sabato 30 marzo 2013

I "portatori di silenzio" di Stefano Raimondi e la collana dell'Accademia del silenzio

Storie di collane micro #8


Che le quotazioni del silenzio stiano salendo potrebbe risultare un'asserzione che fa sorridere. Eppure, in quest'epoca di chiasso frastornante, alternata sui ritmi dell'iperfrequentazione mediatica o della sua artata rarefazione, credo che saremo ricacciati a forza a esplorare il silenzio, se già non lo stiamo facendo senza accorgercene. Twitteremo silenzio? Qui non si tratta di rinverdire gli assiomi di Watzlawick sull'impossibilità di non comunicare o di riscoprire il valore comunicativo del silenzio. Non è di mancanza di comunicazione o di valore di comunicativo del silenzio che sto parlando (e tra l'altro siamo tutti consapevoli di quali difficoltà ponga oggi la parola "comunicazione"). In letteratura il suicidio di Celan del 1970 ha fatto fatto echeggiare una sorta di primato del silenzio (e Celan ritorna anche in questo bel libro di Stefano Raimondi, poeta, che qui scelgo per illustrare la collana "micro" di cui vi parlo stavolta). Prima ancora, filosoficamente, il silenzio aveva ricevuto da Wittgenstein e dal suo successo (quasi modaiolo a tratti, ci mancava solo il finale del Tractatus sull'incarto dei Baci Perugina ed eravamo fritti!) una spinta non trascurabile. Nella stessa arte contemporanea pensiamo ai silenzi di Rothko o Fontana o Giacometti. E per chiudere con la madre di tutto, la storia, soffermiamoci solo a quello che può essere stato il silenzio dopo il massimo rumore, cioè il silenzio post-atomico.

Il libro di Stefano Raimondi, da leggere anche ad incastro nel suo banco di scrittura poetica (ricordo Interni con finestre uscito per La Vita Felice, di cui trovate un assaggio significativo qui) si dipana attraverso pregni riferimenti a Celan, a Ungaretti, al ritiro/contrazione silenziosa dello Tzimtzum ebraico di Isaak Luria, Edmond Jabès, María Zambrano, Iosif Brodskij in un percorso a tappe/stazioni numerate. I riferimenti non spaventino, perché la prosa scorre, quasi come il silenzio stesso.  Il merito del libro di Raimondi è tutto nel problematizzare e mostrare quanto controverso e scivoloso sia questo tema. L'autore sembra donarci con questo libriccino qualcosa di propedeutico, un gesto preparatorio allo spazio creato dal silenzio e, in fondo, alla bella idea di questa stessa collana che lo ospita.

La collana si era aperta con Il silenzio di un altro poeta, Franco Loi, e annovera ora al suo interno i seguenti librini (tutti sotto i 5 euro): C'è silenzio e silenzio. Forme e significati del tacere di Giovanni Gasparini, Una luminosa quiete. La ricerca del silenzio nelle pratiche di meditazione di Giampiero Comolli, Pause. Sette oasi di sosta sull'orizzonte del silenzio di Nicoletta Polla-Mattiot e I sensi del silenzio. Quando la scrittura si fa dimora di Duccio Demetrio. Fa riferimento ad un'accademia, di cui qui potete trovare il sito internet. Scuola, laboratorio, occasione di incontro e confronto, vacanza dal rumore. 

Leggiamo che L’Accademia del silenzio che dà il nome alla collana è:
- un luogo dove incontrarsi per condividere esperienze di riflessione e creatività legate al silenzio;
- uno spazio didattico dove seguire corsi e seminari pratici per apprendere le potenzialità comunicative, ideative, relazionali, terapeutiche del silenzio;
- un gruppo di studiosi convinti che “fare silenzio” è un’arte, con delle regole che si possono imparare, trasmettere, condividere ed esercitare;
- una comunità virtuale e reale di persone impegnate a promuovere il valore, l’insegnamento e l’esperienza del silenzio.

Oltre agli autori citati, tra i promotori dell'Accademia ricordiamo, tra gli altri, Valentina D’Urso, Marco Ermentini, Emanuele Ferrari, Daniela Finocchi, Giorgio Ieranò, Emanuela Mancino, Francesco Marchioro, Giampaolo Nuvolati, Antonella Parigi, Luigi Perissinotto, Gian Piero Quaglino, Antonio Ria, Francesca Rigotti, Luigi Spina, Manuela Trinci. Stanno pensando ad un manifesto in parte già reperibile in coda ai libri della collana. Credo sia un progetto da seguire con curiosità e interesse.

mercoledì 27 marzo 2013

"Un dolore riconoscente" di Gian Mario Villalta

Ripescaggi #20


Arriva questa settimana nelle librerie di mattoni e vetrine e in quelle del web Alla fine di un'infanzia felice, terzo romanzo di Gian Mario Villalta, pubblicato da Mondadori. Segue Tuo figlio (2004) e Vita della mia vita (2006), tutti usciti per lo stesso editore. Se nel primo romanzo ho trovato quelle che in termini cinematografici chiamerei "scene d'esterno" che tuttora mi parlano, quasi a livello di midollo osseo, con il secondo ho fatto un po' più fatica, pur riconoscendo tuttora nel tema dominante un motivo di forte attrazione (so che dovrei definire meglio quella fatica, ma questo non è il posto). Curioso che quelle scene d'esterno alle quali penso nel caso di Tuo figlio abbiano profonda consonanza con l'immagine scelta per la copertina del nuovo romanzo, che fortunatamente rifugge la moda "giordaniana" innescata da La solitudine dei numeri primi (in fondo comprensibile nella logica dei grafici: ha funzionato quella, vuoi che non funzioni anche qualsiasi replica di un volto simile?). Mi interessa leggere presto questo nuovo libro, che in realtà è la quarta prova di narrativa (se l'avete già letto quando capitate su queste righe, magari raccontate come l'avete trovato). Non molti infatti possono sapere che l'esordio in narrativa avvenne con un libro di racconti nel 2000. Il libro si intitola Un dolore riconoscente e finì presto fuori commercio, seguendo le sorti della casa editrice Editori Associati-Transeuropa (pp. 168, costava 20.000 lire). E quando un libro finisce definitivamente fuori dalla reperibilità finisce inspiegabilmente fuori da qualsiasi discorso o nota. Anche se non ne ho più parlato nemmeno con l'autore stesso, credo che quel libro di racconti indovinasse bene il suo manifestarsi in quel preciso frangente. Ricordo benissimo Andrea Zanzotto, quando più di una volta mi disse che lo reputava uno dei suoi libri più belli, e dava davvero l'impressione di tirar dentro tutto con la parola "libro" (poesia, narrativa e saggistica, persino teatro, dove l'autore si è cimentato con Lezione, portato in scena da Cesare Lievi, o l'indovinato UìCHèND). Ripesco allora una lontanissima recensione a quel volume di racconti apparsa su "daemon". Mi scuserete se faccio spesso questi ripescaggi (anzi, non occorre che mi scusiate, semplicemente potete saltarli a piè pari), ma mi consentono di dare una certa frequenza ai post, creando dei pretesti per collegare l'attualità a cose già pronte che giacevano nei ripostigli telematici del mio passato. Del maiale (io) non si butta via niente, lo diceva già Umberto Eco nel suo Come si fa una tesi di laurea, anche se questa non ha niente a che vedere con una tesi di laurea...
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Compresenza casuale, ma stimolante, quella della recensione di questo libro e del terzo numero di "daemon" intitolato La perdita della memoria. Perché questi 15 racconti di Gian Mario Villalta (Visinale PN, 1959) hanno nella memoria personale stessa la mappa del raccontare. Memoria e racconto assieme (qui necessariamente è la forma-racconto, la sola capace di sopportare le diverse e mai date una volta per tutte manifestazioni del sé autobiografico) potrebbero dar l'idea che ci sia qualcosa di "importante" da raccontare. L'assunto di partenza è però lontano da questa posizione, dal momento che Villalta muove probabilmente dal più semplice e dal più compromesso degli interrogativi: come ce la raccontiamo la vita? Dal mio punto di vista l'interrogativo a cui può approdare il lettore suona circa così: cosa può voler dire vivere all'altezza del proprio tempo? E conseguentemente, raccontare all'altezza del proprio tempo. 

Abbiamo già messo molta carne al fuoco: memoria, vita (sulla morte vorrei richiamare il racconto, per certi residuali aspetti heideggeriano, Ottobre 1986), tempo: i 15 racconti di Un dolore riconoscente procedono con un andamento a ritroso (dal 1999 al 1969, 5 per ogni decennio) facendoci incontrare personaggi, situazioni, luoghi (qui il curatore delle prose del Meridiano di Andrea Zanzotto è assai poco zanzottiano o, perlomeno, dimostra di aver digerito lo sguardo zanzottiano, di essere pronto a ripartire) che non possono non richiamarci un mondo familiare, ma allo stesso tempo straniante: straniante per la capacità dell'autore di tessere i legami nei diversi tempi presenti di questi racconti. E ricordiamo che i diversi tempi di questi racconti sono quelli dell'accelerazione generalizzata, del mutamento antropologico inavvertito (spesso per la mancanza di strumentazione umana adatta, all'altezza), dello sconvolgimento della morfologia dei luoghi e del convivere di questi eventi con una quotidianità contadina dura a spegnersi nei cervelli (qui nel nordest d'Italia il discorso si farebbe caldo ed è meglio passare oltre). 

Quello che comunque mi preme sottolineare, al di là della freschezza che una prosa non cascante può donare, è quanto segue: 1) il superamento della concezione che la complessità si trovi nell'intrico lessicale-sintattico; 2) la raggiunta consapevolezza che, oggi, la complessità ha miglior dimora nella scrittura temporalizzata che procede tra pause, ellissi, simmetrie, ritorni, presa-diretta e nella loro combinazione-architettura; 3) il posizionarsi in evidente condizione di ascolto nei confronti dei saperi contemporanei, quindi, riferito all'approccio originale alla memoria, ad esempio, i contributi delle neuroscienze soprattutto con G.M. Edelman e A.R. Damasio (proto-sé, sé nucleare, sé autobiografico), ma anche J.P. Changeux, H. Maturana, F. Varela; 4) il conseguente forte richiamo alla centralità del corpo nella narrazione; 5) la già citata importanza di raccontare "per presenti"; 6) il testo letterario, il modo della narrazione connesso inevitabilmente relativo adattamento del sé autobiografico. Questo senza alcun ordine di rilevanza. Anzi. Proprio riguardo al punto 6, questi racconti si pongono con la limpidezza dell'invenzione responsabile e riportano la letteratura su un piano di elaborazione/rielaborazione di modelli dell'identità della persona e sociale (qui, in parte, l'adattamento del sé). Ed è in questo punto che il mio discorso si salda: la memoria non è (non è mai stata) un "archivio" che si perde o si ritrova, ma una mappa in fieri della soggettività che si rapporta ad altre soggettività. Di qui il pensiero su cosa possa voler dire vivere e raccontare all'altezza del proprio tempo: probabilmente, tra le tante altre cose, rapportarsi con la memoria e l'oblio partendo da queste suddette ultime ipotesi, da questa virata che è etica senza dubbio.
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Questa la copertina di Alla fine di un'infanzia felice di cui parlavo sopra. Prospettiva esasperata o prospettiva come forma simbolica? A me ha ricordato un po' la fotografia di Io non ho paura di Salvatores, tratto dal romanzo omonimo di Ammaniti, che però non ho letto. Per chi volesse un'anticipazione, "Il Piccolo di Trieste", quotidiano vivace e ricco di iniziativa, per mano di Alessandro Mezzena Lona ha già recensito il romanzo qui.

lunedì 25 marzo 2013

"Nuovi poeti italiani 6" Einaudi. Ca' dei Ricchi a Treviso ospita Franca Mancinelli, Laura Liberale e Giovanna Frene per "Tra Versi"












Giovedì 28 marzo 2013 alle ore 21
Ca' dei Ricchi, via Barberia, Treviso
Rassegna di poesia "Tra Versi" - a cura di Marco Scarpa
con Franca Mancinelli, Laura Liberale e Giovanna Frene


La rassegna "Tra versi" curata da Marco Scarpa prosegue e porta in città alcune tra le voci più interessanti di oggi. Stavolta il pretesto editoriale è tangibile e recente, visto che ospiti della serata che si terrà a Ca' dei Ricchi a Treviso saranno Franca Mancinelli, Laura Liberale e Giovanna Frene, vale a dire tre poetesse tra quelle incluse nel volume tutto al femminile Nuovi poeti italiani 6 (pp. XVIII - 302, € 16,00, a cura di Giovanna Rosadini, della quale consiglio calorosamente Unità di risveglio, sempre per Einaudi). Le altre nove sono Alida Airaghi, Daniela Attanasio, Antonella Bukovaz, Maria Grazia Calandrone, Chandra Livia Candiani, Gabriela Fantato, Isabella Leardini, Laura Pugno e Rossella Tempesta. La formula degli incontri curati da Marco Scarpa prevede le presentazioni degli autori, le letture di poesie e momenti per il confronto ed il dialogo con chi verrà ad ascoltare. Particolare cura sarà dedicata alla scenografia, con cuscini, tappeti, libri e pergamene scritte a mano, il tutto in un ambiente informale, familiare, rilassato per facilitare l’ascolto, per avvicinare colui che ascolta a colui che legge ed infine per condividere un bicchiere di vino. Vi ricordiamo il sito di TRA (Treviso Ricerca Arte) raggiungibile a questo link.

Foto calcistica per 7 delle 12 protagoniste
del volume Einaudi. Da sinistra in piedi: Maria Grazia
Calandrone, Isabella Leardini in un pieno di ottanio,

 Laura Liberale, Giovanna  Frene. Sedute: Daniela 
Attanasio, Giovanna Rosadini e Franca Mancinelli
Franca Mancinelli è nata a Fano nel 1981. Ha pubblicato un libro di poesie, Mala kruna (Manni, 2007; premio opera prima “L’Aquila” e “Giuseppe Giusti”). Suoi testi sono inclusi in diverse antologie tra cui, le più recenti, Il miele del silenzio. Antologia della giovane poesia italiana, a cura di Giuseppe Pontiggia (Interlinea, 2009), La generazione entrante. Poeti nati negli anni Ottanta (Ladolfi Editore, 2011). Un’anticipazione del suo secondo libro di versi, Pasta madre, in uscita presso Nino Aragno editore, è apparsa in Nuovi poeti italiani 6, a cura di Giovanna Rosadini (Einaudi, 2012) e nel n. 273 di «Poesia» (luglio/agosto 2012) con una nota di Massimo Raffaeli. Collabora come critica con «Poesia» e con altre riviste e periodici letterari.

Laura Liberale è nata a Torino nel 1969 Si è laureata in Filosofia con una tesi di Religioni e Filosofie dell’India e dell’Estremo Oriente. Dopo la laurea ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Studi Indologici. Dal 2006 tiene corsi e seminari di Scrittura Creativa (per adulti e per studenti di elementari e medie). Autrice di saggi indologici e insegnante, ha ottenuto riconoscimenti in svariati premi di poesia e narrativa. Nel 2009 ha pubblicato il suo primo romanzo, Tanatoparty (Meridiano Zero, Padova) e la silloge poetica Sari – poesie per la figlia (d’If, Napoli). Nel 2011 è uscita la raccolta di poesie Ballabile terreo (d’If); nel 2012, il suo secondo romanzo, Madreferro (Perdisa Pop, Ozzano dell’Emilia). Sempre nel 2012, è stata inserita, con un’ampia scelta di poesie, nell’antologia Nuovi poeti italiani 6 edita da Einaudi e curata da Giovanna Rosadini.

Giovanna Frene (Asolo, 16 dicembre 1968) vive a Padova. Diplomata in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia, è laureata in Lettere moderne, ed è Dottore di Ricerca in Storia della Lingua Ha pubblicato: Immagine di voce, Facchin 1999; Spostamento - poemetto per la memoria (Lietocolle, 2000); Datità (Manni, 2001); Stato apparente (Lietocolle, 2004); Sara Laughs (D’If, 2007); Il noto, il nuovo (Transeuropa, 2011); e, con lo pseudonimo di Federica Marte, il prosimetro Orfeo è morto(Lietocolle, 2002). Ha pubblicato poesie in riviste italiane e straniere ed è inclusa in varie antologie poetiche, tra cui: Nuovi Poeti italiani 6 (Einaudi, 2012); Poeti degli Anni Zero (Ponte Sisto, 2011); Parola Plurale (Sossella Editore, 2005).

sabato 23 marzo 2013

Maddalena Bertolini è "una", nessuna, poi centomila. Un libro di poesia che è come un diedro di montagna

Quando due pareti di roccia si incontrano, in quella loro geometria portentosa e variabile, talvolta friabile, formano un angolo che assume svariate ampiezze, e così creano ombre, temperature differenti, restituzioni nivali e vegetali inedite: se notate questo, se vi siete arrampicati attraversando una simile geometria, allora siete arrampicati in quello che in gergo alpinistico si definisce "diedro", il quale, come nella geometria che si studia a scuola legata ai piani e a una retta, può essere aperto o chiuso a seconda dell'angolo che genera. Un libro potrebbe essere un oggetto utile a esemplificarlo e un libro aperto è un diedro dove potete arrampicarvi, facendo attenzione a non cadere (la caduta, tema caro all’autrice di questo libro, ricorrente, anche se non potrò citare troppe poesie). Scelgo quest'immagine per introdurre alla lettura di una di Maddalena Bertolini, e non soltanto perché sei, la sezione più corposa del libro, è quanto di più bello abbia letto in poesia sulla montagna negli ultimi anni. Da dove scrive Maddalena Bertolini? Da un paese del Trentino, che lei descrive così:

al mio paese le mucche hanno una
stalla sotto al prato del castello
alla sera in una luce di latte
polveroso e fieno le intravedi
mugugnare prima di dormire appese sopra
i loro musi ardono le torri medievali
pendono le mungitrici elettriche
noi ci portiamo sempre i bambini
d’inverno la neve tiene bene sull’erba
in discesa ben tosata chi con le slitte
legnose chi sulle plastiche infiammate

Ho scelto questa poesia perché mi pare introduca bene e sgomberi il campo da facili catalogazioni e invenzioni di tradizioni: non c’è facile nostalgia qui, agli animali vengono donati verbi umani, le torri medievali stanno assieme col ronzio delle mungitrici elettriche, le slitte in legno con quelle (probabilmente rosse) in plastica, l’uso parco delle virgole e la scelta del verso, unito alla scansione ritmica della parola (in altri posti anche l’uso innovativo delle rime) divengono la scansione ritmica principale, la vera intonazione, certe inversioni fanno davvero differenza come quella bellissima tra “in discesa” e “ben tosata” (o tra “sull’erba” e “in discesa”, dipende da come la vedete voi qui). Si noti poi il “latte polveroso”, assai lontano da “il latte in polvere”, i giochi d’accento preziosi e semplici su parole sdrucciole come “àrdono/pèndono”.

Domeniche, pioggia, figli, il fiume Brenta, montagne, lago, lavatrici, mungitrici, stazioni, animali, immigrazioni, mani: confesso che la poesia di Maddalena Bertolini mi ha rapito ed era da tanto che non mi accadeva. Non che sia importante che io affermi queste cose, ma voglio dirvi com'è andata, mettervi in guardia, perché è giusto che sia così, è bene che io incominci così per avvertire chi andrà fino in fondo di questo mio breve scritto, che poi è un semplice elogio, visto che non saprei far altro, in questo specifico caso. Quante volte aprite un libro di poesia contemporanea, leggete un paio di poesie e desistite, perché il cadere della poesia, dell'accento, della parola è un cadere brutto, flaccido? Credo capiti a molti tra quelli che si impegnano nel gesto (impopolare?) di afferrare un libro di poesia, magari di un autore sconosciuto, e nella maggior parte dei casi riporlo a scaffale. Con questo libro è successo il contrario: ho letto una poesia, poi un'altra e quindi mi sono fermato. Così piacevole è stata la sorpresa che volevo credere che anche con gli altri testi sarebbe successo qualcosa di simile. E anziché chiedere a Matteo Fantuzzi di Ladolfi Editore di spedirmi una copia, l'ho banalmente acquistato, con qualche imbarazzo della libraia al momento di puntamento della pistola che legge l'ISBN (hanno dovuto digitare il codice a mano per poterlo scaricare dalle giacenze: l'editoria, sapete, è una questione di logistica, di parabole che finiscono al macero). Una sbirciata alla nota biografica, giusto il tempo di trovare quel bel tacere sull'anno di nascita (di solito onnipresente, e tuttavia diligentemente camuffato all'interno di una poesia dedicata al figlio: “i pantaloni lenti e il ciuffo anni ’60 / (quando sono nata) […]”) e soprattutto lo spazio in testa per registrare il luogo in cui Bertolini vive: Pergine Valsugana. Non che la Valsugana sia una delle più acclamate valli di quella regione, a detta dei più che magari si riempiono la bocca di nomi di valli altoatesine (sudtirolesi?), ma a me quella valle ha sempre mostrato qualcosa, forse per la strada statale che vi passa, magari per lo spot in rima della polenta che occupava tanti miei risvegli radiofonici da piccolo (assieme ad una marca di burro) e di sicuro per le montagne che vi penso affianco, a destra e a sinistra andando, a sinistra e a destra ritornando verso casa. E comunque, sempre col desiderio di non imbrogliare il lettore, vorrei aggiungere che Maddalena Bertolini non è affatto sconosciuta: ha all'attivo libri di poesia e narrativa con editori noti, Franco Loi si è occupato della sua poesia scrivendo, per Le mani delle parole, che il suo è "un parlare che è fatto di sé e dell'altro, che trascina con sé, quasi senza che il dicente se ne accorga, memorie, fiati altrui, essenze dissepolte, sapori del corpo e dell'anima, echi cosmici, influssi lontani e oscuri. "Ho imparato a essere due" dichiara all'inizio di altri versi, e c'è tutto, la copula, la gravidanza, la nascita e persino l'imparare a camminare "con due cuori", e io direi con tanti cuori.". Soltanto che a me, nella presuntuosa e castigata convinzione di essere abbastanza aggiornato sulle cose di poesia che accadono in Italia, il suo nome giungeva nuovo. Tutto qui. E le parole di Loi, scoperte dopo, si rivelano utili anche per questo recente una, che solo in apparenza contraddice quel verso ("Ho imparato a essere due") scelto da Loi.

una
, il libro pubblicato da Giuliano Ladolfi Editore a dicembre 2012 (pp. 78, euro 10, prefazione di Sarah Tardino) ha già avuto modo di farsi apprezzare vincendo il Premio InediTO 2012. A lettura ultimata sono andato a scorrere l'indice (gli indici dei libri di poesia sanno essere poesie a loro volta). Le sezioni si intitolano "una" poi “due”, quindi “quattro” e “sei” per finire con “sono”: bello, piena quest'architettura saltellante tra articoli, numeri, verbi-numeri, oppure verbi invariabili dall'io al "loro", come per la sezione conclusiva. Forte è la tentazione di citare molti testi per intero, e pure quella di procedere ad una quasi catalogazione delle scelte lessicali e di verso compiute dall'autrice. Provo a citare almeno alcune soluzioni e, con esse, anche alcuni testi. Partirei da tutto ciò che è ritmo e dalla rima, letteralmente battuta palmo a palmo dall'autrice, in geometrie variabilissime e inedite: rima facile, difficile, rara, piana, raramente tronca, sdrucciola, baciata, al mezzo, fratta da enjambement. La sua poesia risponde "per le rime" alla realtà che accoglie. Ho pensato per un istante alla professione dell'autrice, ostetrica, e mi è parso di scorgere pure una rima di valore anatomico, quel qualcosa che immette in una cavità anatomica ma anche dalla quale il mondo (o la voce) ha origine (come nel celeberrimo quadro di Courbet), una scena che l'autrice vivrà quotidianamente. Il pensiero si è rafforzato in bambini, dove chiude con "La paura di sporgermi oltre le gambe / del parto e vederlo, il momento preciso / del viso di un uomo" (qui davvero pregna la rima "preciso-viso").

Parlavo di rima e ritmo. In Brenta, ad esempio, c'è un effetto rallenty che trovo inedito, dato dalla configurazione regolare dei distici e dall'ipermetro di quinta posizione, nonché dall'uso efficace del superlativo al terzo verso che poi si conclude con le "ossa" del successivo: "dolce alba sguscia le montagne / le paure di nevi e mari sciolti  // luce lenta bianchissime / ossa di roccia // scivola lo sguardo del sole - riprendimi / sull'orlo dell'ombra // hai fatto l'istante / perché mi raggiunga". Notevole inoltre, a mio avviso, il verbo "sgusciare" in apertura, che rimanda al calcare d'uovo e si stringe, prensile, al calcare osseo della roccia, prima della scivolata del sole e di quel finale che ferma tutto, in un verso che scivola bene fuori dal buio, nel silenzio d'alba, una variante moderna dell'alba dalle dita rosate che possiamo trovare in Omero o in Saffo. Altrove Maddalena Bertolini risponde quasi (inconsciamente?) a chi si lamenta dell’assenza di monosillabi a disposizione dei poeti italiani (di solito sono ragionamenti che arrivano da chi frequenta lingue anglosassoni) e incomincia un testo con “so che tu sei chi mi sta / davanti e non lo sei.”

Una delle poesie che mi sono segnato è fuori sede, sin dalla prima lettura (la rilettura poi crea nuovi circuiti, in un gioco di livelli e piani, appoggi, proprio come la montagna). Ritorna la pioggia, l'alba (stavolta scesa alle caviglie), la rima "luce-seduce", la tautologia centrale su luce-buio e infine quella visione di pensilina, in una stazione, immobile per definizione, che invece vola via con un piccione, in quell'inversione ottica che dev'essere stata la scena che l’ha generata:

tu parti e piove: usciamo presto
con l'alba alle caviglie in questo odore
di cuore calpestato. Io guido e tu hai
addosso la barba e la tenerezza del sonno
la luce finge di non vederlo e ti
seduce. È facile per lei amarti solo perché
al buio non esiste. Tu parti, il treno
si allontana e il temporale si avvicina
la pensilina è una pista d'aereo
la stazione è già volata via come un piccione
a cui ho dato un panino e un bacio

Un’altra poesia, intitolata come il lago, Erdemolo, introduce al paesaggio di Maddalena Bertolini, nel quale l'uomo, con le forme della roccia e dell'acqua, compare quasi sempre (una situazione ravvisabile in più testi), in un passo-paesaggio che ha echi montaliani (il lago, il ghiaccio, un pesce come il resistente salmerino) eppure privo di evidenti montalismi:

il sentiero si asciuga appeso
alle cime del lago. Giugno ha ritirato
le lenzuola della neve, si scoprono
i denti del porfido i suoi morsi
rimasti nel prato e le risate del ghiaccio
dentro l'acqua. Ora sono salvata
qui sono caduta, scivolata nel canalino
come un salmerino presa all'amo
della misericordia, viva vedi
ancora mi dibatto

Nei suoi testi sono felici le incursioni dei mesi, coi loro nomi. Succede anche nell’attacco di una poesia che dice: “è semplice settembre viene / come l’altro lato dell’esistere / le sere sempre più vicine le notti / fredde le finestre chiuse. […]”. Mi fermo. Resisto alla tentazione di riportare troppi testi. Care lettrici e cari lettori di queste righe, credo sia questa una poesia meritevole di tutta la vostra educata attenzione. Educata, sì, come voleva Simone Weil, la quale definiva con efficacia e brevità disarmante una parola sempre più difficile e talvolta fastidiosa, cultura, come "educazione dell'attenzione". Stavolta non c'entrano ormai sfibrate linee lombarde o la scalcinata cerchia romana, pensate piuttosto a un diedro di montagna, alle rime e alabarde di questi ritmi suonati da Pergine Valsugana.

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Si va verso Pasqua, tema poetico, meteorologico-astronomico importante, fosse anche soltanto per Zanzotto. Allora qui l'ultima, davvero, per salutare.


pasqua al vento

senti il paese sbattuto dal vento com'è
contento: i muri si gonfiano, i camini si ergono
le tegole rizzano il pelo e si sgolano
dimmi se non viene voglia di ridere
con tutti i capelli e i cappotti adesso
che l'annuncio è così limpido che
il sole è netto e alto che tutto
il tuo desiderio piantato nel petto
è arieggiato asciugato con le radici
così forti così felici di esserci



giovedì 21 marzo 2013

"Kafka" di Klaus Wagenbach e la collana "i Gabbiani" de Il Saggiatore. Per Anita Klinz (1925-2013)

©overtures #1. Il pretesto per divagare tra copertine, grafica editoriale e storie di libri
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Ecco una nuova "rubrica", altrimenti mi annoio e magari annoio anche i miei gentili lettori. E scelgo un argomento forse fuori moda, cioè quello della veste grafica del libro. Lo scelgo volutamente, in tempi di presunta "smaterializzazione" del libro. E per convincervi che non è "nostalgia" dei bei tempi andati dell'editoria, di quando esisteva ancora il correttore di bozze (beh, quello in qualche modo sarà bene che ritorni!), faccio partire questa rubrica proprio quando conduco i primi timidi approcci al mio e-reader (gli uffici stampa hanno iniziato a mandare le copie saggio in formato pdf o epub per contenere i costi e inoltre, a volte, certi testi interessanti si trovano soltanto in formati digitali. Quesito: il libro breve si presta più di altri al formato elettronico?). 
Ho l'impressione che questa fase di grande cambiamento (non solo dell'editoria) abbia bisogno di confrontarsi anche con quegli aspetti salienti che hanno reso il libro, attraverso i secoli, l'oggetto singolare che conosciamo. Forse uno dei problemi dell'ebook è già insito nel suo nome: se lo definiamo a partire da libro/book, forse non lo capiremo mai e lui stesso rimarrà imbrigliato in un nome sbagliato, profondamente sbagliato. Stanno mutando le forme di lettura e scrittura e anche la posizione del libro nella mappa di trasmissione dei saperi (preferisco parlare di sapere e non di cultura/e). Non nego la realtà (ora anche commerciale) dell'ebook, ma in sostanza affermo che ebook mi pare un nome provvisorio, ectoplasmatico, per qualcosa che non ha ancora deciso come chiamarsi e che non ha un nome migliore. Magari la parola book al suo interno rimarrà, ma allora tra tanti anni lo leggeremo come un segno nuovo, qualcosa di slegato alle sue origini (rinvio anche ad una risposta che diede Matteo Codignola di Adelphi in una sua intervista per questo blog).
Ripercorrendo le vesti di collane vecchie e nuove proverò a segnalare copertine e progetti grafici disparati, le vicende di designer famosi che hanno prestato il loro occhio all'editoria. E naturalmente parlare di una copertina diventerà il pretesto per accennare brevemente al libro breve in questione o ad altri volumi, alla collana che li ospita o ha ospitati, agli autori o alle diverse edizioni di un titolo specifico. Insomma, un pretesto per divagare nella storia dell'editoria recente. 
Parto con un testo della collana "I Gabbiani", progettata graficamente da Anita Klinz, morta lo scorso 10 marzo.
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Recita il catalogo storico dell'editore Il Saggiatore, consultabile da tutti online (esperienza istruttiva che consiglio se volete perdere cinque minuti):

Identificativo 47507
Titolo Kafka / Klaus Wagenbach ; traduzione di Ervino Pocar
Editore Milano : il Saggiatore
Pubblicazione 1968
Descrizione fisica 169 p. ; 19 cm
Collana I Gabbiani, 67
Autore Wagenbach, Klaus (Autore) ; Pocar, Ervino (Traduttore)
traduzione di
Kafka / Klaus Wagenbach

Fa quasi impressione la grafica della collana "i Gabbiani" (Una repubblica partigiana di Giorgio Bocca tra i titoli più noti). Forse la cosa più impressionante è il prezzo, posto in copertina e con corpo di poco inferiore al resto delle informazioni. C'è tutto: nome dell'autore, titolo, sottotitolo, denominazione di collana, prezzo ed editore. Addirittura ogni riga di separazione corrisponde idealmente al riempimento di un campo di catalogo bibliografico: una copertina "biblioteconomica"! Un progetto grafico simile l'ho riscontrato anche nei libri di poesia di Lerici degli anni Sessanta. Sembra rimandare alle origini della professione tipografica, all'impostazione di un'idea grafica verbo-visiva.


Un titolo "profetico"
di Urania?
Ne ho già parlato nel caso di Penguin e della collana Great Series. Personalmente trovo le copertine che lavorano esclusivamente attorno alla tipografia e al lettering molto affascinanti. Anita Klinz, originaria di Abbazia (oggi Opatija, in Croazia, dov'era nata nel 1925), è morta lo scorso 10 marzo all'eta di 87 anni; è stata una delle figure di rilievo della grafica editoriale in Italia. Ha lavorato per Il Saggiatore, Mondadori (nel caso di Urania, date un occhio alla copertina qui accanto! Celebre l'oblò lunare, un cerchio, introdotto dalla Klinz in omaggio forse a principi bauhausiani e curioso il fatto che arrivi nel 1962, lo stesso anno delle righe rosse di Bruno Munari per la NUE Einaudi), ma anche per riviste come "Epoca". Un nome da porre accanto ai vari Albe Steiner, Bob Noorda, Bruno Munari, Enzo Mari, John Alcorn, Oreste Molina per arrivare a Bruno Binosi, Massimo Vignelli, Fulvio Bianconi, Riccardo Falcinelli, Maurizio Ceccato e Fabrizio ConfalonieriLa perla della collana, sfilata per questa prima puntata, è il volume di Klaus Wagenbach. Un volume del 1968 che forse è stato ispiratore di altre scelte editoriali attorno a questo "kafkista". Nel 1972 Einaudi pubblica infatti Kafka. Una biografia della giovinezza 1883-1912. Nel 1983 Adelphi manda in libreria, nella traduzione di Renata Colorni, il libro illustrato Kafka. Immagini della sua vita. Poco prima, la traduzione di Pocar era uscita anche nel catalogo Oscar Mondadori. Nel 1996 Feltrinelli pubblica Due passi per Praga insieme a Kafka. Non sono infrequenti queste permeabilità tra cataloghi editoriali: è un meccanismo assai normale, è banalmente il mercato di titoli e di autori. In fondo, per fare un esempio, il catalogo editoriale per antonomasia, direi quasi "Der Katalog" in omaggio agli editori tedeschi a cui si è sempre ispirato Roberto Calasso di Adelphi (proprio in questi giorni in libreria con un tempestivo L'impronta dell'editore, di cui ho già pregustato alcune pagine lucide e appassionate), pubblica e fa proprio Montale, per la prima e finora unica volta, con i Mottetti curati da Dante Isella. Correva l'anno 1988 e si chiudeva così una ghirlanda-omaggio che riconduceva dritta al triestino Roberto Bazlen. Oggi pochi forse ricordano che quello scorporo da Le occasioni curato da Isella era uscito prima, proprio per Il Saggiatore, nel 1980 e poi ancora nel 1982 (ricordo che il poeta muore il 12 settembre 1981), per poi approdare nel catalogo Adelphi nel 1988.

mercoledì 20 marzo 2013

"La poesia del giovedì" per la Giornata mondiale della poesia

L'appuntamento della rassegna veneziana curata da Maddalena Lotter e Giulia Rusconi coincide stavolta con la Giornata mondiale della poesia. Ecco il programma, assai più ricco per l'occasione...


Giovedì 21 marzo 2013
Osteria da Filo, Venezia, h. 18:00
Presentazione e reading di 
Alessandro Canzian, Roberta Durante e Giovanna Frene
Alla chitarra e alla tromba
Ulisse Fiolo e Duccio De Rossi
info: portalepoesie@gmail.com

In occasione della Giornata Mondiale della Poesia si festeggia con Alessandro Canzian, Roberta Durante e Giovanna Frene. Laura Callegaro esporrà il suo lavoro fotografico TomboyL'Osteria da Filo, che ospita la rassegna, preparerà un rinfresco per brindare, alla fine, con i poeti. Per l'occasione singolare, anche le curatrici della rassegna leggeranno loro poesie.


Alessandro Canzian. Nato il 5.09.1977 a Pordenone, vive a Fanna (PN) dove gestisce la Samuele Editore. Ha pubblicato i volumi di versi “Canzoniere inutile” (Samuele ed., Fanna 2010) Christabel (ed. Del Leone, Spinea 2002), La sera, la serra (tip. Mazzoli, Maniago 2004), il libro fotopoetico Distanze (ass. Terra d’Ulivi, Lecce 2007) e il saggio sulla poesia di Claudia Ruggeri Oppure mi sarei fatta altissima (ass. Terra d’Ulivi, Lecce 2007). È inoltre presente nelle antologie Le poesie stuzzicano l'appetito (Progetto Giovani, Spilimbergo 2001) e Poetica&Mente nella sezione Giovani scritture in Friuli_VG 2004 (C.d.s.a espressione est, Udine 2005). Nel 2010 ha curato insieme a Roberto Cescon, Federico Rossignoli, Piero Simon Ostan e Enzo Comin l’evento festa di Poesia 2010 di Pordenone. Cura il blog http://alessandrocanzian.leonardo.it/blog.



Roberta Durante. Nata a Treviso nel 1989, ha vissuto a Venezia qualche anno per studiare Arti Visive e dello Spettacolo presso la facoltà di Architettura . Ha disegnato cartoni animati e scritto articoli per dei magazine online. Con la raccolta Girini vince la VI edizione del premio Mazzacurati-Russo pubblicando il libro nel 2012 (Edizioni d'if).



Giovanna Frene. Nata a Asolo nel 1968, vive tra Crespano del Grappa (TV) e Padova. Diplomata in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia, è laureata in Lettere all’Università di Padova; si è poi addottorata in Storia della Lingua, sotto la guida di P.V. Mengaldo. Ha pubblicato Immagine di voce, Facchin 1999; Spostamento - Poemetto per la memoria, Lietocolle 2000; Datità, postfazione di A. Zanzotto, Manni 2001; Stato apparente (Immagine di voce e l’inedito Triade 1990), Lietocolle 2004; Sara Laughs, D’If 2007; Il noto, il nuovo, prefazione di P. Zublena, postfazione di S. De March, fotografie di L. Callegaro, traduzione inglese di J. Scappettone e J. Calahan, Transeuropa 2011; e, con lo pseudonimo di Federica Marte, il prosimetro Orfeo è morto, Lietocolle 2002. Ha pubblicato poesie in diverse riviste italiane e straniere. È inclusa in varie antologie poetiche, tra cui Parola Plurale, Sossella 2005; Nuovi poeti italiani, a cura di P. Zublena, «Nuova Corrente» n. 135, 2005; Poeti degli Anni Zero, a cura di V. Ostuni, Ponte alle Grazie, 2011; Nuovi poeti italiani 6, a cura di G. Rosadini, Einaudi 2012. 

lunedì 18 marzo 2013

Walter Siti e "Il realismo è l'impossibile"

Ben venga un nuovo contributo critico su quella parola-chiave della letteratura che è "realismo". E tanto più se a scriverlo è una figura emblematica per la storia di questo "lemma", qual è Walter Siti, il quale già in passato aveva disseminato la parola in titoli di altri suoi studi, come in Il neorealismo nella poesia italiana (1941-1956) del 1980 o Il realismo dell'avanguardia del 1973. Ora Nottetempo manda in libreria nella collana "gransassi" un libretto smilzo dal titolo Il realismo è l'impossibile (pp. 81, euro 6) che affonda la sua origine in un contributo recente al Festival della Mente di Sarzana. Dico smilzo perché il tema è solitamente uno di quelli che fanno versare fiumi e fiumi di inchiostro, basti pensare al monumentale e imprescindibile Mimesis di Auerbach o alle non meno abbondanti dissertazioni d'area marxista che solitamente si coagulano attorno alla pietra miliare di Lukács. Nella mia storia, il realismo mi fa ripiombare ai primi approcci, timidi e faticosi, coi romanzi di Pasolini, del quale il nostro è oggi il più noto studioso. E ho ricordi di un certo insistere sul "particolare", sul "dettaglio" in ogni discussione che rinvii al realismo. Così avviene anche in Siti, ad esempio quando scrive di realismo come antiabitudine o "leggero strappo, il particolare inaspettato, che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale", laddove "la nostra enciclopedia percettiva non fa in tempo ad accorrere per normalizzare".

Ma procedo con ordine e cerco di essere, pure io, breve. Il titolo del saggio subito mette in guardia dalla grande vulgata che porta fino all'oggi. Il realismo non è quello che a tutti, anche ai più esperti, potrebbe venire in mente quando pronunciamo quella parola. Non è una riproposizione fedele della realtà. Dopo tanti studi sul realismo, Siti arriva persino a formulare una definizione sintetica che vede nel realismo "quella postura verbale o iconica (talvolta casuale, talvolta ottenuta a forza di tecnica) che coglie impreparata la realtà, o ci coglie impreparati di fronte alla realtà". La realtà ci supera e sorprende sempre, occupa uno spazio profondamente diverso da quello che è dato alla letteratura e all'invenzione. Soprattutto la "realtà", e con essa la vita, è densa e il mondo della fiction è sempre il risultato di una selezione. Sempre nelle prime, galoppanti battute di questo saggio si legge anche del realismo come "una forma di innamoramento", una sorta di accumulo che "secolarizza il mondo solo per re-incantarlo". Sono punti importanti, che segnano il passo necessariamente puntiforme di questo saggio che allontana definitivamente il realismo dalle forme più comuni di pensiero che lo hanno attorniato e imbrigliato. Realismo non è il racconto verosimile, credibile, rispecchiante, oggettivo. Questo è un saggio che si può benissimo raccomandare ai più disparati livelli, da chi si affaccia per la prima volta a simili temi a chi li ha masticati per una vita e mezza, magari dopo una lettura di Zola. Niente di più fecondo del "realismo" che emerge dal Chisciotte di Cervantes, pare affermare talvolta Siti, o almeno così pensavo andando con la mente al saggio di Schütz sul problema della costituzione intersoggettiva della "realtà" (parola virgolettata per antonomasia, secondo Nabokov). Senza considerare poi che alla luce di queste pagine si potrebbe benissimo dare il giusto peso e il giusto volume (e sarebbero un peso assai piccolo e un volume impalpabile) alla nuova ondata di pseudoletteratura apparsa su determinati temi caldi e "sociali" degli ultimi anni (e non oso nemmeno immaginare quello che il futuro ci riserverà!). Ed è per questo che il realismo lavora negli interstizi, sul dettaglio, per dare voce alla realtà in un modo che non è riconducibile alla facile similitudine con lo specchio. Queste poche pagine, pur aperte ed evocative nelle definizioni riportate, riescono comunque a ricondurre realtà e letteratura dentro binari definiti. Se fiction è, fiction allora rimane (interessanti gli sviluppi kitsch che si intravedono in un presunto realismo-quotidianizzazione televisiva di maniera, tipica appunto della fiction, l'altra fiction, il primo significato di "fiction" che forse dovrebbe registrare oggi un dizionario, almeno in quando ad uso qui nel nostro paese). La realtà non può essere afferrata e catturata dall'arte. La letteratura e l'arte possono illuminare determinati aspetti della realtà, ma il problema non è il livello di precisione e approssimazione. Il vero problema diviene forse allora un altro, e magari più ingombrante: come accade e si sviluppa quel patto e compromesso di senso e sensi che definiamo realtà?

Tra i tanti esempi-punti menzionati da Siti ne isolo uno soltanto che riguarda Etty Hillesum, la quale "rinchiusa nel lager, non si degna di odiare i tedeschi, anzi ci offre una descrizione spiazzante parlando della bellezza del lager: "quella baracca talvolta, al chiaro di luna, fatta d'argento e d'eternità, come un giocattolino sfuggito alla mano distratta di Dio". Lirismo in fuga ma anche paradossale realismo di un attimo, perché lei c'era (e io no)."

Mi auguro soltanto una cosa, cioè che queste distinzioni e questo riflettere attorno al realismo non appaia mai lezioso, visto che parliamo delle riflessioni e delle distinzioni su cui l'umanità giustamente si affanna da (Platone e) Aristotele in poi. Sono distinzioni importanti, che riconducono dritte a quel difficile ma fondamentale esercizio di vita che è l'equilibrio o l'equidistanza tra verità e menzogna e quindi, neanche tanto indirettamente, all'etica. Il realismo è magico, e non tanto in un senso bontempelliano, ma perché crea un inganno e, come ha scritto Siti stesso, "dona a chi guarda il piacere di ingannarsi". Ogni autore compie delle scelte, sottrae, aggiunge, moltiplica o divide e poi lavora sulle alleanze tra i sensi. In fondo nemmeno gli specchi si limitano a rispecchiare o a "riflettere" la realtà, bensì la deformano, invertono destra e sinistra, lavorando sulla chiralità dei corpi, sul volume, sia su quello spaziale (togliendo una dimensione), sia che su quello audio (azzerandolo del tutto). Eppure, scrisse un tale di una certa Alice Through the Looking-Glass...

giovedì 14 marzo 2013

PaesAgire 2013 e l'anteprima de "La notte della poesia": una lettura da "Pertiche" a Pieve di Soligo

Ho ricevuto un invito a leggere dal mio libro Pertiche (2012, La Vita Felice) nell'ambito della serata d'anteprima della rassegna "PaesAgire". Ringrazio gli organizzatori, mi fa molto piacere (e un po' di timore) leggere a Pieve di Soligo, in una rassegna il cui nome prende spunto da un verbo che fu creazione zanzottiana ("Ho paesaggito molto", disse più volte Zanzotto). La rassegna, tra le altre cose, si è recentemente occupata anche di un luogo che mi sta a cuore: il Passo Barca a Falzè di Piave. La serata del prossimo venerdì 22 marzo avrà come scopo l'illustrazione dell'idea progettuale de "La notte della poesia", che si terrà a Pieve di Soligo ad inizio estate, una notte di quasi solstizio in cui anche le palpebre più pesanti potranno provare a rimanere aperte un po' più del solito...


Venerdì 22 marzo
Auditorium Battistella Moccia
Pieve di Soligo
ore 20.45
Aspettando la notte

VISIONI
- Clip da Poetry Festival 
(Conegliano, 1996)
- Video montaggio (17’) da La notte della poesia 
(Pieve di Soligo, 5 dicembre 2012)

ANTEPRIMA
- Presentazione dell’idea progettuale 
de La notte della poesia (Pieve di Soligo, 22 giugno 2013)

Reading di Alberto Cellotto
con la partecipazione di
Michelangelo Dalto, direttore artistico di PaesAgire
Carlo De Poi, attore e regista del Collettivo di Ricerca Teatrale
Nicola Sergio Stefani, assessore alla cultura del Comune di Pieve di Soligo


Il Piave a Falzè in novembre
(foto Alberto Cellotto)
Altre informazioni (in progress) sulla rassegna a questo indirizzo.

martedì 12 marzo 2013

La poesia di John Taggart. "Car Museum" nella traduzione di Cristina Babino

Librobreve intervista #12 / Una poesia da #20



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L'intervista che segue è, ad esempio, uno dei motivi che mi fa tenere accesa la fiammella di un blog simile. Se aver creato questo spazio significa oggi lasciare spazio a una pluralità di esperienze e non a un narcisismo-da-social-network fine a se stesso allora sono contento. E sono quindi felice di ospitare Cristina Babino, marchigiana, residente in Francia ad Antibes. Qualcuno forse l'avrà incrociata per La donna d'oro, il suo libro del 2008 uscito da peQuod, laddove affrontava il percorso artistico di Tamara de Lempicka. Ora la ritroviamo in veste di traduttrice di un poeta misteriosamente mai "volto" in Italiano: John Taggart. Buona lettura dell'intervista e dell'assaggio di poesia riportato in fondo. Cristina Babino cura il blog La cugina Argia dove potrete trovare informazioni più diffuse sulle sue attività.
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LB: Come nasce l'idea di tradurre Taggart e concretamente come si sviluppa la collaborazione con le edizioni L'Arca Felice per la plaquette che è uscita?
RISPOSTA: Avevo già tradotto, qualche anno fa, alcuni testi di John Taggart, pubblicati poi sulla rivista Le Voci della Luna. All’epoca le poesie di John non erano mai state tradotte in italiano, e il mio voleva essere proprio un modo per iniziare a colmare una notevole mancanza e contribuire a introdurre la conoscenza della sua opera nel nostro Paese. La collaborazione con l’Arca Felice è nata attraverso una comunicazione via mail in cui mi si informava della nascita, in seno a questo editore, di una nuova collana di plaquette di arte-poesia curata da Mario Fresa e chiamata Hermes (poeti tradotti da poeti). Ho colto l’occasione e ho contattato Fresa per proporgli una breve suite dal titolo Car Museum, estratta da uno dei libri più recenti di John Taggart, Pastorelles, uscito negli Stati Uniti nel 2004. Devo ringraziare Mario Fresa per la sua lungimiranza e l’editore Arca Felice per la grande apertura e disponibilità, dimostrandosi aperti a pubblicare - senza conoscermi personalmente e solo attraverso la mia presentazione e il mio lavoro di traduzione - un autore che, nonostante sia uno dei più importanti e influenti poeti americani viventi, è ancora praticamente sconosciuto in Italia. Ne è nato un bellissimo oggetto d’arte, piccolo ma prezioso ed estremamente curato, arricchito da una fotografia fuori testo di Jennifer Taggart, moglie di John e grande fotografa. A tutt’oggi le mie traduzioni da Taggart restano le uniche presenti in Italia. Cosa che continua a lasciarmi molto stupita, data la mole, a livello sia di qualità che di quantità, della sua produzione poetica, ma anche critica e saggistica.

Pastorelles, 2004
LB: Quali sono le principali difficoltà e insidie di traduzione di una poesia apparentemente semplice e limpida?
RISPOSTA: La poesia di Taggart può talvolta risultare ad una prima lettura relativamente “semplice” e diretta, specie le sue opere più recenti; in realtà la sua scrittura è tutt’altro che “facile” ed è stata profondamente influenzata dall’opera e dal pensiero di poeti Oggettivisti quali Louis ZukofskY e George Oppen, cui del resto Taggart ha dedicato in ambito accademico una lunga serie di saggi critici. Tutto quello che in Taggart può sembrare oggi un verseggio di fruizione tutto sommato immediata è in realtà frutto di un percorso stilistico coraggioso ed eccentrico, oltre che di una lunga meditazione teorica e di una progressiva statificazione di senso che può essere scoperta e apprezzata in pieno soltanto lettura dopo lettura, tali e tanti sono i rimandi – quando non le citazioni dirette - alla musica, alla letteratura, all’arte visiva, solo per citare i campi in cui il poeta si muove con più disinvoltura. Anche un testo come Car Museum appare abbastanza chiaro e diretto (nonostante contenga anch’esso delle citazioni nascoste): in effetti esso è tratto dal volume Pastorelles, del 2004, che segna in un certo senso un’inversione di tendenza nella produzione di Taggart, caratterizzata sino all’uscita di questa raccolta da un ricorso prepotente e costante allo strumento della ripetizione e da un’attenzione quasi maniacale alla resa sonora della parola scritta, alla sua intrinseca valenza “musicale”. Pastorelles è il risultato del tentativo di Taggart di uscire in qualche modo dalla logica della ripetizione come cifra stilistica, quasi una “firma” immediatamente riconoscibile, per tentare una nuova strada che non fosse quella sicura e dominata con sicurezza fino a quel momento (una scelta che gli ha valso anche critiche e resistenze). Per questo la scrittura di Pastorelles può essere percepita come maggiormente “familiare” all’orecchio di un lettore rispetto alle sue opere precedenti, che non di rado posso risultare persino ostiche e di lettura faticosa (penso ad esempio a certi suoi esiti degli Anni Settanta). Pastorelles unisce questa precisa volontà di rinnovamento poetico alla necessità di raccontare in versi l’esperienza della vita nella campagna della Cumberland Valley, in Pennsylvania, terra di Amish e di tradizioni antiche e radicatissime, dove da diversi anni Taggart si è stabilito. La maggiore “familiarità ” dei testi riuniti in questa raccolta mi ha spinto a sceglierli per avvicinarmi all’opera di traduzione di un autore poco o per nulla conosciuto in Italia. Le difficoltà comunque mancano, proprio per la qualità essenzialmente musicale della versificazione di Taggart: difficilissimo, se non impossibile, riprodurre in una lingua altra la ricerca di sonorità dell’originale, la sua attenzione all’indissolubilità del nodo suono/senso, mantenendo però anche una salda fedeltà al significato delle parole scelte. Un equilibrio ben difficile da conservare, che costringe spesso a privilegiare un aspetto sull’altro, cercando comunque il più possibile di non allontanarsi troppo dalle intenzioni originarie dell’autore.

Steve Reich
LB: Potresti illustrare brevemente i legami di Taggart con le altre arti, con particolare riferimento alla musica e alla pittura?
RISPOSTA: L’antologia ricapitolativa della sua opera , uscita recentemente negli USA, s’intitola Is Music: in effetti la poesia di Taggart non è semplicemente “musicale” o attenta alle sonorità, la poesia di Taggart è essa stessa “musica”, come già disse George Oppen a questo proposito. Ogni sua parola anzi, specie quando viene ripetuta - spesso fino all’ossessività nei suoi testi più datati – viene scelta cercando di ricreare attraverso la scrittura poetica certi andamenti del jazz - genere amatissimo e frequentato da Taggart in ogni sua espressione - la ripetitività appunto legata all’improvvisazione, o ancora le battute sincopate e frante del Rhythm and Blues. Non è un caso del resto che in molti dei suoi libri un’avvertenza dell’autore indichi che il lettore potrà godere maggiormente dei testi se letti a voce alta. L’importanza fondante del suono, dell’oralità, la qualità perfino ri-creativa della lettura operata sulla pagina scritta è uno delle componenti essenzali per comprendere e apprezzare a fondo la poetica di Taggart. La ripetizione, nelle intenzioni dichiarate di Taggart, è funzionale al lettore per penetrare in profondità nel testo, obbligandolo a indugiare sulle singole parole, assaporandone le peculiari sonorità, riscoprendone a ogni respiro la commistione profondissima tra suono e significato. La lettura ad alta voce coinvolge il lettore in modo molto più completo, lo rende maggiormente partecipe dell’esperienza poetica rispetto alla semplice lettura silenziosa: se la voce è qualcosa di interiore che esce da un luogo interno (il corpo) e che, attraverso un mezzo esteriore (l’aria, lo spazio) entra in un’altra interiorità (l’orecchio e la mente del ricevente), l’uso della ripetizione - che non è mai un mero ripetere le stesse parole, ma piuttosto un procedimento progressivo di additive rhythm, rintracciabile anche nelle composizioni di musicisti quali Philip Glass e Steve Reich, come anche nell’opera dell’amatissimo jazzista John Coltrane - favorisce questo processo, aiutando a cristallizzare nella mente i gangli di senso/suono costituiti dalle parole sapientemente scelte dal poeta.
Se poi l’intera sua produzione è attraversata da innumerevoli riferimenti trans-disciplinari (non a caso Taggart è stato a lungo direttore del Dipartimento di Studi Interdisciplinari alla Shippenburg University), che spaziano dalla filosofia alla botanica, dalla vita rurale al greco antico, dal cinema alla musica classica, dai testi biblici (il padre di Taggart era un pastore protestante) alla letteratura americana, è nelle arti visive – insieme all’imprescindibile musica jazz – che Taggart trova spesso il terreno più fertile per la sua ispirazione. Penso alla recente serie di testi ispirati agli Angeli di Kitaj, o alla sua lettura critica della luce nelle tele di Edward Hopper, ma soprattutto all’opera di Mark Rothko, profondamente amata da Taggart, tanto da aver passato un’intera settimana all’interno della Rothko Chapel a Houston, Texas, per studiare le quattordici grandi tele dell’artista lì custodite. Da questa intensa esperienza di studio e meditazione è scaturita quello che è forse il testo più noto di Taggart, The Rothko Chapel Poem (pubblicato nella raccolta Loop del 1991). All’artista di origini russe Taggart aveva già dedicato Slow Song for Mark Rothko (contenuto nel volume Peace on Earth del 1981). In entrambe le composizioni è evidente come l’uso massiccio ma sempre controllato della ripetizione tenda a ricreare attraverso la parola la stratificazione tipica delle tele di Rothko, la sovrapposizione di più livelli di colore (tanto che in Rothko il concetto stesso di astrazione viene superato, per diventare pittura “d’espressione”, sfuggente a qualsiasi classificazione). Come la pittura a strati di Rothko attrae l’occhio dell’osservatore e lo trascina nelle profondità più nascoste del colore sulla tela, così la ripetizione è funzionale a Taggart per conseguire lo stesso risultato, traducendo per mezzo della parola la medesima ricerca di coinvolgimento e com-partecipazione dell’altro nel processo di comunicazione artistica e poetica.

Monsanto, Portogallo
(foto dal blog di Cristina Babino)
LB: Hai potuto confrontarti direttamente con l'autore? Serve sempre questo confronto o talvolta porta anche a dei nulla di fatto?
RISPOSTA: Ho conosciuto John Taggart nel 2007, in occasione dell’International Meeting of Poets organizzato con cadenza triennale dal Dipartimento di Studi Anglo-Americani dell’Università di Coimbra, in Portogallo.  Un’esperienza per me fondamentale, che mi ha permesso di conoscere e confrontarmi con poeti provenienti da ogni parte del mondo, più o meno affermati e con alle spalle pubblicazioni più o meno numerose. E’ stato un incontro profondamente arricchente per me, che mi ha permesso di consolidare la mia conoscenza del panorama della poesia contemporanea internazionale e soprattutto di instaurare rapporti di amicizia con alcuni dei poeti partecipanti, rapporti che nel tempo si sono consolidati e hanno portato a diverse collaborazioni. In particolare, per una questione di “affinità elettive” e sicuramente anche per una questione di lingua, ho stretto rapporti con Jonathan Morley, uno dei maggiori poeti inglesi della nuova generazione, e appunto con John Taggart. Insieme a John, l’anno successivo, nel 2008, ho la fortuna di passare un mese intero di contatto quotidiano, in occasione della nostra comune partecipazione a un programma di Poets in Residence, organizzato sempre dall’Università di Coimbra. Ad eccezione della settimana passata a Coimbra per le nostre letture e seminari al Dipartimento di Studi Anglo-Americani, per il resto del tempo abbiamo alloggiato in una casa in pietra a due piani in uno sperduto e bellissimo paese del Portogallo profondo, Monsanto, al confine con la Spagna. Era inverno e, per quanto il posto fosse affascinante e unico, non si poteva fare altro se non passeggiare in quello splendido paesaggio montano-rurale (tempo permettendo), leggere o scrivere, e chiacchierare. John è un affabulatore piacevolissimo e instancabile, una miniera di storie ed esperienze, quindi le nostre lunghe chiacchierate sono state una delle cose che ricordo con più piacere di quella esperienza.
Direi che nel mio caso il rapporto diretto e l’amicizia con l’autore siano stati fondamentali. Anzi, considerando proprio la complessità della sua opera, se non avessi avuto modo di conoscere personalmente John e di avvicinarmi alla sua poesia di prima mano non mi sarei probabilmente avventurata sul sentiero della traduzione. Che è sempre un terreno accidentato, e nasconde insidie ad ogni verso, specie quando si tratta di una poesia stratificata e complessa come la sua. Potermi confrontare direttamente con l’autore mi permette però di fugare qualsiasi dubbio io abbia sui testi e di soddisfare qualsiasi curiosità riguardo la sua produzione o la sua biografia.

Rachel Blau DuPlessis
LB: Immagino che tu sia una sostenitrice di una proposizione più massiccia e allargata dell'opera di Taggart. Se sì, per quali motivi? Vedi degli spiragli editoriali significativi?
RISPOSTA: Senza dubbio. Per la rilevanza e la mole della sua opera poetica - dagli Anni Settanta ad oggi ha pubblicato una quindicina libri di poesia, oltre a una serie sterminata di saggi e contributi critici - per l’impotanza della sua carriera accademica e per l’influenza che ha esercitato ed esercita sulle ultime generazioni di poeti americani, in Italia Taggart dovrebbe essere ospitato nelle collane di poesia contemporanea dei grandi editori già da un pezzo. Purtroppo non è ancora così. Ma nel mio piccolo sto facendo del mio meglio per far conoscere la sua poesia nel nostro Paese. L’interesse che ha suscitato la pubblicazione di Car Museum ha portato a una nuova collaborazione con la casa editrice Vydia di Macerata. Grazie ad Alessandro Seri, che ne è il direttore editoriale e cura la nuova collana di poesia Licenze – per la quale è appena uscita, con l’ottima traduzione di Renata Morresi, il volume Dieci Bozze della poetessa americana Rachel Blau DuPlessis (anche questa una prima assoluta in Italia) - abbiamo in programma per la fine di quest’anno di pubblicare l’intera raccolta Pastorelles in traduzione italiana con testo originale a fronte. Dopo il piccolo ma significativo “l’esperimento” riuscito grazie ad Arca Felice, considero questa prossima pubblicazione con Vydia un risultato veramente importante, che va finalmente a colmare, con la prima traduzione integrale di un’opera di John Taggart, una grave lacuna nella diffusione della poesia straniera contemporanea in Italia.

Il testo tratto da Car Museum qui di seguito riprodotto è stato pubblicato dalle Edizioni L'Arca Felice nella plaquette di arte - poesia John Taggart, Car Museum, cura e traduzione di Cristina Babino, all'interno della collana Hermes curata da Mario Fresa, Salerno, 2012. (Mi scuso per la dimensione della font rimpicciolita con cui riporto i testi seguenti, ma tale espediente mi consente di garantire gli a capo, perlomeno in schermi di medie dimensioni. Le tecnologie fluide di visualizzazione odierne infatti decidono da sole gli a capo. L'alternativa era usare le barre  per separare i versi. Un bel problema per il futuro della poesia a schermo: che Ungaretti avesse già previsto tutto?)



1


Queste sono le automobili
Auburn e Cord e Duesenberg
rare
macchine di rara eleganza
e questo è il ritorno a casa in Indiana
raro
inspiegabile
museo già sala d’esposizione e fabbrica centrale
su una strada di provincia come le strade
dove sono cresciuto vagabondo fuggitivo e giovane gentiluomo ribelle dall’Indiana
da città di provincia come questa città
o da interruzioni o da piccole interruzioni nei campi
monotonia dei campi
non ricordavo quest’intollerabile monotonia.

2

Auburn 852 Speedster color mela candita
la griglia a forma di scudo leggermente reclinata all’indietro non lo scudo di Achille
reclinata all’indietro nella lunga linea pianeggiante del cofano
tubi di scappamento cromati
sporgono da ciascun lato
del cofano
spazio solo per due dietro la griglia il cofano i tubi di scappamento
Cord 810 Beverly Sedan color uva
fari nascosti
in parafanghi curvati a s sporgenti
dal corpo inclinato curvato aerodinamico voluttuosamente aerodinamico
Duesenberg J Murphy Torpedo Decappottabile Coupé nera
parte improvvisamente
minima
poppa improvvisamente appuntita
torpediniera nera che lascia una minima percettibile scia
nel mare dell’amore o strada di campagna quando scende la sera.


3


Senza memoria non c’è protezione

dalla monotonia di tutti i campi innegabile imprevista
insopportabile
non più un bambino o ragazzo
da un altrove che doveva andare altrove doveva e
deve
via dai campi
inspiegabile in nessun
capitolo tra i capitoli in carta lucida di arti e idee
L’Indiana si può spiegare
le automobili no
forse l’eleganza non si può mai spiegare
il bambino o ragazzo non poteva sapere di automobili non se ne trovavano per le strade allora
forse la ribellione è l’inconsapevole ricerca dell’eleganza.


Mark Rothko, 1950
Chiudiamo con alcuni link, per chi volesse approfondire e fosse rimasto incuriosito da questo poeta il cui lavoro rimanda continuamente anche ai quadri, per me davvero struggenti, di Mark Rothko (ho finalmente deciso che l'aggettivo "struggente" nel mio vocabolario si può applicare solo alla sua pittura):
- un link da dove si può vedere un'anteprima di Is Music, una delle principali raccolte ordinabili anche in Italia;
- qui trovate invece un archivio di mp3 con poesie e altri materiali recitati dallo stesso Taggart;
- e per concludere, come mi capita a volte, una segnalazione video di un Taggart che legge all'Università di Berkeley (a partire dalla mezz'ora circa, il video è molto lungo).