domenica 15 luglio 2018

"Primo Levi e Anna Frank. Tra testimonianza e letteratura" di Maria Anna Mariani

Accostare in un titolo i nomi di Primo Levi e Anna Frank significa concentrare un'attenzione incandescente su figure che, per ragioni diverse, sono diventate simboli della Shoah e raccoglierne, nella scrittura saggistica, le convergenze o gli aspetti che avvicinano le loro singolarità. Al contempo vuole dire apportare delle precise e nuove distinzioni attorno a due situazioni prominenti della letteratura mondiale, mettendo in conto una perlustrazione dei punti di contatto finora rimasti in ombra e anche delle derive e riusi della loro opera, valutare la presenza di Levi in opere di altri scrittori (o nei fumetti) e, nel caso di Anna Frank, riconsiderare i suoi racconti poco noti e spesso svalutati (il make-believe, o "fare-finta-di" del breve epilogo del libro). Del resto, lo ricordava Susan Sontag, siamo già da un po' nell'epoca della frammentazione e del riuso continuo delle opere, tanto più di quelle maggiori di un secolo, di quelle a maggior rischio di destoricizzazione. Naviga e beccheggia tra queste boe di delimitazione il recente saggio di Maria Anna Mariani intitolato Primo Levi e Anna Frank. Tra testimonianza e letteratura (Carocci, pp. 154, euro 17), che si apre all'insegna della considerazione del peso troppo grande e logorante della "testimonianza per delega" della quale lo scrittore torinese, divenuto "testimone collettivo", rappresenta appunto un caso preponderante e mondiale. La testimonianza per delega, per cortocircuito, fa pensare già dalle prime pagine all'altrettanto problematico avvenimento del "trauma per procura" e al paradigma vittimistico contemporaneo emerso così bene in Critica della vittima di Daniele Giglioli (citato anche dall'autrice circa a metà della sua trattazione). Questa testimonianza diventa una condizione altamente sfinente e sfibrante, nella quale il corpo del testimone si fa cavo per far spazio a una pluralità di voci precipitanti e appartenenti ai sommersi. A far da trattino di congiunzione tra i due nomi del titolo vi è anche quello che l'autrice definisce "il peccato della finzione" e sul quale si sofferma in un capitolo dedicato.

Lo studio si apre prendendo in considerazione come sintomo e situazione istruttiva la prima contestata traduzione americana di Se questo è un uomo. Sappiamo che il titolo fece riferimento alla sopravvivenza, rifiutandosi di aderire all'originale italiano, ma ricorrendo a un più altisonante Survival in Auschwitz (solo più tardi si è ricorsi a If This Is a Man e tuttora si trovano copertine in cui i due titoli coabitano). Ciò che disturba e viene alla fine contestato non è tanto la non-aderenza del titolo tradotto, bensì la preposizione "in". Per Maria Anna Mariani "Survival after Auschwitz" avrebbe reso il senso di quello che lei definisce "la tirannia della testimonianza impersonale" che Levi ha sperimentato nel suo libro più noto e di successo (si ricordi per inciso che Se questo è un uomo ha rappresentato un successo commerciale esorbitante per la casa editrice Einaudi). Chiaramente questa "tirannia" e il logoramento del testimone collettivo per delega trovano più volte, in queste pagine, un punto di confronto con il suicidio di Primo Levi dell'11 aprile 1987. Il saggio di Mariani procede quindi con un secondo capitolo dedicato alle opere in cui Levi torna a sperimentare la possibilità della singolarità di testimone, in percorsi editoriali autobiografici vissuti spesso obliquamente. Ed è così che trovano spazio in queste pagine le considerazioni su Il sistema periodico, su quel caso unico di antologia di scritture fondative che Levi compilò sotto il titolo de La ricerca delle radici (titolo facente parte di un più largo e non fortunato progetto di Einaudi dedicato alle antologie personali degli autori) e infine la tardiva registrazione della conversazione con Giovanni Tesio, raccolta col titolo Io che vi parlo. In quest'ultimo caso basti ricordare che la conversazione, risalente ai primi mesi del 1987 e programmata in vista di un'attesa biografia autorizzata, di poco anticipa il suicidio dello scrittore. Il grumo di domande allora precipita e si schianta al bivio di simili dilemmi: cosa deve fare un sopravvissuto di una sciagura epocale e collettiva di quel tempo che gli resta da vivere? Deve dedicare il resto della vita alla testimonianza accettando il logorio sfibrante della testimonianza per delega oppure, anche a costo di una rinuncia alla vita, deve riprendere in mano quella singolarità irriducibile, tanto meno a una delega ad accogliere nel proprio corpo voci, pensieri e storie dei sommersi?


La coppia data dal terzo capitolo intitolato "Primo Levi e il peccato della finzione" e dal successivo "Anna Frank e la sua vita postuma" entra nel vivo della trattazione sfociata nell'idea dell'autrice di dedicare un saggio (e inequivocabilmente un titolo) a queste due figure, unendole in un binomio tanto comprensibile quanto raramente portato in primo piano in precedenza dalla critica. Vi sono differenze fondamentali tra i due, certo, e questo è noto. Tra l'altro il diario di Anna coagula i sentimenti di un prima della deportazione e vive e si definisce anche per quel che è successo dopo a Bergen-Belsen (così come il dopo del suicidio di Levi tende sempre a diventare termine ad quem). Ed è in queste pagine del saggio che entriamo nel rapporto travagliatissimo di Levi con la finzione, opzione indispensabile quanto proibita e sofferta di escapismo. Qui la scelta di avvicinare le figure di Levi e Frank diventa rischiarante in ambo le direzioni. Compaiono allora gli pseudonimi adottati da Levi quasi a contrappeso del peccato di finzione e l'altro peccato "di su" Anna Frank, coincidente con un processo di mutazione e destoricizzazione che sostanzialmente ebbe inizio già dall'editing compiuto da Anna e dal padre Otto Frank e che è poi dilagato nel mondo del teatro e del cinema, o in quello delle copertine (quella sorta di Barbie che vedete a lato è la sorprendente copertina di un'edizione coreana del diario di Anna Frank, con la quale si apre il capitolo quarto). Tutto il capitolo dedicato a Anna Frank è un susseguirsi di giusti interrogativi sugli statuti di autore, coautore (il padre è stato riconosciuto coautore e in questo modo i diritti del diario non sono ancora scaduti, essendo lui morto nel 1980) e editor. Rifacendosi allora a Appadurai e alle sue hard cultural forms, cioè a espressioni culturali che "oppongono resistenza alla dislocazione e trasformazione, e che quando vengono effettivamente esportate e alterate provocano turbamento" Mariani conclude così, prendendo una posizione ragguardevole:
Eppure, che ci piaccia o no, Anna e suo padre sono stati i primi a preparare una ricezione globale del diario. Sono stati loro i primi editor a neutralizzare il significato specifico della Shoah, trasformandola in un guscio vuoto: una storia generica di generiche vittime, generici oppositori, generiche ragazzine.
È questa opposizione lacerante tra singolarità-genericità che percorre intelligentemente questo saggio e lo fa vibrare e da questa è possibile ripartire per future considerazioni su testimonianze e letteratura della Shoah, un terreno che si è via via sovraccaricato di dati e materiali e che necessita pertanto una nuova posizione teorica disposta a offrire coordinate plausibili per leggerli e ricollocarli. Il libro prosegue affrontando Primo Levi lettore di Anna Frank, lasciando fluttuare le riflessioni sul viso di Anna (questione tornata alla ribalta anche negli stadi di calcio italiani di recente), quella "fanciulla d'Olanda" (Levi) e "essere di mezzo" (Ortese) che secondo lo scrittore torinese "ci commuove più che gli innumerevoli altri che hanno sofferto proprio come lei, ma le cui facce sono rimaste nell'ombra". Come già anticipato, un capitolo è dedicato alle presenze di Levi nelle opere più vicine a noi e un breve epilogo ci parla dei racconti di Anna Frank, che per Mariani sono stati oggetti di giudizi duri e monolitici e che invece rappresentano un "conficcare gli occhi in ciò che verrà".

Il motivo di novità e interesse di questo volume è dato già nel titolo, dal momento che raramente Primo Levi e Anna Frank erano stati così vicini in un percorso di critica. Tuttavia, come si è visto, è nel vivo della trattazione che sono disseminate le tesi più interessanti e coraggiose, necessariamente più gravide di conseguenze nel percorso che ci porta ogni volta alla Shoah e ai drammatici rischi di personalizzazione di questa. Si tratta di un processo inarrestabile? Oppure la consapevolezza della personificazione e genericizzazione della Shoah che dimostra questo studio è un primo tentativo di inversione di tendenza? Se sì, verso quali nuove acquisizioni della critica letteraria sul valore testimoniale della letteratura? Questo intelligente allineamento nel piano del discorso di testimonianza per delega, senso di colpa e peccato della finzione, riconsiderazione del paradigma vittimistico imperante, destoricizzazione e personalizzazione può dirci molto di come si è quello che si è diventati.

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