"Memoria come un'infanzia. Il pensiero narrante di Luigi Ghirri". Un libro di Ennery Taramelli per Diabasis
Ennery Taramelli, già autrice di Mondi infitiniti di Luigi Ghirri, ha pubblicato nel 2017 un nuovo libro sull'opera del fotografo emiliano. Memoria come un'infanzia. Il pensiero narrante di Luigi Ghirri (Diabasis, pp. 278, euro 28, prefazione di Antonio Prete), con le sue 264 immagini a colore e in B/N emblematicamente prive di didascalie (le trovate in coda), è un volume ricco che si aggiunge alla già lunga serie dei titoli ghirriani, tuttavia con una peculiarità che diventa trasversale: la registrazione di uno sguardo che indugia sull'infanzia. Del resto quel titolo, nel fare l'eco a Sardegna come un'infanzia di Elio Vittorini, è assai eloquente: quasi ogni discorso sulla memoria diventa anche un discorso sull'infanzia e, per rimanere in terreni altrettanto vaghi ma attigui, ci si può spostare sull'adolescenza. Molto conosciuto allora è quel frammento in cui Ghirri ammette che per lui fotografare "è come osservare il mondo in uno stato adolescenziale, rinnova quotidianamente lo stupore; è una pratica che ribalta il motto dell'Ecclesiaste: niente di nuovo sotto il sole. La fotografia sembra ricordarci che non c'è niente di antico sotto il sole". Infanzia, poesia e memoria sono tre assi che sviluppano la tridimensionalità di questo libro sulla fotografia che, come noto, di tridimensionale non ha o non dovrebbe avere proprio nulla. La stessa poesia, nei casi più felici, riesce a tenere assieme infanzia e morte nel mutamento delle stagioni e dei linguaggi di un'unica vita, facendola dialogare con la totalità dell'esperienza umana. L'infanzia è un momento iniziale che resta centrale nella vita e nell'immaginario, compreso quello velato di fantastico e srotolato da Ghirri in anni di lavori, mostre, pubblicazioni.
Luigi Ghirri, Verso Lagosanto, 1987
Oggi Ghirri sarebbe su Instagram? Se no, perché ne starebbe fuori? Se sì, chi lo noterebbe? Il suo "nome" farebbe lo stesso strabiliante percorso che, assieme alla sua opera, ha compiuto anche dopo la sua morte prematura? Il libro non parla di questo, però ci parla di un mezzo - la fotografia - che è diventato prominente nell'iconosfera che il social menzionato sopra, preso qui a caso paradigmatico, continua ad alimentare minuto dopo minuto. Compie questo percorso rimanendo all'interno dell'opera del più noto dei fotografi italiani, la quale ha rappresentato una sorta di cesura nella storia della fotografia e del vedere, un puntare il dito verso qualcosa. È allora un compito arduo quello di questo libro. Oltre un effetto-Ghirri, artista amato e mitizzato, il libro sembra porsi un interrogativo più fluente (e non radicato!) nel magma dell'immagine fotografica, persino nella sua abbacinante e abbondante lotta tra caducità e durata. Soprattutto, a lettura e visione avvenute, ci si interroga su questioni come l'enigma e il mistero, che l'obbiettivo della macchina di Ghirri ha spesso accarezzato e affrontato persino con ferocia, in quel paesaggio che nelle sue serie fotografiche racchiude mille schermi, evitamenti, intoppi e mille elementi antropici e naturali senza diritti di precedenza tra l'uno e l'altro. E uno degli aspetti belli di questo libro è la restituzione di un'atmosfera di scambio e confronto fervidi: così si leggono i richiami alle amicizie con Della Casa, Guerzoni o Parmiggiani, eventi che oggi paiono preclusi per sempre nel dibattito in rete spesso improduttivo e rimodellato continuamente su nuove alleanze, nell'atomizzazione solipsistica, vociante e persino scoreggiona del web "qualcosa punto zero". In Luigi Ghirri la sapienza primariamente compositiva dell'immagine sembra che si collochi nell'aver saputo interrogare la luce e le cose con un punto di domanda nuovo, curvato su stupore e meraviglia, sulla coerenza inafferrabile del sogno e la incoerente realtà dove sbattiamo il naso, magari con la testa che guarda all'insù o all'ingiù. Attorno a questo interrogativo fotografico nuovo si è mossa la critica, la parola e un discorso che, di volta in volta e oggi ancora, continua a porsi in dialogo duraturo con la sua opera. Il suo lascito si è allora consolidato come unicum un attimo prima di avvenimenti epocali che hanno condotto proprio allo tsunami dell'iconosfera, che ne ha devastato quel portato di mistero e enigma di cui si accennava sopra. Ed è forse per questo che il lavoro di Ghirri continua a parlare a tanti, perché diventa come un'operazione di rimaglio del vedere, fino ad arrivare all'anatomia e alla retina.
Week End, 1973
Ora però è bene compiere un passo indietro che riguardi la tecnicità, la preparazione, sicuramente l'inquadratura e anche la ripetitività estrosa del fotografo emiliano. Un passo che arretri persino all'ingenuità di cui spesso si è parlato nel caso di Ghirri. Ora che grazie alla rete sono sorte popolazioni scafatissime e sapienti, si sente nostalgia di quell'ingenuità, che non è ingenuità finto tonta o ironica che oggi troviamo a vagonate un po' ovunque. È qualcosa di vicino alla libertà del pensiero narrante e ondivago incarnato da Ghirri, la libertà di interrogare con la pellicola prima che un'altra pellicola, soffocante plasticale e appiccicosa, si stendesse sopra il mondo che continuiamo a cercare sotto la nostra stessa immondizia materiale e spirituale, quasi seccato nel pozzo dei sogni. In questa abitudine al vedere, la preparazione teorico-tecnica di Ghirri ha saputo incunearsi e incastrare uno dei lavori fotografici più duraturi, tuttora in grado di interrogarci, sorprenderci, inquietarci e scuoterci. In questo libro comprendiamo infine come l'aspetto autobiografico della ricerca ghirriana, così incentrato sull'infanzia, diventi nelle sue fotografie, tutte così simili a dei piccoli morsi sulla retina e sul cuore, una sonda capace di tastare quella dimensione che ci riguarda tutti, che ci contiene senza toccarci, la sola dimensione che abbiamo: lo spazio.
E pochi giorni fa ricorreva l'anniversario della morte di Ghirri.
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