Nell'ultimo libro di poesia di Guido Mazzoni intitolato La pura superficie (Donzelli), uno degli aspetti più interessanti (e rilevanti, a mio avviso, anche a livello teorico) è il momento dedicato alla "traduzione" da Wallace Stevens. Ho virgolettato "traduzione" perché più che una traduzione quei momenti del nuovo libro rappresentano veri rifacimenti, riscritture o raschiature per arrivare ad altro. Eppure, di fondo, c'è il testo di partenza di Stevens. A partire da queste poesie Mazzoni ha compiuto tagli, adattamenti, integrazioni oppure si è soffermato su traduzioni ritenute chiaramente inesatte o incomplete, eppure per lui più convincenti di un lavoro di traduzione comunemente inteso. Allora non si può parlare di traduzione per questi testi proposti da Mazzoni; si tratta di altro materiale, dove la parola di Stevens entra, esce e rientra come un abbrivio lontano e sperso, che tuttavia permane. La proposta testuale e linguistica di Mazzoni su Stevens non potrebbe allora mai incontrare l'aspettativa media che si ha per una traduzione di una poesia scritta da un poeta di lingua straniera diversi anni fa. L'aspetto singolare e curioso è però che tutte queste considerazioni dialogano intimamente e possono benissimo uscire rafforzate dalla lettura di un libro puramente centrato sulla traduzione quale è Il problema del tradurre (1965-2005) di Emilio Mattioli, volume pubblicato recentemente da Mucchi Editore e radunante diversi scritti dello studioso di estetica, retorica a e traduttologia (pp. 200, euro 15, a cura di Antonio Lavieri). Il volume è chiuso da una postfazione di Franco Buffoni, con il quale Mattioli animò la rivista "Testo a fronte", ancora oggi luogo e strumento di prassi prominente della traduzione poetica, pratica dimenticata nella poeticissima penisola. Ed è proprio il punto di vista della prassi a interessare trasversalmente Mattioli in questi saggi densi e preziosi sparsi su quattro decenni. Perché se da un lato si può partire ad affermare con Croce che la traduzione non è possibile, la realtà della traduzione si dà invece quotidianamente da secoli ed è da questo dato di realtà che bisognerebbe continuamente ripartire per fondare una riflessione teorica che sia effettivamente utile alla prassi, com'è quella di Mattioli.
Il volume segna un passo importante perché per la prima volta è raccolta sotto un'unica rilegatura la principale produzione saggistica che Mattioli ha dedicato ai temi della traduzione (e della traduzione poetica in particolar modo). Le diverse posizioni sulla traduzione espresse da Croce, Gentile, Jakobson, Mounin, Dal Fabbro, Cicerone, San Girolamo, Anceschi e poi le riflessioni di autori come Novalis, Leopardi, Eliot, Pound, Celan o Ungaretti sono a più riprese chiamate in causa da Mattioli in questi contributi che, senza circonvoluzioni, affrontano di petto i temi chiave della traduzione, dal ricorrere dei luoghi comuni con cui ci si riferisce all'atto del tradurre (pensiamo solo al binomio fedeltà-infedeltà), all'effettiva incidenza di un pensiero traduttologico sulla stessa realtà della creazione poetica tout court. La sensazione è però sempre quella che parlando di traduzione si parli di uno dei problemi centrali della contemporaneità e non certo al solo piano letterario. Con il saggio del 1965 "Introduzione al problema del tradurre" Mattioli fu il primo a preparare adeguatamente il terreno alla riflessione sulla traduzione, che per Mattioli non rappresenta l'attività di volgere un testo da una lingua A a una lingua B, bensì l'attività chiave per avvicinarsi a qualsiasi problema di comprensione di senso di un'epoca. Il suo percorso attraverso i secoli mostra chiaramente come si sia intesa la traduzione nelle diverse epoche (dall'assimilazione degli antichi all'imitazione stilistica leopardiana, fino al gran bazar di modi di intendere la traduzione nel Novecento). Oggi non è facile raccogliere la portata dell'eredità e del gesto filosofico di Emilio Mattioli: in un'epoca storica drogata di teoria linguistica, dove spesso si arrivava a gingillarsi sui falsi problemi dell'impossibilità della traduzione, Mattioli partì da un'opzione filosofica centrata sull'osservazione che si è sempre tradotto e si continuerà a farlo finché ci saranno lingue diverse. Ha saputo spostare l'asse di domande probabilmente inutili e pretestuose come "si può tradurre?" a domande più cariche di conseguenze teorico-pratiche quali "come si traduce?" o "che senso ha il tradurre?".
Laddove Mattioli parla della traduzione come genere letterario, dopo aver posto l'attenzione sull'orizzonte della comprensione che precede quello delle scelte del traduttore, conclude che la traduzione è un genere letterario particolare "caratterizzato dal rapporto dialettico tra la poetica dell'autore tradotto e quella del traduttore". Si intravedono le parole-chiave che Mattioli ha disposto sulla tavola e che un'esperienza lunga come quella della rivista "Testo a fronte" ha via via perlustrato: poetica, intertestualità, ritmo, movimento del linguaggio nel tempo e avantesto. Sono tutti punti cardinali dove continuamente si riorienta la trattazione di Emilio Mattioli finalmente leggibile negli scritti di questo volume, dal fondamentale contributo del 1965 già ricordato all'altrettanto importante scritto del 2002 sui capisaldi della riflessione traduttologica rappresentati da Ricœur e Meschonnic, fino agli ultimissimi scritti del 2004 e 2005, di poco antecedenti la morte dello studioso avvenuta nel 2007 (sull'importanza capitale della riflessione di Henri Meschonnic un rinvio possibile è questo articolo disponibile qui).
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