domenica 10 settembre 2017

"Tutte le poesie" di Mario Benedetti. Lo scritto di Gian Mario Villalta

Esce in questi giorni per Garzanti il libro Tutte le poesie di Mario Benedetti (pp. 336, euro 16, a cura di Stefano Dal Bianco, Antonio Riccardi e Gian Mario Villalta). Il libro contiene le poesie di Umana gloria (2004, ormai da tempo introvabili), Pitture nere su carta (2008), Tersa morte (2013) e gli inediti di Questo inizio di noi (2015). 
Domenica 17 settembre, alle ore 15:30, al Palazzo della Provincia di Pordenone avrà luogo la presentazione del volume nell'ambito del festival Pordenonelegge. Qui di seguito si riporta lo scritto di Gian Mario Villalta contenuto nel volume di Garzanti.

Una ferita coralità perduta

di Gian Mario Villalta


Nimis è un paese friulano che si trova a nord di Cividale, vicino al confine con la Slovenia. Al bambino Mario Benedetti, quel luogo di torrenti, di stradine storte tra i colli, di prati divisi da siepi, circondati a corona dalle cime appuntite dei monti, appare favoloso. Altrettanto favolose sono le leggende dei boschi e di luoghi lontani (tutti i luoghi, allora, erano lontani da Nimis) accanto alla realtà presente di uomini che non vivono altro mondo che il loro mestiere, gli umori del paese, le loro frasi in friulano o in “slavo” (le frazioni montane del comune hanno oggi la tutela della parlata slovena). Favolose, a volte paurose sono pure le leggende alimentate da quello che si poteva e non si poteva dire della storia recente: per Mario Benedetti, quel bambino che è nato nel 1955, la violenza della guerra finita da pochi anni ha i ricordi degli altri, il furore nazista (fu bruciato il paese) e i contrasti fra le fazioni partigiane (Porzûs è a pochi chilometri); e ha il presente della vicinanza e della convivenza di famiglie italiane e slovene (la madre di Mario conosce meglio la parlata slovena del posto che il friulano) durante la lunga risoluzione internazionale per determinare i confini.

Un mondo favoloso che con il passare del tempo rivela all'adolescente e poi al giovane Mario la sua durezza, e soprattutto la distanza da ciò che impara a conoscere e amare durante gli anni dello studio, perciò nel 1976 sceglie di trasferirsi alla Facoltà di Lettere a Padova, lontano dal Friuli. Non si è perso del tutto il ricordo dei vicini valichi di frontiera, sorvegliati dalla milizia jugolava, oltre i quali c'era la benzina e la carne a buon mercato, ma anche una realtà politica diversa, che generava un clima di oppressione: chi abitava quel confine, da sempre mobile e permeabile, viveva un'identità che non poteva rivendicare. Né si è persa memoria di quegli anni Settanta, quando l'esplodere delle comunicazioni si lega a una generale volontà giovanile di emancipazione.

A Padova Benedetti si laurea con una tesi su Carlo Michelstaedter, seguita da un diploma di perfezionamento in estetica. In questa città il clima degli anni di piombo ha temperature più intense che altrove. Completati gli studi, e cancellata ogni ipotesi di ritorno in Friuli, Benedetti inizia a insegnare. Nel 1986 incontra Stefano Dal Bianco e Fernando Marchiori, con i quali darà vita per tre anni alla rivista «Scarto minimo». Nel 1994 si trasferisce a Milano, soprattutto per ragioni affettive, dove trova un ambiente diverso da quello padovano. A Milano c'è anche Stefano Dal Bianco, che lavora presso Crocetti.

Sarebbero forse da spendere alcune parole sull'amicizia, quella impossibile e mai venuta meno tra Mario e Stefano Dal Bianco, quella che ci ha visti insieme, con Stefano e Antonio Riccardi in carbonare riunioni milanesi, e nelle case degli uni e degli altri con altri amici, a Milano e in Friuli, ma non è questa l'occasione, e l'amicizia non sta in poche righe.

* * *

Mario Benedetti ha deciso quindi di interporre una significativa distanza tra la propria vita e quella di Nimis, scegliendo Padova, proprio in quell'anno 1976 quando il terremoto (che colpirà severamente il suo paese), farà sì che il Friuli inizi a cambiare, raggiungendo a tappe forzate la modernità. Una “modernità” che infine cancella quella dimensione “arcaica” di cui Pasolini è stato fino alla morte, avvenuta l'anno prima, il cantore. Sarà proprio questa rapida, impressionante modernizzazione della sua terra di origine a fornire un serio tema di riflessione quando Benedetti, stabilitosi a Milano, verrà in contatto con la fervida vitalità della poesia neodialettale, allora all'apice della sua stagione. Pur non recedendo dalla ricerca di una dizione poetica cosciente dei problemi di espressione nella lingua italiana, sente nell'esperienza neodialettale l'attrazione per l'identità dei luoghi lontani dal flusso delle comunicazioni, l'accento sulla singolarità del vissuto delle piccole comunità, la presenza di oggetti e gesti salvati dall'onda lunga del “consumismo”.

I ritorni e le permanenze a Nimis si faranno più frequenti, e in paese ritroverà una propria dimensione del presente, dove risorge prepotente l'infanzia, in una specie di polarità o identità distante con la Francia, in particolare la Bretagna, che visita spesso e che gli offre materia per dare tempi e spazi più ampi alla sua maturazione poetica, in quegli anni decisiva. Il tema del tempo, presente fin dalle prime raccolte, acquista radicamento nei luoghi, infatti, trova lo spazio dove legare le parole alla vita vissuta non solo propria, alla ricerca dell'espressione di una ferita coralità perduta.

Benedetti non ha mai temuto le contraddizioni: una di queste è stata ricusare la poesia in dialetto (o nelle lingue minori) e insieme seguirne da vicino lo sviluppo, lasciarsene investire e contaminare. Le ragioni del rifiuto erano più o meno quelle che nutrivano la distanza di Manzoni da Carlo Porta: la tradizione, la storicità della lingua poetica, il suo orizzonte di espressione più atteso. Però la realtà allora fervente della poesia neodialettale gli portava qualcosa che lo interessava a fondo: la dimensione antropologica che ne emergeva, il contrasto tra un tempo passato ancora vivo nel presente e un presente refrattario alla memoria, la vita quotidiana che si accende di una dimensione lirica nello straniamento di una voce più vicina alla vita e allo stesso tempo diversa da quelle che alimentano un enorme volume di comunicazione sempre crescente. Dopo Una terra che non sembra vera, pubblicato presso Campanotto in occasione della vittoria al Premio San Vito al Tagliamento (allora, nel 1996, in giuria c'erano i poeti Giacomini, Naldini, Ramat e Zanzotto), e per i successivi Il parco del Triglav e Borgo con Locanda, mi è sembrato allora utile usare questa formula paradossale: “Benedetti è uno dei migliori attuali poeti neodialettali... in italiano”.

Ci sono lacerti di friulano nelle sue poesie, come anche di sloveno del suo paese, ma non è questo un indice significativo. Quello che Benedetti, secondo me, stava facendo - e ha fatto - è stato intessere nella sua poesia tempi e luoghi diversi senza strapparli alla loro collocazione antropologica (per consegnarli a una lingua poetica a loro estranea), rimanendo sulla linea dei neodialettali, ma differenziandosi per la coscienza dell'avvenuta dispersione dell'io poetico e della impossibilità di qualsiasi gesto di recupero o di nostalgica celebrazione. Un'operazione che ha fatto proprie molte intenzioni e mete raggiunte dalla poesia neodialettale, ma indirizzandone diversamente il senso generale, quasi rovesciandolo: se è tutto vero quello che è accaduto, come conseguenza della storia recente, nel renderci estranei alla lingua poetica della tradizione, se davvero c'è autenticità nel vissuto comune e quotidiano, se il fondamento antropologico di questo sentire comune e della stessa lingua è ciò che la poesia deve accogliere, allora, secondo Benedetti, era compito del poeta far sì che tutto questo accadesse dentro la lingua italiana, non perché opposta al dialetto, ma perché da sempre luogo di convivenza e di riferimento culturale di realtà differenti.

Milano e il Friuli diventano per alcuni anni (fine dei Novanta e i primi del nuovo millennio) il punto d'incontro di relazioni e amicizie che consolidano la presenza di Benedetti nel panorama nazionale, fino a segnare l'approdo decisivo di Umana gloria (2004). Questo libro, che riassume l'esperienza precedente della sua poesia, ma riunita in una nuova composizione dove emergono le novità, viene subito individuato come una presenza importante e nuova nell'orizzonte poetico italiano.

Nel 2004 Benedetti viene colpito dal grave accesso della malattia che segnerà la sua vita successiva - una forma peculiare di sclerosi multipla -, dal quale si riprende con tenacia, ricominciando a insegnare e a scrivere, consapevole però della minaccia costante del male (una minaccia che, in forme meno devastanti, l'aveva accompagnato fin dall'infanzia e che si era già imposta con episodi gravi nel '99 e nel 2000).

La sua poesia da qui in poi tenterà un accesso verticale al compito di officiare la salvezza della memoria e insieme esibirne la troppo facile distruzione, lungo i confini di un'ossessiva indagine sul rapporto tra la percezione, il suo organizzarsi in senso, e i residui di significato, la resistenza dell'identità nei segni dell'espressione.

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Mario Benedetti, assediato dalla malattia, inizia un viaggio senza ritorno oltre i confini della parola e della memoria: là, in quello spazio per noi irraggiungibile, vediamo concludersi i sentieri di un'esperienza che non riusciamo a seguire fino in fondo, dove inizia un altro territorio, illuminato da bagliori di verità che speriamo non guadagnino il facile travestimento del mito.

Nelle sue pagine migliori e memorabili, Mario Benedetti fissa sulla pagina una voce originale e tenace, la cui incisività è innanzi tutto segnata dallo smarrimento: l'unità della memoria, dell'identità di cui abbiamo bisogno, è fragile, sempre percorsa da traumi, incomponibile altrimenti che nel conflitto e nell'amorosa concordia della parola e del tempo. Nessuno come Benedetti mostra come luoghi e tempi diversi possono stare insieme nella coscienza rimanendo slegati, in un'ambiguità emotiva non risolta, per la sola forza dell'esperienza che li ha attraversati in quel granulare composto di relazioni che è un “io”. Lo stesso andamento del verso e della sintassi compone uno spazio curvo, formato da prospettive diverse il cui comune punto di fuga è sempre l'istante inafferrabile, la miracolosa coincidenza del sentire e della realtà, che rievoca ciò che vede, che vede rievocando. È la magia di un giro di frase, che tiene insieme cose che insieme non sono mai state: non durerà, ma cogliere questo passare della vita vissuta è sentirsi investiti dalla sua fragilità e dalla sua forza.

Occorre accostarsi a questa poesia con tutta la libertà necessaria per non avere la fretta di comprendere per giudicare. La pagina che rapisce il lettore nel luogo impossibile, ma vero, di un tempo assoluto, dove l'infanzia e la storia condividono una stessa lingua, e la pagina che respinge, per la resistenza delle immagini, per il buio che sorge dai segni, sono frutto della medesima chiamata, di uno stesso intero esporsi nella molteplicità, nella dispersione, e però nell'unico senso delle parole che nella poesia attraversano la verità.


[Da Mario Benedetti, Tutte le poesie, Garzanti, 2017]

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