Pare proprio che abbia voluto togliersi qualche sassolino dalla scarpa Cesare Viviani, improntando questo scritto costituito per frammenti di pensieri e accumuli e dedicato allo stato in cui versa la poesia contemporanea, a chi la fa, ai versificatori distinti dai poeti, alla critica militante che non sa più scegliere e distinguere, ai giovani o meno giovani poeti che pensano di conoscere l'opera di un autore avendo letto qualche testo in Internet o su antologie, alle parrocchie dell'autocelebrazione e dello spalleggiamento compulsivo, alle disgrazie biografiche dei poeti elevate a pubblicità della peggior specie ecc. Le riflessioni che ne conseguono ora trovano forma in un libretto brevissimo proposto da Il Melangolo e intitolato La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che... (pp. 76, euro 7). Il titolo è un filo cerchiobottista. Che dire a lettura ultimata? Ci sono dei punti che si possono condividere facilmente, tanto sono evidenti, persino ovvi. C'è da dire che fanno sorridere simpaticamente gli incisi, come quando Viviani dice che vorrebbe essere "tollerante, equilibrato, saggio" come Valerio Magrelli, e invece resta un toscano piuttosto caldo di temperamento che si prende grandi arrabbiature, oppure quando ricorda una dedica tanto memorabile quando essenziale di Rondoni, nel 2016: "a Viviani Rondoni".
C'è un livello distinto di riflessioni di questa lamentatio, che intende rappresentare anche la parte costruttiva di un discorso che si avvita spesso attorno a parole come "limite" o "vuoto" (quello che le parole della poesia fanno attorno a sé). Verso la fine Viviani estende un vero e proprio invito ad appartarsi, a isolarsi, e torneremo su questo punto proprio in chiusura. Lungo lo scorrere del testo si chiede che senso abbiano certe tirature dei libri di poesia quando con 40-50 copie si può accontentare il cerchio di amici che sono disposti a leggere e abitare con l'opera poetica, senza doverla leggere per dovere d'ufficio o per un istinto che definirei glamour (Viviani non usa questa parola che impiego per provare a sintetizzare). Ora credo sia facile rintracciare tra le righe uno sconforto per lo stato in cui la poesia - intesa come sistema, quindi come insieme di più parti che portano un qualche interesse - è giunta ai giorni nostri. Nel finale Viviani si rivolge direttamente ai più giovani, quasi il suo fosse un appello. Ha chiaramente ragione da vendere quando rivendica la lontananza della poesia dai centri di potere (anche se non è sempre stato così, la poesia è stata anche al servizio del potere, compresa certa poesia che leggiamo dopo millenni come un classico), oppure quando parla di critici che diventano polemisti nel gran mercato delle opinioni. Insomma, il tessuto è chiaramente disgregato e Viviani parla di qualcosa che è sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, passando in rassegna determinati punti, mi è parsa ad esempio estrema la posizione sulle scuole di scrittura: non mi pare che nessuna scuola di scrittura millanti la capacità di trasformare un allievo in brillante poeta.
Ci sono aspetti che convincono e altri che convincono meno in questo piccolo pamphlet costruito per gemmazioni di pensieri e aggregazioni, incisi, flash, scariche e aggiustamenti di tiro. Che quello della poesia - e con essa buona parte del mondo - sia un teatrino neanche dei più simpatici lo abbiamo capito. Penso lo abbiano capito anche i giovani o meno giovani che Viviani cita a più riprese e che per un tozzo di pane e di visibilità sono disposti a tutto o quasi. Di fondo però, in tutto questo scritto, prevale un sapore di amarezza personale che fa perdere di vista lo scopo. Già, lo scopo: quale era lo scopo di questo breve scritto? Credo si sia un po' perso di vista, nel testo. Proviamo però a isolare il più utile: ricordarsi della centralità di leggere molto, di non pensare di fermarsi a due o tre poesie lette in rete o in antologie. Tuttavia, anche qui, c'è da dire che le persone con un briciolo di coscienza sanno distinguere le situazioni in cui possono dire di aver letto abbastanza da quelle in cui denunciano delle normali lacune.
A voler provare a dire la parola definitiva sulla forma storica della poesia si rischia sempre di incappare in qualche trabocchetto e inganno, tanto più se il pensiero è striato di un parziale risentimento per come sono andate le cose. Lo sappiamo bene o male che la poesia non sta tutta nei siparietti festivalieri o nel narcisismo devastante dei succitati poeti che darebbero tutto per un tozzo di pane di visibilità. Resta quindi il dubbio che il nucleo del problema resti altrove e che questo libretto non abbia saputo indicarci questo altrove. Oppure semplicemente un problema non c'è, e come suggerisce Viviani faremmo bene a leggere, leggere, leggere e basta. Il punto non è credere che la poesia stia traversando un momento di rigoglio e pensare che Viviani sia arrivato per dirci che non è così e rimetterci coi piedi per terra. Il punto semmai è sapere che tutte le storture che Viviani ci ricorda - che esistono e non sono il massimo della vita - non sono che un evento transitorio e alla fine ognuno fa e farà i conti con sé. Ma ecco, proprio sul punto dell'isolamento ci sarebbe qualcosa da osservare in chiusura: non sempre l'isolamento o l'essere appartati è garanzia di buona poesia, di autenticità o altro. Non è garanzia di un bel niente. Anche questa quindi potrebbe rivelarsi un'illusione. Mai come di questi tempi un confronto, anche fuori dalle corride dei social, appare così necessario per tirarci fuori da mucchi di parole che il più delle volte stagnano come paludi autistiche.
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