martedì 13 giugno 2017

"Paesaggi del trauma" di Matteo Giancotti

Paesaggi del trauma di Matteo Giancotti (Bompiani, pp. 272, euro 12, in libreria in questi giorni) è uno spoglio ragionato e aggiornato di scritture letterarie, diaristiche, memorialistiche e saggistiche volto a focalizzare un arduo binomio inciso dal titolo sul quale sarà necessario ritornare più volte. Prima di proseguire, serve introdurre un ulteriore binomio composto da Grande guerra e Resistenza quali luoghi primari sui quali si concentra lo zoom dell'autore. Naturalmente fermarsi a parlare di spoglio sarebbe ingeneroso e riduttivo, perché Matteo Giancotti ha cercato, sin dalle prime battute, di trovare la quadra per far sì che lo studio non si riducesse ad una rassegna su temi e autori evidentemente ritenuti significativi ed esplicativi dell'oggetto della ricerca, ma diventasse la proposta di un metodo per avvicinare i "paesaggi del trauma" che continuamente osserviamo nel prepotente ribollire del reale e della storia. Inoltre, va detto in avvio che il campione di testi su cui l'analisi si concentra è davvero ampio e che per uscire dal rischio di un'opera chiusa su due momenti storici per definizione irripetibili, l'autore si è aperto a un'altra guerra, non di molto lontana alla Prima guerra mondiale dalla quale il volume prende le mosse e ancora più vicina al nostro tempo. Verso la fine infatti subentra un tentativo di sintesi, o quantomeno di proficuo spostamento, con l'introduzione di un terzo vertice rappresentato dal rinvio al magmatico Zona di Mathias Énard (uscito nel 2008 e pubblicato in Italia nel 2011 da Rizzoli nella traduzione di Yasmina Melaouah), opera-fiume nella quale attraverso il protagonista, la spia Mirkovic, "ripassiamo" in modo del tutto sorprendente i conflitti e le zone di guerra del Novecento, con particolare riferimento all'area balcanica. 

Il rischio di stasi teorica che può correre uno studio sul paesaggio ("land-scape" in inglese, e la statica veduta è quindi centrale e in agguato) è conosciuto in anticipo. Così come nello sviluppo di quel metodo irripetibile dei primi studi storico-letterari di Mario Isnenghi sulla Prima guerra mondiale, la mole di materiali sondati in questo libro detta una propria legge di analisi e impone un proprio metodo, che si svelerà via via. In fondo, è questa una rivendicazione di autonomia metodologica non lontana da quella che guidava critici come Baldacci o Garboli. Il risultato dello spoglio è allora fatto reagire con l'impostazione teorica di fondo, che ci rimanda ancora una volta al binomio del titolo, tanto da far risuonare una domanda a due tempi: come possiamo studiare i paesaggi attraverso le perforazioni dei traumi individuali e soprattutto collettivi e cosa velano, ancor più di quanto svelano, i paesaggi? Aggiungerei una domanda più radicale e destabilizzante: quanto possiamo pretendere ancora dal trauma affinché ci porti a comprendere sia la memoria storica sia il contemporaneo? E siamo certi che alla fine non sia altrettanto corretto, se non addirittura più promettente, provare a parlare di un trasversale "trauma del paesaggio"? A ben pensarci, potrebbe essere proprio la scoperta del paesaggio a divenire l'evento traumatico in sé, ben prima dei traumi storici che sul paesaggio si scatenano, poiché quel "fascio di percezioni" che il paesaggio è, mediante determinati filtri, arriva a far breccia e traforare la coscienza individuale e collettiva.

Da che cosa prende le mosse uno studio del genere? Giancotti opportunamente scrive e circoscrive così il suo oggetto, già nella prima parte dedicata alla Grande guerra:
il concetto stesso di paesaggio, almeno nell’ambito dell’espressione scritta, ha a che fare più con la rielaborazione culturale che con l’esperienza (e l’espressione) diretta, essendo appunto il suo ambito una zona di incontro tra esperienza, rappresentazione e memoria culturale: è fisiologico che lo si trovi rappresentato tra le pagine degli scriventi colti più che in quelle dei “semicolti” o degli incolti (p. 127).
Poi, nella seconda parte dedicata alla Resistenza, ritorna su questi passi e ribadisce:
Anche al di là dei valori condivisi che la società riconosce  alla letteratura, resta il fatto che senza letterarietà [...] nemmeno il paesaggio esiste. Perché il paesaggio emerga nella scrittura è infatti necessario che agisca il filtro psicologico e culturale del soggetto, la cui presenza emerge non solo nelle opere ad alto tasso letterario, dove in effetti siamo abbastanza sicuri di incontrare l’io, ma anche nelle scritture documentarie (di Chiodi e Revelli per esempio) che più tendono apparentemente a cancellare l’istanza soggettiva, conservandola spesso implicitamente (p. 207).
Ma ritorniamo al titolo, ai paesaggi (plurali) e al trauma (quasi sempre al singolare quando sta in discorsi di letteratura). Con il primo termine rientriamo in un terreno insidioso e ci rifacciamo, con l'autore, a uno studioso come Michael Jakob - autore di opere quali Il paesaggio, Paesaggio e letteratura e Paesaggio e tempo - il quale sintetizza il paesaggio come qualcosa che nasce dall'incontro di natura e soggetto. Ma è soprattutto sul fronte del nostro secondo termine, "trauma", che si registrano le scosse più interessanti ancorché controverse e problematiche degli ultimi studi critici. Basti ricordare il discreto successo di un saggio di Daniele Giglioli intitolato apoditticamente Senza trauma. Scrittura dell'estremo e narrativa del nuovo millennio (pubblicato da Quodlibet nel 2011 e ricordato da Giacotti in sede introduttiva), per capire che qui la chiave che intona il discorso riporta il trauma in un suo alveo originario: in questo libro si parla di paesaggi dove sono accaduti eventi traumatici per i singoli o per intere collettività e dei precipitati nella scrittura di testimonianza, antecedenti insomma allo spoglio sugli anni zero compiuto da Giglioli. Del resto, per stare alla Prima guerra mondiale da cui il libro parte, come mostrò splendidamente L'officina della guerra. La Grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale di Antonio Gibelli (Bollati Boringhieri, prima edizione 1991), quel conflitto fu innanzitutto un'immane nuova esperienza di sconvolgimento e non vi fu livello dell'esistenza umana che non venne investito o persino rivestito. Tutto ciò premesso, è chiaro che il binomio del titolo, vero pendolo su cui s'inossa la trattazione di Giancotti, è la chiave di volta teorica per domare un oggetto di ricerca che resta comunque capriccioso, refrattario e persino recalcitrante. Insomma, non è per niente facile tenere testa a qualcosa che, come abbiamo letto, "non esiste" e che però è segnato da un trauma. E in secondo luogo, non è affatto agevole collocare il paesaggio, quale "fascio di percezioni", in un alvo che è sia individuale sia collettivo senza affrontare delle aporie inaggirabili, senza chiedersi qual è la giusta teoria per il nostro "land-scape" trivellato di traumi.

Uno dei meriti del libro coincide con il saper sollevare alcune giuste domande sui due termini del binomio e soprattutto sul valore e la direzione di quel genitivo espresso dal titolo, quasi potesse essere letto come genitivo soggettivo e oggettivo (i paesaggi dove il trauma agisce ma anche, forse, il trauma agito dai paesaggi). Giova all'impostazione l'aver scelto per le prime due parti momenti storici profondamente diversi, nei quali sia "paesaggio" che "trauma" occupano postazioni a volte opposte: se nella Prima guerra mondiale siamo in un conflitto fatto di "linee del fronte" e "zone di guerra" (torna la parola "zona", come nel titolo di Énard), nel caso della Resistenza passiamo alle macchie puntiformi della guerriglia, alla Resistenza quale "fusione di paesaggio e persone" nelle parole di Italo Calvino, a un paesaggio sparso dove la natura torna a essere protezione e difesa dalla violenza (protegge anche una trincea, in realtà, ma solo nell'attesa dell'assalto). Ed è qui che il corpo a corpo con le suddette aporie avviene e subentra la necessità della critica, che è sempre chiamata a distinguere; così fa l'autore, distinguendo paesaggi e situazioni del suo nutrito campione e anche, cosa non più comune a tutti i critici, stabilendo un ordine di grandezza tra gli autori proposti (non un canone, bensì una più utile scala). Un libro è poi anche quello che suggerisce, gli interrogativi che implicitamente pone, quasi adombrandoli. E allora verrebbe da domandarci quale sarà il nuovo "trauma del paesaggio" (o "paesaggio del trauma"), se potrà somigliare da vicino all'inferno del diorama turistico internazionale o all'"angoscia di un paesaggio digitale" (per citare una canzone dei Massimo Volume). La distinzione sopra ricordata tra semicolti o incolti probabilmente varrà sempre meno, così come dovremmo rivedere il concetto di letterarietà, perché il paesaggio è diventato ingrediente trasversale del turbo-bio-capitalismo e come tale s'impone ai futuri studi, inclusi quelli di natura storico-letteraria. Sempre attuale allora quella domandina: che fare?

Tornando al volume e alla sua strutturazione, se nella prima parte dedicata alla Grande guerra fanno capolino Serra, Ungaretti, Lussu, Sbarbaro, Comisso, D'Annunzio, Marinetti, Puccini, Antonio Baldini di Nostro purgatorio, in quella dedicata alla Resistenza la coppia primaria Fenoglio-Meneghello è affiancata da numerosi inserti dedicati a Viganò, Del Boca, Sogno, Zangrandi, Fortini, Zanzotto, Cecchinel de Le voci di Bardiaga, Caproni e da un efficace invito a ripensare il lascito di Cesare Pavese (per tornare alla scala, diversa dal canone, non proprio un ridimensionamento è quello che riguarda lo scrittore piemontese, ma un'ammissione di preferenza per le vie percorse da altri autori, rispetto al suo fascinoso trattamento mitico della violenza de La casa in collina). Giova in tutto ciò la scrittura che ha governato questo spoglio, prosa tattile, in grado di riconoscere asperità e texture al passaggio delle mani. Le pagine contengono anche alcune utili riflessioni su una sorta di sperequazione dei generi letterari che attraversano il campione della ricerca: nella parte resistenziale, la poesia ad esempio scompare quasi del tutto anche tra gli stessi poeti (oppure è di molto successiva, come per Cecchinel). Lasciamo al lettore la possibilità di scoprire le considerazioni che si fanno in merito a questo fatto.

Giancotti, studioso di molti pezzi importanti del Novecento tra cui Rebora, Valeri e Zanzotto, ha pure lui "paesaggito" molto e si pone davanti a questo "infinito assente, infinito accoglimento" (così Zanzotto si riferisce al paesaggio nella poesia "Ligonàs" di Sovrimpressioni) con le spine teoriche di chi riconosce che siamo solo all'alba di una nuova serie di studi. Non sarà un caso che, proprio per questo motivo, una primissima cosa da fare, tanto semplice quanto necessaria, è verificare le occorrenze della parola 'paesaggio' nei vari autori (Giancotti lo aveva fatto anche in un saggio sul paesaggio in Goffredo Parise contenuto nel numero monografico della rivista "Riga" dedicato allo scrittore veneto). In effetti, se ci soffermiamo, possiamo convenire che la storia del paesaggio, perlomeno quello che si studia oggi sul versante della scrittura, è tutto sommato recente, mentre è assai più consolidata la vicenda del paesaggio all'interno dell'arte pittorica o architettonica (basti pensare a Palladio). Ciò che mi pare vada riconosciuto a questo studio è il vistoso spostamento del cursore su un asse precipuamente spaziale, prima ancora che temporale. Questo vale ben di più dell'insistenza sul trauma, parola della medicina che potrebbe presto o tardi esaurire il suo potenziale euristico, sia in presenza che in assenza di trauma. Il paesaggio è senza dubbio spazio rielaborato e filtrato, e lo possiamo far coincidere con uno spazio psicologico, quindi mentale e infine, in ultima analisi, ancora una volta temporale: un infinito assente e un infinito accoglimento, appunto, come ha giustamente sintetizzato Zanzotto, una necessità e un riflesso della psiche e del corpo, altrimenti destinati a implodere. A tal riguardo, Giancotti riporta un passo molto bello e emblematico nel quale si ritrae Sergio Solmi di ritorno dopo dieci anni sui luoghi della sua guerra (il Montello e Nervesa, che diventerà appunto Nervesa della Battaglia). Costeggiando quella che era la prima linea, lì dove le pendici del Montello sono prospicienti Colfosco e le colline di Susegana, Solmi di riflesso è ancora portato ad abbassare e ritrarre la testa tra le spalle per la paura di trovarsi allo scoperto fuori dalla trincea, forse memore degli spari che provenivano dalla riva sinistra del Piave.


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