazionali che si confondono con il caos comunicativo della società di massa. Elegante e patinato come il palazzo rimesso a nuovo, un qualsiasi presidente del mondo globalizzato «dimostrative mini atomiche promette», mentre l’autrice, appunto, di nuovo si attarda, iterando la formula iniziale ora al tempo presente – a considerare questa scena, o a scrivere («io / faccio ancora tardi») – e dove il soggetto viene esplicitato e sottolineato in punta di verso. L’iperbato tra i versi 5 e 6 ( dove la nasale implicata /n/ di presideNTe richiama accaNTo, e assuona con promette) antepone l’oggetto al verbo promette, e nell’oggetto l’aggettivo dimostrative a mini atomiche, considerabile unità. L’inversione rende alta e artificiale la costruzione, che stride e ironizza con la solennità di una tale promessa, ma soprattutto con il contenuto del periodo successivo, il più breve dei quattro, e incisivo, «Da sotto quintali di ferro / una fede trascrivo, dove schianta». Qui avviene la transizione, con una striatura di espressionismo nella metafora, tra esterno-interno, mondo-corpo. L’iperbole quintali, o forse non tale, intendendola alla lettera e se riferita esattamente per sineddoche di ferro agli armamenti, amplifica e imprime sul lettore la dismisura del peso dell’effimera realtà descritta che a questo punto della poesia grava sull’autrice, che si fa manifesto per contiguità con le bombe atomiche citate. Potrebbe essere anche il peso della tradizione letteraria, ma in questo caso, anche per i ritorni di alcune espressioni in altre poesie del libro («lo schianto repentino»[1]; «da sotto quintali di ferro»[2]), sembrerebbe richiamare il peso che l’autrice – tramite la scrittura – si dispone a portare a galla nella scelta di farsi testimone, e quindi di parlare, di ciò di cui si tace di solito; dove trascrivere per scrivere, designa, ricordando la modalità della scrittura dell’Alziati come nominare, quindi “dando voce” a ciò che altrimenti verrebbe perduto, la trascrizione del testo del mondo copiandone le immagini nelle poesie, rappresentandolo attraverso il sistema grafico-sonoro. E la fede trascritta – una fede di ferro, suggerirebbe l’orecchio che ricorda e associa – sarebbe nel sistema della scrittura stessa dell’autrice, che nutre fiducia tenace nel valore della testimonianza. Nonostante ciò, o proprio per questo, schianta, affligge e strazia: la forma verbale richiama il tonfo della deflagrazione delle iperboliche bombe che piombano anche nella sua mente (in altre poesie: «questa mente impolverata dove / l’aculeo di una storia esangue giace»[3]; «qualcosa mi aveva inciso nella mente / come elenchi i nomi»[4]) o dell’implosione di tale grumo di realtà. Dopo lo slittare del tempo, dal passato recente a decenni prima e di nuovo al presente, è il piano spaziale che scivola altrove, in zone apparentemente non contigue. Come un presidente di una qualsiasi superpotenza occidentale è lì accanto, evocato nelle news, così anche il suo rovescio, ma al buio e non patinato. Mentre in via Festa del Perdono si consumano i riti e l’iper-comunicazione della società di massa, proprio adesso, come recita il titolo di un’altra poesia del libro (Adesso, p. 60), ci sono persone – bambini – che cercano la morte nei posti più disperati della terra. Non casualmente l’avverbio temporale è isolato e messo in risalto tra la fine del verso 8 e il punto fermo che lo precede, configurandosi come una aggiunta all’endecasillabo che tale pausa ritaglia. Adesso, accanto a quel bar c’è anche Korogocho, la baraccopoli sovraffollata alla periferia di Nairobi, vicino ad una discarica e separata dalla quale sta un acquitrino, in cui si gettano i bambini che si vanno a suicidare. Così spiega in nota l’autrice. La crudezza dell’impatto di questa realtà è attutita dalla tecnica con cui è definita l’immagine metaforica del grumo, collocato al termine di un endecasillabo (che è anche quello di semi del cisto[5] o «la roccia residua da cui scrivo»[6]), e che si riverbera come lamento silenzioso nel suono allitterante /m/ ripetuto in ultimo, amore, ama dell’ultimo verso della poesia, quasi a ricordare la preghiera di nominare ciò che altrimenti verrebbe per sempre perduto.

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[1] CRISTINA ALZIATI, Come non piangenti, Milano, Marcos y Marcos, 2011, p. 26, v. 6.
[2] Ivi, p. 64, v. 1.
[3] Ivi, p. 19, vv. 9-10.
[4] Ivi, p. 63, vv. 2-3.
[5] Ivi, p. 74, v. 9.
[6] Ivi, p. 71, v. 18.

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