martedì 29 maggio 2012

Il cibo, il progresso e il sapere nostalgico. "Pane e pace" di Antonio Pascale

A volte, quando leggo libri come questo, mi prende la voglia di prestare o regalare pagine simili a tante persone. A chi ad esempio è preso da un'acritica "sicumera biologica" e civilizzatrice, tanto per iniziare. Tante persone che incontro e che hanno (per me) idee paurosamente troppo chiare su ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, ciò che è sano e quello che non lo è. Questo mi è capitato anche con Pane e pace di Antonio Pascale (Chiarelettere, pp. 100, euro 7,50). Il mio atteggiamento e desiderio di regalare libri simili a persone non avvicinate dal dubbio è profondamente sbagliato, ne sono consapevole, ma questo serviva per dire sin da subito con quale favore saluto ogni volta pubblicazioni simili. C'è un grumo denso di interrogativi che Pascale (autore di bei libri di narrativa, di un altro saggio meritevole d'attenzione, Scienza e sentimento, e che nella vita è agronomo) fa vorticare sopra le nostre teste: perché quasi nessuno si farebbe curare con tecniche odontoiatriche di 50 anni fa mentre tutti sono attratti da quella promessa di purezza che l'agricoltura di mezzo secolo fa sembra incarnare? Perché non si riprendono in mano parole paurose come "pesticida" e si prova a capire davvero da dove derivano? Le parole sono importanti. E se capissimo di più certe parole farebbero meno paura. Perché non si ammette, con Paracelso, che anche con gli agrofarmaci il problema sta sempre e solo nella dose? È la dose che fa il veleno. Perché, per par condicio, non si parla anche dei veleni del "biologico"? Non mi risulta che il rame consentito dalle disciplinari del biologico e sparso in grandi quantità sia un toccasana per le falde, e Pascale pare confermarlo. Da dove deriva questo strano atteggiamento anti-innovazione che riguarda un settore fondamentale come l'agricoltura (in un'epoca poi che ci vede, altrove, attratti da tante altre innovazioni, forse meno innovative di qualsiasi innovazione che tocchi la terra e la coltivazione di questa, dato che, come affermava il Nobel per la Pace Norman Borlaug, "chi produce pane produce pace")? Da dove deriva tutto questo "incanto per il tipico" che forse è più nocivo di quanto si pensi? La discesa agli inferi di tipicità-autarchia-Fascismo è dietro l'angolo...


Lo stratagemma narrativo di Pascale è efficace. Parte dalla generazione dei figli e risale fino a quella di suo nonno. Ad un certo punto fa pure resuscitare il nonno, immaginandolo mentre impreca verso un mondo paralizzato che non ha innovato e che guarda al passato come a un momento d'oro, ipostatizzandolo in un'aurea inservibile di genuinità. E non risparmia la giusta dose di critiche a tutti i vari esponenti politici che in materia agricola hanno dato segnali preoccupanti (destra, sinistra, lega) e emanato provvedimenti ancora più nefasti. Questo tenere assieme le generazioni con il filo dell'agricoltura è solo apparentemente un pretesto. Riguarda il problema fondamentale del nostro stare al mondo, il nutrimento che ne ricaviamo. Sono importanti le pagine dedicate alle mondine nelle risaie, bellissimi i paragrafi dedicati ai miglioramenti introdotti da Nazareno Strampelli (ironia della sorte, proprio durante il Fascismo!) o al professor Francesco Sala e ai problemi del melo della Valle d'Aosta superati con un'operazione intelligente a budget pressoché nullo. Insomma, in poche pagine non mancano spunti per riflettere approfonditamente su una delle tematiche più controverse del nostro presente, epoca che ci vede spaventati per il solletico di una sigla come OGM senza pensare che "tutto è geneticamente modificato", dove viviamo nello spauracchio della quasi monopolistica Monsanto senza pensare che le organizzazioni che alimentano questo spauracchio sono spesso le principali alleate di questo regime monopolistico che vede regnare e proliferare una sola multinazionale. Tutto è magnificamente riassunto nella frase che chiude il libro: "Senza volerlo, i migliori alleati delle cattive multinazionali oggi sono i bravi ambientalisti", perché è il circolo della paura innestato nel "bravo consumatore" che tende a favorire barriere all'entrata per altre aziende biotech, richiedendo spesso, più del necessario, ripetuti, inutili e soprattutto costosissimi controlli che non vanno al nocciolo del problema, che rimane tutto nel regime di monopolio che sta alla base della tecnica di miglioramento dei semi.


Insomma, il mondo e l'agricoltura con esso sono ben più complessi di una chiacchierata da bar fatta a suon di "no OGM" e "mangia sano torna alla natura" o, andando a prestito delle espressioni intercettate da  Pascale, "piccolo è bello", "tradizioni e costumi locali". Personalmente trovo questi ultimi due citati gli aspetti più nauseanti del nostro paese e non credo servano più di tanto nemmeno a vendere il brand Italia in termini di turismo, se vogliamo porre la questione in simili termini (che servano forse le infrastrutture vere e mentali per vendere il brand Italia?). Propedeutica a qualsiasi futura discussione sarà allora una seria e attiva informazione scientifica, assieme a un calo progressivo della dose di emotività legata al tema cibo. Dobbiamo provare a conoscere meglio questa materia. "Solo conoscendo la materia potremmo trovare la buona e giusta soluzione. È necessario essere possibilisti. Né ottimisti né pessimisti, ma possibilisti. Al bando le emozioni e viva i ragionamenti laici, analitici, caso per caso. Dobbiamo farlo, il mondo merita di essere un posto migliore". 

sabato 26 maggio 2012

I nuovi 15 titoli, da Giovanni Agosti a Angela Vettese

Librobreve in libreria #10


Ho tardato un po', ma sono pronto con una nuova lista di 15 libri brevi che meritano attenzione. Alcuni probabilmente già l'attirano o l'hanno attirata. Altri - ne sono abbastanza certo - temo siano passati un po' inosservati.





Passiamo dal saggio accorato di Giovanni Agosti sulla decadenza milanese all'introduzione all'arte contemporenea di Angela Vettese per la collana "Farsi un'idea". In mezzo alcune novità o riproposizioni, come è giusto che sia, siano quelle dell'editore Nobel, il cui noble intent è riproporre testi di autori anche celebri ma inspiegabilmente trascurati dalle grandi sigle editoriali, sino al Cumont di Adelphi. Per chi fosse rimasto spaventato dalla mole de Breve storia del verbo essere di Andrea Moro consiglio l'agile Parlo dunque sono, un buon inizio per avvicinare il lavoro per molti aspetti entusiasmante di questo linguista dello IUSS di Pavia. Cerco possibilmente di non far mancare libri di lettere. Li sto scoprendo soltanto ultimamente: si possono leggere a salti, prendere in mano ripetutamente e spesso nascondono chiavi di lettura importanti delle opere più note. Questo il caso del brevissimo Lettere a André Gide di Proust proposto da SE. Ha già qualche mese - ma non è un gran problema! - il libro di Claudio Giunta uscito da Donzelli, anche questo gravitante attorno all'arte e alla vicenda del presunto crocifisso di Michelangelo che data 2008, un pretesto che diventa crocevia di una brillante analisi della "malattia italiana", non soltanto per quel che riguarda la gestione della cultura e dei beni culturali. E poi altro, come la prima prova narrativa di Sebastiano Gatto, della quale spero di scrivere più diffusamente tra qualche tempo.


Buone letture.


1. Giovanni Agosti, Le rovine di Milano, Feltrinelli
2. Alberto Boatto, Di tutti i colori, Laterza
3. Michail Bulgakov, Appunti sui polsini, Nobel
4. Anton Čechov, La lettura - Kaštanka, Adelphi
5. Claudio Giunta, Come si diventa "Michelangelo", Donzelli
6. Odissea Elitis, Il metodo del dunque, Donzelli
7. Franz Cumont, Lo zodiaco, Adelphi
8. Iain Chambers, Mediterraneo Blues, Bollati Boringhieri
9. José Ortega y Gasset, La ragione nel mare della vita, Armando
10. Andrea Pomella, 10 modi per imparare a essere poveri ma felici, Laurana
11. Andrea Moro, Parlo dunque sono, Adelphi
12. Andreï Makine, Il libro dei brevi amori eterni, Einaudi
13. Marcel Proust, Lettere a André Gide, SE
14. Sebastiano Gatto, Le sette biciclette di Cèsar, Amos
15. Angela Vettese, L'arte contemporanea, Il Mulino

lunedì 21 maggio 2012

"Mediterraneo blues" di Iain Chambers. Musiche, malinconia postcoloniale e pensieri marittimi

Che cos'è un paesaggio? E che cos'è il paesaggio? Si discute molto attorno al nucleo di questo concetto che non ha ancora trovato (e probabilmente mai troverà) una teorizzazione largamente convincente e stabile. Ma non è la stabilità che cerchiamo in queste cose, anzi, un'eccessiva stabilità teorica potrebbe far male al tema del paesaggio (e quindi anche al paesaggio stesso?). Cerchiamo piuttosto un processo eticamente condiviso che ci porti a ripensare incessantemente la parola "paesaggio" chiamando a raccolta tutti i saperi oggi spendibili. Nel caso italiano sarebbe bello poter risalire alle motivazioni dell'impiego di questa parola nel tanto discusso articolo 9 della Costituzione, capirne le ragioni e gli obbiettivi, sapendo anche che il testo fu rivisto dal punto di vista stilistico da personaggi della statura di Concetto Marchesi. Data questa breve premessa, che cosa possiamo pensare di fronte al concetto di "paesaggio acustico"? Le cose si complicano ulteriormente. In passato si sono registrati dei tentativi di avvicinamento al paesaggio acustico. Penso ad esempio a quanto si è provato a fare lungo il corso del Tagliamento, dalla sorgente alla foce. Ma non possiamo credere di essere giunti a chissà quali risultati.

Iain Chambers, professore di Studi culturali e postcoloniali all'Università "L'Orientale" di Napoli è autore di un libro che dialoga apertamente con queste problematiche. Il recente volume, che si allarga ad un'area più estesa di quella costituita da un'asta fluviale, si intitola Mediterraneo blues. Musiche, malinconia postcoloniale e pensieri marittimi e viene proposto da Bollati Boringhieri in traduzione all'interno della collana Incipit (pp. 103, euro 10).

Dalle prime pagine possiamo leggere un passo che ci catapulta efficacemente nelle dinamiche di pensiero dell'autore:

La musica ci invita a viaggiare adottando una visione nel complesso meno rigida delle varie discipline, delle prassi e delle istituzioni che assieme configurano la modernità di oggi. Essa offre un caso rilevante di deterritorializzazione. Tuttavia, il fatto che i suoni apparentemente circolino liberi, spesso inconsapevoli delle rivendicazioni di comunità locali, linguistiche, nazionali, non significa che essi non siano altrettanto saturi di tempo storico e di intensità culturali. Contro il positivismo a malapena nascosto del "progresso", della sua storia, dei suoi saperi e delle sue pratiche fiduciose, la musica dissemina una partitura storica nel complesso più sottile, le cui note devono ancora essere suonate, eseguite, ripetute. Il passato non è ancora concluso, pronto ad essere consegnato al canone, al museo, o al libro di testo. Il passato, nel suo rifiuto perturbante di morire, introduce una nota blue - ambivalente, dissonante, risonante di un altrove inusitato - nell'orchestrazione disciplinata della modernità  musicale.

Allora, assieme ad un bibliografia densa e interessante che cuce assieme, tra gli altri, Edward Said e Walter Benjamin, John Berger e Georges Didi-Huberman, il duo Deleuze-Guattari e Vladimir Jankélévitch, Hannah Arendt e Michel Serres, non poteva mancare una discografia per me stupefacente, dove ho ritrovato i grandissimi Napoli Centrale, Anouar Brameh, Almamegretta, 99 Posse, i vocalizzi indimenticabili di Demetrio Stratos e persino un gruppo israeliano ascoltato in gioventù, gli Orphaned Land. 

Il Mar Mediterraneo, mare di tre continenti, costituisce un paesaggio acustico che ci porta a riconsiderare il suo spazio e il suo presente come un universo di possibilità, un presente incessantemente attraversato da passato e da futuro (la "forza diagonale" del presente secondo la Arendt), dove si impone da solo un ragionamento rinnovato, meticciato sull'identità, intesa anche, nel caso di questo bel libro, come interrogazione, ascolto spaesato di una liquidità di suoni capace di scardinare "la presunta unità del presente". Il nucleo più interessante del libro di Chambers sta a mio avviso proprio sull'accento posto sullo stato "con-temporaneo del suono" (un atteggiamento che prende le mosse dalla critica benjaminiana dello storicismo), un suono che "taglia il tempo", che dal corpo del suono diventa "corpo nel suono", nelle storie umane unite (e non divise) dall'acqua. Abbiamo davanti un ragionamento dove la musica, coi suoi tempi e ritmi, ci parla alla fine di spazio e che sa mettere in crisi certi concetti di identità oggi radicati nel suono. In altre parole, sembra quasi che una riflessione radicale sul suono e su un paesaggio acustico diventi propedeutica a qualsiasi successiva riflessione. Mi pare una bella sfida, un bell'inizio: food for thought ma più che mai sound for thought.

sabato 19 maggio 2012

da "Dal fondo delle campagne", di Mario Luzi


Una poesia da #6

Confesso di aver ampiamente trascurato Luzi nelle mie letture, dai venti ai trent'anni. Lo dico perché è stato un errore, naturalmente. Ma c'è tempo per rimediare, anche a piccole dosi con libri brevi come questo Dal fondo delle campagne (Einaudi, 1965, pp. 64, euro 8,20) che raccoglie versi della seconda metà degli anni Cinquanta. Da questo libretto prendo un poesia con un titolo-tema molto bello: la corriera. L'immagine delle teste e cervici sballottate racchiude in sé il punto di volta dell'arco di questa poesia bella come il mezzo di movimento e i corpi che racconta.
















LA CORRIERA

La corriera procede a strappi, muglia.
Chi nativo di qui ravvisa il giogo
cima per cima segue in lontanza
tutta l'azzurra cavalcata: il vento
profila i primi monti
bruciati dall'altezza,
fa livido il colore
più cenere che fiamma
che ha il querceto d'inverno
su queste terre d'altipiano,
sferza, ostacola i muli sulla tesa,
stride sui cumuli di brace. Gli altri,
chi recita il breviario a voce bassa,
chi sonnecchia, chi parla dei suoi traffici
di buoi, di lana, di granaglie e volge,
se volge, un occhio disattento al vetro.

Sediamo qui, persone nel viaggio,
smaniosi alcuni dell'arrivo, alcuni
volti tutti all'indietro, chi sospeso.
Il pecoraio mette in fila il branco,
lo stringe alle pareti del rialto,
libera il passo, la corriera avanza
e sballotta le teste e le cervici.

Chiudo e apro gli occhi sopra questo lembo
di patria, stretto contro lo schienale
ascolto questa gente, questo vento,
vivo per mediazione dei miei simili
più di quanto lo sia in carne ed ossa.

mercoledì 16 maggio 2012

"Di quarzo e terra" di Alessandro Riccioni

Ripescaggi #13

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Torno a ripescare qualcosa dal vecchio disco fisso. Questa recensione a Di quarzo e terra (Book Editore, 2002) ha dieci anni. La poesia non invecchia, forse le recensioni sì. Se ricordo bene fu data alla rivista Atelier. Negli anni successivi, se cercate, scoprirete tanti altri libri di questo poeta di Lizzano in Belvedere.
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La seconda opera di Alessandro Riccioni (a distanza di quattro anni dall’esordio Sottopelle, segnalato al Premio Montale) si evidenzia per lo sguardo ficcante, per una voce leggera che si ascolta però non senza qualche lieve trepidazione. Quello di Riccioni è un libro minato con tante microstorie che esplodono per qualche attimo, e che rimangono, una dopo l’altra, sapientemente accordate sotto un’impronta unitaria: «Cosa mi resta / della segnata cartolina / che scritta con il verbo del presente / ricorda un viaggio già finito. / Le firme sono tante / eppure una non la riconosco / lo scarabocchio nero / della compagna senza nome / ritorna e poi rifugge / nell’infinito ricordare / senza più nome / senza più luogo / senza più storie da narrare.»

Il testo sopra riportato già introduce un’assenza che si potrebbe definire ‘tipografica’: il minimo utilizzo (ridotto davvero all’osso) della punteggiatura non si risolve in esasperate pesantezze nell’atto della lettura ma riporta i singoli versi ad essere la principale (bastante) unità ritmico-respiratoria:  «Oggi non ho che linee orizzontali / fondali di pianura / e spazi adatti a segni primitivi / lunghi, tirati, spessi / come da dita enormi e forti. / Oggi rimpiango rotte verticali / crinali nell’altura / e valli strette in occhi fuggitivi / caldi, dorati, mossi / come viventi eppure morti.» In questa poesia, come nella precedente, Riccioni crea dei parallelismi sottili tra diversi periodi del testo e adopera un’inconsueta struttura del tipo ABCDEABCDE (con variazione tra “spessi” e “mossi”).

Non colpisce ad una prima lettura, ma solo con una considerazione più prolungata dei testi, la linearità accentata da continue microvariazioni (la variatio nella concinnitas, detta nei classici termini dei retori latini): «Non certo dalla pioggia /  potremo ricavare il nome / di questa troppa siccità / che brucia l’erba del discorso. // Ma è certo che la pioggia / cade abbondante / a ripulire i suoni / e alcuni li fa sordi / dentro la pietra dura / schiavi di un malinteso / di luce giunta troppo tardi.»

Spesso l’enumerazione o l’iterazione diventano lo scheletro sul quale adagiare alcune vibranti riflessioni, senza sosta, come nella penultima poesia del libro:  «Ripetiamoci i nomi / i nostri nomi, i nomi / delle cose che abbiamo / e che lasciamo / i nomi degli attrezzi e degli oggetti. / Ripetiamoci i nomi / i nostri nomi, i nomi / delle piante che avevamo vicine / delle vie che incrociavano la nostra via / delle colline uscite dalla nebbia / dal fumo e dalla neve, i nomi / degli animali in casa / degli animali dentro il bosco. / Ripetiamoci tutto / oggi che i nomi paiono cancellati / in un tiepido e crudele aprile / pieno di “non conosco”.» Alcuni avranno notato l’eco, ben giocata, dell’incipit eliotiano di The Waste Land.

Il titolo dell’opera potrebbe non rendere pienamente conto dei contenuti presentati nelle due sezioni (denominate per l’appunto “quarzo” e “terra”, con una terza parte “In margine alla guerra”) e pare, più che altro, radunare due punti di fuga attraverso i quali filtrare e simbolizzare le aspettative del poeta sulla propria materia. Ciò che, quasi inavvertitamente, si rivela come un piccolo e importante chiarimento per il lettore è l’epigrafe personale posta all’inizio del libro: «Non ho mai scritto la parola bar / nemmeno auto o ciminiera / non uso nomi propri / come un carteggio familiare / non riesco mai ad infilare / una parola dall’inglese / il nome di una via. / Credo che non sia questo / a farmi rimanere / solo, senza parole / a metà strada / tra un qualsiasi discorso / e quel che chiamiamo poesia.» Dichiarazione di poetica? No, semplice onestà. Sembra, quest’epigrafe di Riccioni, un utile esercizio che si potrebbe raccomandare a molti altri poeti. Quante belle cose scopriremmo!

sabato 12 maggio 2012

da "Polso teso", di Nelo Risi


Una poesia da #5
Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #8

I grandi poeti finiscono spesso per diventare difficilmente reperibili o addirittura escono dai cataloghi. Per fortuna esistono ancora le biblioteche (anche se il loro statuto credo debba per forza essere messo in discussione nei prossimi anni), ed esistono ancora gli studi bibliografici o antiquari che dir si voglia (converrete però che fa uno strano effetto dire di aver comprato da un antiquario di libri un volume del 1973). Provate a cercare le poesie di Clemente Rebora? Fatichereste non poco. Avete visto negli ultimi anni un grande poeta come Nelo Risi nello Specchio di Mondadori. Fatichereste anche qui e già non si trova più agilmente il recente Oscar con Tutte le poesie 1953-2005. Resta poi che pubblicare un libro con tutte le poesie e ripubblicare una singola opera di un autore sono due operazioni con significati diversi, anche se materialmente rimettono in circolazione una determinata poesia.













Polso teso è un libro importante nel percorso di Risi e costituisce la seconda opera di poesia (l'esordio di Risi poeta è del 1948, con L'esperienza). La prima edizione uscì nel maggio del 1956, mentre la seconda “ampliata e riveduta”, uscì nell’agosto del 1973. Sono informazioni che ricavo dalla seconda edizione, di cui riconoscerete la copertina qui sopra (trovo una buona abitudine, oggi persa, quella di collocare anche con il mese l’uscita delle varie edizioni di una data opera). Com’è importante la nota che Risi pospone alla seconda edizione, laddove spiega nel dettaglio le differenze, le varianti rispetto alla prima edizione di questo libro nato a Parigi, e dove precisa che si tratta di “un lavoro di varianti doveroso a distanza di anni, anche se non ho voluto lasciarmi prendere troppo dal gusto del restauro. Perché mi stava a cuore mantenere intatto il piglio giovanile di Polso teso, una disponibilità alla vita e non al gioco letterario, a quella forma di energia che cerca la sua espressione andando a caccia non di effetti bene amministrati ma di comunicabilità […]”.

Montale, in un suo celebre contributo sulla poesia di Nelo Risi, ricordava in quale accezione il poeta fosse engagé, seppur “non a senso unico” (qui il poeta-critico sembra prevenire tediose paranoie potenziali: siamo nel 1966 e si tratta di un articolo per il Corriere della Sera), accenna a un “virile pessimismo esistenziale”, ritrae Risi come “uno di quei poeti che partono dallo zero, facendo tabula rasa della loro cultura; ma anche ammettendo che poeti simili esistano (il che non fu mai dimostrato, tranne il caso dello analfabetismo assoluto) Nelo Risi non rifiuta affatto la sua natura e la sua formazione di uomo colto”.


TORRIDO


Ecco l’estate
viene su a dismisura
tutto arde
fin le pietre nella notte
e le mura.
                  Io sono senza
volontà, non sono mai pronto
ma ho molto tempo davanti a me,
non mi chiedo dove va il mondo
né come andrà dopo di me.
Bastano gli altri
che muoiono ogni giorno
per capire com’è.



martedì 8 maggio 2012

"L'arte contemporanea spiegata a tuo marito". Così Mauro Covacich ti parla delle altre mozzarelle in carrozza (quelle di De Domenicis)

In ambiente editoriale esiste ancora quel vecchio adagio che vede protagonisti i tre potenziali argomenti di vendita racchiusi nella copertina di ogni libro: il nome dell'autore, il titolo, il nome dell'editore. In alcuni casi il nome dell'autore prevale sul titolo e sull'editore (pensate a come vi aspettate una copertina di un John le Carré o di un Ken Follett, col nome dell'autore a caratteri cubitali), in altri l'autore è sconosciuto, allora sarà un titolo possibilmente accattivante ad attirare l'attenzione, in altri l'autore può essere ugualmente sconosciuto, ma se la gabbia grafica che ospita il tutto è una copertina Adelphi o Einaudi, allora il lettore medio è indotto a pensare di avere davanti un buon libro, che qualcun altro ha scelto per lui. Nel caso del libro di cui scrivo ora, L'arte contemporanea spiegata a tuo marito di Mauro Covacich (Laterza, pp. 120, euro 14) siamo forse un po' spiazzati. Il romanziere Mauro Covacich, conosciuto per libri fatti prima per Mondadori e poi Einaudi, approda a Laterza (a dire il vero con quest'editore ha pubblicato due interessanti libri per la collana Contromano, Trieste sottosopra e Storia di pazzi e di normali) con un libro godibilissimo dedicato a trenta tra i principali e più noti artisti contemporanei. Il titolo è furbamente capzioso, sembra studiato appositamente per il lavoro d'ufficio stampa delle case editrici e per approdare senza filtri sulle pagine redazionali dei femminili pronti a darne notizia. Da compilatore di M davanti alla casella  M/F dei questionari, forse avrei dovuto astenermi, ignorare il libro, invece ho voluto seguire Covacich in questo suo percorso tra trenta personalità (la maggior parte uomini) la cui opera equivale a trenta grosse "dita puntate" su qualcosa. L'arte contemporanea è spesso questo, un dito puntato. Insomma, del trio autore-titolo-editore, stavolta viene sacrificato il nome di Laterza. Bisognava giocare sul binomio autore-titolo ironico per impacchettare quell'attenzione che, a mio avviso, il libro meriterebbe comunque, a prescindere da questi ragionamenti. 

Covacich è un cultore attento della materia, sa separare il grano dal loglio, "le dita puntate" che gli artisti contemporanei sanno sa far scattare assieme alle loro opere (sempre più spesso dei veri e propri interrogativi), dalle azioni pazzesche di speculazione registrabili nel mercato dell'arte. Il suo punto di vista è informato ma sufficientemente vergine per poter ambire a inquadrare le opere sotto una lente con curvatura inedita. Se tanta parte dell'arte contemporanea è rimasta, ad un livello di percezione comune (per questa strada torniamo al titolo!), attaccata alla boutade "questo lo sapevo fare anch'io", come a sottolineare la disarmante semplicità e banalità di certe soluzioni degli artisti, leggendo Covacich sugli artisti contemporanei verrà più facile dire "questo a me non sarebbe mai venuto in mente" o, meglio, "questo lo poteva fare solo questo dato artista". In questa risposta implicita ho ravvisato il denominatore comune di queste agili trenta schede. Ad ogni artista Covacich riserva un'immagine significativa e una trattazione rapida, in media sulle tre pagine. Le chiuse di queste scorrevoli schede spesso ritornano sul titolo del libro, su quello che lei dovrebbe spiegare, dire, suggerire a lui per tentare di avvicinarlo a un mondo altrimenti impenetrabile, forse persino risibile e repellente.

Un libro così non può non partire dall'orinatoio-fontana di Marcel Duchamp, soffermarsi sul chiacchieratissimo Maurizio Cattelan (questo non lo dice Covacich ma lo penso da un po': nessuno di coloro che si scandalizzano per La nona ora o per i bambini-pupazzi appesi ha mai letto in quest'ultimo un chiaro rimando a Pinocchio? Come? Collodi sì e Cattelan no?), passare per autentiche mozzarelle (latticini) in carrozza di Gino De Dominicis, Jackson Pollock, Mark Rothko (forse una delle schede più belle, una pittura sicuramente sentita da Covacich), l'imprescindibile Andy Warhol, Joseph Beuys, i palloni gonfiati di Jeff Koons, Haruki Murakami, le vacche squartate o i teschi diamantati di Damien Hirst,  il blu brevettato di Yves Klein, l'altro imprescindibile ovvero l'enfant terrible Piero Manzoni (precursore di Koons?), Francis Bacon, Lucian Freud, la Venere degli Stracci di Michelangelo Pistoletto (leggetela in parallelo a Ninfa moderna di Didi-Huberman), i concetti spaziali-vaginali di Lucio Fontana, le combustioni di Alberto Burri, Chris Burden, il fetore insopportabile delle ossa spolpate da Marina Abramović durante Balkan Baroque a La Biennale di Venezia del 1997, e poi Richard Long, gli alberi di Giuseppe Penone, Bruce Nauman, Bill Viola, Sophie Calle (artista cara all'autore, presente anche nei suoi romanzi), Anselm Kiefer, William Kentridge, Matthew Barney, Patricia Piccinini, quella Mona Hatoum che proiettò la propria gastroscopia per finire con l'iphone/tablet art di David Hockney (classe 1937). Impossibile qui approfondire ogni singola trattazione; è un libro che si legge con grande interesse. Possono comprarlo e leggerlo tranquillamente anche i mariti (e pure i ragazzi).

giovedì 3 maggio 2012

da "al Limite", di Antonella Bukovaz

Una poesia da #4












Siedo da anni nell'ansa
dove curvano i pensieri
si congiungono e riavviano
mi infilo nello spazio tra uno e l'altro
allargo le gambe - divarico il tempo
tra la fine e il principio
della pausa prendo l'impronta.
[...]

Come i suoi compagni di collana, al Limite (Le Lettere, collana Fuori Formato, pp. 120, con DVD, euro 32) è una perla luminosa. Ne registro la sfericità vibrante nel panorama della recente poesia in lingua italiana con parecchio ritardo (il libro è infatti uscito nel 2011), ma non credo ci sia un time to market troppo stringente da rispettare in poesia. Per questa poesia. Antonella Bukovaz ha qui concentrato lo sforzo di una geografia poetica e di un percorso vocale tra i più avvincenti (da sempre infatti sperimenta la multimedialità, come nel DVD allegato realizzato assieme a Paolo Comuzzi e con le composizioni musicali di Antonio Della Marina). Attiva in quell'area (aria?) di confine tra Italia e Slovenia, in quel paese di Topolò (Topolove) salito agli onori della cronaca per uno dei più intelligenti festival artistici d'Italia (Stazione di Topolò/Postaja Topolove), poeta di intervalli e pendolare di valli (quelle del Natisone), tra San Pietro e Cividale, Antonella Bukovaz offre oggi una delle più aperte letture del paesaggio post-Zanzotto. Andrea Cortellessa, curatore della collana, parla giustamente di poesia site-specific, rimandando al parallelo con la prosa del paesologo Franco Arminio, autore di una bellissima nota conclusiva di cui riporto alcuni stralci importanti:

"C'è un solo punto del corpo da cui non si vede il cielo. Questo punto è lageografia tatuata sulla pianta dei piedi. Il contatto con la terra è la prima regola della nostra postura, ma è come se fosse in corso una rimozione del punto d'appoggio. La terra è la base, è come vivere in un vaso: a pensarci bene ogni passo è fioritura, è un andare e vedere dove siamo, dove possiamo andare.
Io ho sempre letto i versi di Antonella Bukovaz cercando in essi il luogo da cui provenivano. Ogni corpo è un luogo di confine tra la terra e la carne e noi abitiamo sempre un bordo, un borgo minacciato di estinzione [...] In ogni caso io amo la scrittura che mi dice dove si trova chi scrive, che vento e che nuvole e che macchine vede intorno a sé lo scrittore. [...] La poesia è un po' come la colatura di alici. [...] 
Il luogo funziona come da spremiagrumi. Quando si rimane a lungo nel posto in cui si è nati, quasi sempre ci si spegne lentamente per inalazione di dosi minime e continue di ossido di carbonio. Perché la combustione avviene al chiuso, perché bisogna bruciare se stessi per darsi calore e luce. [...] Con lei (con Antonella Bukovaz, ndr) siamo sui monti, siamo al confine, sospesi tra un'identiqua e un'identilà. E siamo ad Oriente. È come portare Saba ad alta quota, dalle galline alle poiane. [...]"

Poesia site-specific quindi, ma poesia sulla fissità e sulla sparizione del luogo, dello spiraliforme mutare di natura, di simmetrie, delle invarianti del pendolo che ha come estremi la stanzialità del corpo e il nomadismo di ciò che è più perduto, il saluto di un verso quindi, di una poesia immersa in uno dei più lacerati "problemi della lingua" conosciuti nel secolo scorso, come giustamente ricorda Moreno Miorelli nella sua nota sugli indissolubili aspetti storico-geografici di quest'area: "La situazione ha mille sfumature e complessità che è impossibile qui approfondire, ciò che rimane è un “problema della lingua”, per chi l’ha difesa e per chi l’ha rifiutata, che si trasforma in un caso eccezionale, unico, come se in un bicchiere d’acqua si fossero radunate pronte allo scontro tutte le tensioni e le contraddizioni di secoli di storia, simboleggiate e concentrate in una parlata, in un dialetto che il solo nominarlo, praticarlo o studiarlo ha creato, soprattutto nella seconda metà del secolo scorso, asti e irremovibili sensi di colpa o di rivalsa o di rifiuto e questo per la più naturale delle espressioni umane, il parlare. Quella che richiederebbe, per non venire fraintesa, per dare forme chiare al pensiero, la più grande quiete."

 Davvero una delle più belle letture (e visioni) degli ultimi mesi (cercatela anche su Youtube).



CAMERARDENTE



Nello sciame quantico
quanti siamo? Affondiamo
sempre più nella lingua
deglutiti da boschi d’alfabeti
si emerge a cercare calma
ci tiene a galla
un confine mai divelto.
Una corruzione inesorabile accompagna la crescita
e la parola
confine tra uomo e uomo
da questo abisso
risalire sarà una guerra
fino alla conchiglia delle mani
a scoprire una perla dal brillio del latte
pronta a esplodere o, nel peggiore dei casi
a perdere splendore
fino a ingrigire e spegnere
anche la luce intorno.
Dicono che sono caduti - i confini
ma com’è possibile? Erano tutt’uno
con le carni dei vicini e le ansie
da finitudine imperfetta
e la materia della lontananza!
Si è vissuti in un coagulo eroso
dal protendersi di opposti versanti
dalla notte delle strategie
da un misurato marasma.
Si è sopravissuti in sanguinaccio di identità.

E ora questa notizia!
……
Quindi ciò che sento è la presenza
di un arto fantasma?

Alla luce del desiderio del desiderio
sono evidenti le storture dello sguardo
i crampi alla percezione del reale
mentre il rimpianto dei confini
- poggiati su cuscini - di raso
è un’ode di cinque o sei versi
lungo i quali so schiantarmi e ricompormi
alla penombra della loro camera ardente.

Ho tenuto tra le mani il mio osso
ora non posso più respingermi
ma rischio di lasciarmi annegare
in questo che è il mio riflesso
e sembra mare.


(E se volete approfondire, troverete un'altra bellissima poesia, più lunga, in questo PDF scaricabile dal sito della casa editrice Le Lettere, dove l'epigrafe pasoliniana dice moltissimo del "problema della lingua"). 

Infine, data la natura del libro e dato il frequente ricorso al lavoro multimediale da parte dell'autrice, (con Sandro Carta, Marco Mossutto, Hanna Preuss, Antonio Della Marina e l'instancabile Teho Teardo), credo sia opportuno rimandarvi a questo video, le cui immagini stanno ai versi come le foglie ai rami, un lavoro che poi, tra l'altro, mi sembra così congeniale (consustanziale?) alla squisita irrequietezza che contraddistingue quest'artista.