domenica 29 settembre 2013

da "Trasfusione" di Ghiannis Ritsos

Una poesia da #23

Ho rare frequentazioni con la poesia neogreca del Novecento. Ho letto alcune cose di Kavafis, persino regalato suoi libri, ma davvero non sono riuscito a fermarmi su molti suoi testi. Forse l'ho letto troppo presto, o troppo tardi. Forse, semplicemente, non mi piace Kavafis. Non so cosa farci e forse non è nemmeno così grave. Molto di più invece mi ha coinvolto la lettura di Odisseas Elitis (trovate alcuni suoi libri nel catalogo Donzelli) o Ghiannis Ritsos (1909-1990). Il libro da cui pesco una poesia è Μετάγγιση, Trasfusione, uscito per Einaudi nel 1980 per la cura del un suo pluridecennale traduttore (nonché editore) Nicola Crocetti. Si tratta di un volume di poesie "italiane", come rileva anche il sottotitolo, vergate tra Catania, Taormina, Venezia, Firenze, Milano. Ogni poesia riporta in calce un luogo e una data. Colpisce quante poesie siano raggruppabili sotto la stessa data (è qualcosa che rileva con stupore già Vittorio Sereni nella premessa). Tra tutte c'è un trittico di poesie scritte a Venezia. Non sono le più belle, perché in fondo è questo un libro contraddistinto da una grande omogeneità di tensione. Di queste riprendo qui sotto la terza. Della introduzione di Sereni invece riporto solo un passo per me molto importante, ora che sembra stia tornando di moda un vociare a volte ciarliero e affrettato attorno alla "poesia civile":

"In altri termini, il rischio maggiore cui va incontro sull'onda del sentito dire la poesia di Ritsos è di vedersi affibbiare, e di esaurire in questa la propria identità e e portata, l'etichetta di poesia civile - la quale comporta sempre, anche a torto, l'idea di un committente, reale o supposto, conscio o inconscio, non importa quale."

La poesia che leggete nella copertina è stata invece scritta a Firenze il 31.V.1976. Chissà perché l'editore, abituato a scegliere una poesia per le copertine di questa collana "bianca" di poesia, non riportò anche la data e il luogo...


















Devo partire - dice - partire
quello che viaggia
con una borsa appesa al fianco
no non sono io
io me ne sto immobile dentro la mia morte - dice-
ho chiacchierato coi rigattieri nella piazzetta chiusa
vecchie incisioni portagioie intagliati
chiavi specchi statuette casse
ho comprato una tunica rossa con bordure d'oro
mi sono seduto al bar accanto al ponte
ho mangiato un gelato tinto di fragola
ho gettato il cucchiaino d'argento nell'acqua nera.

Venezia, 30.V.76.

mercoledì 25 settembre 2013

Marco Sonzogni ci racconta "La speranza di pure rivederti...": Irma Brandeis e Eugenio Montale in un libro di Archinto

Librobreve intervista #25

Marco Sonzogni
Le mie domande lo raggiungono a Wellington, in Nuova Zelanda dove insegna, nel bel mezzo di un lavoro febbrile di revisione. Sarà sua infatti la cura e traduzione del Meridiano di Seamus Heaney in uscita per Mondadori nel 2014. E non potrebbe essere diversamente. Marco Sonzogni mi scrive che ha sentito il grande poeta nordirlandese pochi giorni prima che morisse, lo ricorda come maestro nella vita e anche nella morte. Nelle risposte che seguono però parla anche di come ha accolto la notizia, in preghiera, diversamente dalle troppe persone che "sono subito corse a raccontare su carta stampata e online quanto bene lo conoscevano, dove avevano mangiato e bevuto con lui". Lo distolgo però per qualche attimo da Heaney (anche se non dal dolore) per poi farci ritorno con l'ultima domanda di questa intervista. In Italia è da poco uscito per Archinto un suo lavoro intitolato La speranza di pure rivederti... Clizia, Montale e l'impossibilità di dirsi addio (pp. 83, euro 12). Sento di doverlo ringraziare ancora, da queste poche righe introduttive, per l'intervista che leggerete, forse la più bella che ho sin qui pubblicato (siamo alla 25esima, forse sto esagerando, ma mi rendo conto che le interviste attorno ai libri brevi sono un bel sistema per lasciare spazio ad altre voci, risparmiarvi la mia e per risparmiare a me tempo). Sono certo vi catturerà e vi inietterà il desiderio della rilettura, sia delle risposte, sia dei testi di cui qui si parla.


Il libro pubblicato
da Archinto
LB: Potresti tratteggiare per i lettori le scosse principali della vicenda umana Montale-Brandeis? Se sappiamo bene o male chi è e cosa ha scritto Montale, possiamo sapere da te, brevemente, chi è Irma e come incontra Eugenio?
RISPOSTA: Sono le scosse “normali” che scandiscono le vicende umane di un uomo e di una donna che si innamorano, vorrebbero stare insieme, ci provano, ma alla fine per una ragione o per un’altra, non ci riescono. Nel caso di Irma e di Eugenio, come per tutti, la prima scossa è senz’altro quella del primo incontro, del famigerato colpo di fulmine, nel luglio del 1933, a Firenze. Eugenio Montale non ha la più pallida idea di chi sia questa giovane, colta e affascinante americana di nome Irma Brandies che chiede di incontrarlo (lui è direttore del prestigioso Gabinetto Vieussuex, che lei frequenta). Lei invece sa già abbastanza di lui: gliene hanno parlato Gino Bigongiari (con cui ha una relazione piuttosto complessa) e Leo Ferrero (anche con lui ha una breve relazione), da cui riceve una copia di Ossi di seppia (quella stampata da Carabba nel 1931, quindi la terza edizione) che subito divora. La lettura instiga il desiderio di conoscere personalmente l’uomo che ha scritto poesie così belle: e se da un punto di vista estetico Eugenio non fa certo colpo su Irma, da un punto di vista poetico e intellettuale tra i due si instaura un legame che è subito forte, profondo, necessario ma anche difficile, problematico – un oceano di distanza li separa per buona parte dell’anno, colmato all’inizio da una corrispondenza fittissima, e poi un mare di problemi (soprattutto di Montale) piano piano li separerà per sempre. La seconda scossa è sicuramente la scoperta da parte di Irma – inquivocabilmente solo nel 1935, dopo due anni, quindi, di sentimenti, speranze e progetti – che Montale è legato a un’altra donna, quella che lei continuerà a chiamare “X”: la Mosca, Drusilla Tanzi Marangoni. Valgono poco le tardive spiegazioni di Montale: sarebbero anche state, in un certo senso, comprensibili, ma l’averle taciute non lo mise in buona luce, diciamo così. La terza scossa è il mancato incontro quando Montale si reca negli USA a bordo del volo inaugurale Roma-New York nell’estate del 1950. Di questa occasione persa ci restano solo ricordi avvolti in parte nel mistero e sui quali dubito si possa arrivare a mettere la parola fine. Certo è che Montale, nelle poche ore in cui si trova nella Grande Mela, telefona a un’amica, sua e di Irma, Giovanna Calastri (la stessa che gli telefona nei versi di Una musa oltreoceano) ma non ha il coraggio di chiamare Clizia – o meglio, fa il numero ma poi riattacca. Chissà perché (soprattutto per poi raccontare l’accaduto a Irma in un biglietto purtroppo andato perso). La quarta scossa, silenziosa, è la morte della Mosca – con lei in vita Irma, che in Italia di tanto in tanto faceva ritorno (per esempio va a fare la volontaria in occasione dell’alluvione di Firenze del 1966), non aveva mai cercato di riallaciare i contatti con Montale. La quinta e ultima scossa – dopo le crescenti attenzioni che gli studiosi (in particolare Luciano Rebay e Glauco Cambon) riversano su di lei, a volte con irrispettosa insistenza, soprattutto a seguito dell’assegnazione a Montale del Premio Nobel per la Letteratura – è la pubblicazione dell’edizione critica dell’Opera in versi di Montale nel dicembre del 1980. Irma riceve una copia con la dedica di uno dei due curatori, Gianfranco Contini, e un biglietto quasi illeggibile dello stesso Montale, che le dice di considerarla ancora la sua divinità, e le chiede quando e come si sarebbero riincontrati. Siamo nel giugno del 1981. Da quel momento, con la mediazione di amici “di lunga fedeltà”, Irma ed Eugenio cercano di riincontrarsi per guardarsi negli occhi un’ultima volta, mezzo secolo dopo il loro primo incontro. Ma il 13 settembre, quando Irma sta per mettersi in viaggio alla volta di Milano, Cambon le telefona per dirle che Montale è morto.

LB: Quando nasce e come prende forma il progetto di questo libro pubblicato da Archinto e dedicato al rapporto tra Montale e Clizia, l’ispiratrice del sesto mottetto de Le occasioni dal quale è stato preso il titolo del volume? A tuo sentire, il costrutto celeberrimo di “visiting angel” tiene ancora bene con il passare degli anni o forse andrebbe rivisto dalla critica?
RISPOSTA: Nel 1999, grazie alla mediazione dell’amico Bill Weaver, che era Irma Brandeis Professor of Literature a Bard College, sono entrato in contatto con Jean Cook, amica ed esecutrice letteraria di Irma Brandeis. Ci siamo sentiti per email e per telefono, per qualche anno, e poi ci siamo conosciuti di persona: prima a Dublino, dove io abitavo e dove lei aveva accompagnato una scolaresca, e poi a New York (sto per tornarci tra poche settimane, proprio per parlare di questo libricino alla Fordham University e per rivedere Jean e altri amici newyorkesi). Un rapporto di amicizia e di fiducia subito forte e trasparente: a me, come a lei, premeva far conoscere la storia di Irma Brandeis – quella di Clizia l’aveva già raccontata in versi Montale; e dalle lettere di Montale a lei, pubblicate nel 2006, di Irma non emerge più di tanto. In tutti questi anni, quindi, ho avuto modo di studiare le carte di “I.B.”: lettere, diari, traduzioni, racconti, studi accademici – e, allo stesso tempo, parlare con persone che l’avevano conosciuta. Così è stato quasi come averla conosciuta anch’io e spero, con i miei lavori, di aver contribuito a far conoscere una donna il cui valore umano e intellettuale va ben oltre quello di musa montaliana... Quindi, se si vuole davvero capire e apprezzare chi è stata Irma Brandeis, non solo la definizione di salfivico visiting angel – perfettamente legittima, con l’intercessione di Beatrice e Laura – ma anche il nome stesso “Clizia” – scelto per Brandeis da Montale sempre sulla scia del poeta sommo, come ha chiarito Contini – vanno ad un certo punto messi da parte. Del resto Irma stessa, ormai vecchia ed esasperata, ha cercato di liberarsi, una volta per tutte, delle responsabilità mitopoietiche di cui l’ha investita Montale.

LB: Nel libro trovano spazio materiali inediti? Da dove provengono e come li hai montati nel tuo discorso?
RISPOSTA: In tutti i miei scritti su Montale e Brandeis ho presentato carte inedite. In questo caso di stratta di tre lettere – due di Gianfranco Contini e una di Cesare Vivante – e di fogli sparsi con prove di traduzione di poesie di Montale. Come tutte le altre carte che ho studiato e pubblicato anche queste sono in possesso di Jean Cook. Credo fermamente nell’autorità del documento: la mia lettura e le mie interpretazioni sono quindi state costruite intorno a queste carte. Sono loro a parlare, io ho fatto solo da tramite.

The Ladder of Vision,
il saggio su Dante
di Irma Brandeis
LB: Qual è stata per te la cosa più bella, la scoperta più emozionante nella scrittura di questo libro?
RISPOSTA: Sicuramente la lettera di Cesare Vivante, trovata quasi per caso in un folder gonfio di fogli e ritagli di giornale che non promettevano niente di interessante (tra l’altro era l’ultimo faldone che mi era rimasto da scartabellare e non so proprio spiegarmi come sia finita lì). E poi l’incontro con Cesare (e sua moglie Mirella), a Milano: un momento davvero emozionante e commovente. L’affettuosa accoglienza affetto, il nitido ricordo di Irma e di Montale nella casa dei genitori, Leone e Elena Vivante, a Villa Solaia, in Toscana, e poi il ricordo della figlia, Elena anche lei, tragicamente morta giovane, inseguendo l’amore... Tra le carte mi ha sicuramente colpito anche la testimonianza – in poche lucide righe manoscritte – del triangolo in cui Irma finì suo malgrado a trovarsi: lei, lui (Montale) e l’altra (la Mosca), e la risoluzione del dispiacere per quanto successo affidata a Dante.

Irma e i gatti...
LB: La speranza di pure rivederti... titola il libro. Il mottetto si chiude con quei tre versi tra parentesi del servo gallonato tra i portici a Modena. Per me è sempre stata una delle immagini più nitide di Montale. Ci parli un po’ proprio del Mottetto VI?
RISPOSTA: È stato scritto tanto su queste due bestiole. Montale stesso, camuffato da Mirco, ha raccontato la cosa e credo che in questo caso gli si possa credere. Altri hanno poi confermato (appartenevano a un tizio di Modena ma questo tipo di dettaglio, poeticamente, conta poco o nulla). A Irma piacevano gli animali, i gatti soprattutto, ma anche quelli meno comuni, come appunto i due sciacalli portati a spasso dal servo gallonato sotto i portici di Modena. Ci sta quindi che siano un suo senhal. Ho provato a frugare nella simbologia dello sciacallo – animale che nella cultura occidentale ha un pedigree non troppo positivo. Qualche traccia interessante l’ho trovata, e l’ho seguita, coinvolgendo mezzo mondo, con il conforto di una foto davvero intrigante, ma per ora non ho trovato prove sufficienti a validare un’interpretazione alternativa. Un giorno forse ne scriverò comunque – magari ne esce un racconto piuttosto che un saggio critico. Vediamo. Tornando al mottetto: credo che il titolo dica tutto. Eugenio si sta già rassegnando a perdere Irma – in un certo senso la perde ogni volta che la vede ripartire per gli Stati Uniti. Lo strappo sarà anche, come da tradizione, poeticamente fertile, ma umanamente parlando Montale soffre come ognuno soffrirebbe nel doversi separare dalla persona amata. L’amor de lonh, per dirla con Jaufré Rudel, ha senso e tiene fino a un certo punto: insomma, le poesie non bastano e infatti Irma vuole di più e quando si rende conto che le cose non sarebbero mai cambiate, mette fine alla relazione. Detto questo, mi ha sempre colpito, fin dalla prima volta che ho letto questo mottetto, il presentimento di Montale – sentiva che ogni saluto, come presto sarebbe stato, poteva essere l’ultimo. È come se, in un certo senso, avesse rimosso anche la possibilità della speranza. Un mottetto in momentanea absentia di lei che prelude, anzi annuncia, la sua absentia definitiva – quasi fosse inevitabile.

Il giovane 
Seamus Heaney
LB: Sei reduce da un ciclopico lavoro di traduzione da Heaney in uscita tra qualche mese nei Meridiani Mondadori. In questo libro si sviluppa invece un appassionato inseguimento montaliano. Se mi passi il termine scolastico di “collegamenti”, quali “collegamenti” faresti tra poeti lontani nello spazio e nei tempi come Seamus e Eugenio?
RISPOSTA: Il lavoro ciclopico – come lo hai giustamente descritto tu, e non solo per me ma per tutti quelli coinvolti in un progetto come questo – si era concluso il 26 agosto in vista della pubblicazione per il 75° compleanno del poeta nell’aprile del 2014. Ma pochi giorni dopo, la mattina del 30 agosto, Seamus se ne è andato per sempre. Ti confesso che stato un colpo durissimo, e che mi ci vorrà tanto tempo a smaltire anche se, te lo dico sinceramente, non mi ha colto del tutto di sorpresa. Ora il lavoro ciclopico si è raddoppiato: i cantieri del Meridiano sono stati riaperti per accogliere traduzioni e commenti a tutta l’opera in versi di Heaney, inclusa una sezione di inediti (due poesie giovanili, due poesie recenti e due traduzioni completate pochi giorni prima della morte). Sarà il modo migliore di ricordarlo. Anche se lo conosco, lo leggo e lo studio da più di 20 anni ho preferito restare in silenzio, e in preghiera, pensando a Marie, Michael, Christopher e Catherine Ann. Troppe persone sono subito corse a raccontare su carta stampata e online quanto bene lo conoscevano, dove avevano mangiato e bevuto con lui, quante volte lo avevano incontrato o gli avevano parlato, cosa di lui avevano letto, scritto o tradotto (c’è addirittura chi ha ristampato le proprie traduzioni il giorno stesso della morte) – finendo per parlare più di se stessi che di lui. Ma anche in questo forse inevitabile karaoke dell’ego c’è del giusto e del bello: Seamus sapeva toccare tutti, già al primo sguardo, e lo tsunami di testimonianze da ogni parte del pianeta e da ogni fascia sociale e professionale ha dato conto del segno lasciato da un uomo e da un poeta straordinario, e del vuoto che dobbiamo ora accettare, colmandolo almeno in parte con la sua opera in versi e in prosa.
Mi chiedi di Montale e Heaney. Sono due poeti molto diversi – già per nascita (e non mi riferisco alle condizioni delle rispettive famiglie, per altro diverse anche quelle): uno nasce in riva al mare l’altro nel cuore della terra. Ecco, paradossalmente, quello che forse più li accomuna risiede proprio in questa differenza, per così dire, topografica: entrambi partono, umanamente e poeticamente, dal paesaggio che li circonda e che ne determina le coordinate esistenziali ed intellettuali. La strada della poesia che intraprendono, e che porta entrambi a Stoccolma, segue poi percorsi piuttosto diversi, ma qualche intersezione c’è. Montale muore (1981) poco prima che Heaney raggiunga una notorietà mondiale – anche se la fama del poeta nordirlandese è in rapida crescita dopo che Helen Vendler (Harvard University) ne recensisce la quarta raccolta, North (1975, l’anno in cui a Montale è assegnato il premio Nobel per la Letteratura), sul «New York Review of Books». L’incontro più significativo tra i due poeti è quello nel segno l’anguilla, animale che Heaney conosceva bene (il padre della moglie gestiva un pub ad Ardboe, sulle rive di Lough Neagh, in Irlanda del Nord, frequentato da pescatori di anguille, con cui aveva anche rapporti di lavoro, e che Heaney stesso ebbe modo di frequentare). La traduzione della poesia montaliana (una versione, per altro, ai limiti della riscrittura, secondo me neanche troppo convincente) da parte del poeta americano Robert Lowell – che il poeta nordirlandese ammirava, ricambiato – ha messo in moto qualcosa nell’immaginazione di Heaney, che ci ha a sua volta lasciato due bellissime poesie incentrate sull’anguilla: ‘A Lough Neagh Sequence’ (‘Sequenza di Lough Neagh’), nella seconda raccolta (Door into the Dark, 1969) e, trent’anni dopo, ‘Eelworks’ (‘Anguilleria’), nella dodicesima e ultima raccolta (Human Chain, 2010). Heaney ha letto Montale, non soltanto l’opera in versi ma anche i suoi scritti in prosa. E poi il titolo che Heaney aveva scelto per la Frank Kermode Lecture che avrebbe tenuto a Londra il prossimo novembre la dice lunga: “The Second Life of Art” – è il titolo di un saggio di Montale del 1949 pubblicato sul «New York Review of Books» nel 1981 nella splendida traduzione di Jonathan Galassi (incluso con altre prose nel volume eponimo pubblicato presso i tipi newyorkesi di The Ecco Press l’anno successivo). Solo per dire che i grandi poeti sono sempre in dialogo, in un modo o in un altro, indipendentemente dal fatto che si siano incontrati, sulla pagina o di persona.

lunedì 23 settembre 2013

Gli epitaffi scritti sull'aria da Nelly Sachs

Stranamente non è ancora molto ciò che abbiamo tradotto in italiano di Nelly Sachs, premio Nobel per la letteratura nel lontano 1966 assieme allo scrittore israeliano Shmuel Yosef Agnon. In quell'anno del Premio fu Rodolfo Paoli a rompere gli indugi con una scelta di poesie pubblicate dalla rivista "L'approdo letterario", seguito poi da Ida Porena (sua principale interprete in italiano) e da Roberto Fertonani. E comunque, se uno cercasse oggi la Sachs in traduzione, non sarebbe sommerso di titoli. Eppure siamo (eravamo?) un paese che traduce abbastanza, se si tratta di premi Nobel poi ancor di più. Oltre alla corrispondenza con Celan pubblicata da Il Melangolo, disponevamo solamente delle Poesie curate da Ida Porena per Einaudi. Oggi registriamo una novità nella bibliografia di Nelly Sachs in italiano e la mia premessa illustra allora uno dei molti motivi per i quali possiamo salutare con entusiasmo la traduzione della serie Grabschriften in die Luft geschrieben proposta da Chiara Conterno per i tipi di Progedit (pp. 152, euro 16). La frequentazione-dialogo con Nelly Sachs non è nuova a questa germanista ancora assai giovane, se consideriamo una monografia intitolata Metamorfosi della fuga. La ricerca dell’Assoluto nella lirica di Nelly Sachs (uscita per la padovana Unipress tre anni fa). E tutto lascia intendere che questo volume di traduzioni sia un ulteriore passo di conoscenza dell'opera della scrittrice berlinese che, come noto, a partire dal 1940 trascorse gli ultimi trent'anni di vita a Stoccolma. E una rapida occhiata al curriculum di questa studiosa lascia percepire un'originalità di interessi, tutti "austriaci", che spaziano da Karl Emil Franzos e la sua percezione di Schiller, a Vladimir Vertlib (se volete approfondire, Giuntina ha tradotto il suo Stazioni intermedie), ai giovani Christian Teissl e Stefan Schmitze. Il lavoro di traduzione della Conterno è dedicato alla memoria di Walter Busch, professore di letteratura tedesca all'università di Verona morto lo scorso marzo e autore de L'epitaffio e il silenzio dei morti nell'epoca moderna. Trasfigurazioni di una forma letteraria, uno dei saggi qui radunati prima delle traduzioni poetiche. (A chi apprezza W.G. Sebald - e non credo siano pochi - credo possa interessare il volume monografico di "Cultura tedesca", rivista edita da Carocci, intitolato W. G. Sebald: storia della distruzione e memoria letteraria curato proprio da Walter Busch.)


Ogni volta che si avvicina l'opera della Sachs sembra inevitabile ricominciare daccapo, da tutti i temi e i tempi più atroci che l'hanno attraversata: la migrazione indotta dal Nazismo, l'esilio svedese, la devastazione materiale e spirituale della Shoah sperimentata da sopravvissuta. I testi-epitaffi che Chiara Conterno ha tradotto e radunato qui appartengono al periodo 1943-1946 e disseminano pertanto un momento fondamentale della vicenda personale e del continente europeo stesso: dai momenti più difficili della guerra al primo anno senza la guerra. Sono componimenti per lo più brevi, per lo più riportanti un titolo e due iniziali relative al nome della persona alla quale sono dedicati (non tutti però, ad esempio quello intitolato Die Mutter è dedicato probabilmente alle madri e non a una madre soltanto, visto che non è seguito da iniziali). A volte - e lo scopriamo nelle ricche e curatissime note a piè di pagina, ricavate anche dalle lettere riportate in appendice - conosciamo il destino dei dedicatari, altre volte lo ignoriamo, o meglio, ad un certo punto della deportazione le tracce si perdono. Non conosciamo allora né nomi di luoghi né date di morte certe o presunte. Tutto questo ci fa pensare anche all'imponente lavoro di ricostruzione di percorsi di morte che la Shoah ha innescato a guerra in corso e appena terminata. Sono tutte persone che riaffiorano nella memoria famigliare e negli affetti dell'autrice, che anziché affidare l'epitaffio alla pietra lo affida all'aria, alla voce, al vento. Facili potrebbero diventare le associazioni, anche con testi fortunati come la Spoon River di Masters. A ben vedere, a ben ascoltare soprattutto, la poesia della Sachs in questo frangente è fatta di un fiato flebile che sa dire, per contrasto, l'assordante verità dell'esistenza di queste vite cancellate dalla furia distruttrice dell'Olocausto.

Epitaffi scritti sull'aria diventa allora un libro di memoria profonda nel senso quasi "liturgico", di ritratti accennati e perciò ancor più vibranti, nato  dalla necessità di accendere i ricordi, di bruciare di ricordo: persone, visi e movimenti - in altre parole un frammento di tempo - catturati e consegnati ad una eternità stranita e turbata profondamente dalla tragedia che ha spazzato una comunità. Così avviene avviene anche, ad esempio, nel componimento scritto nell'estate del '43 e dedicato allo studioso di Spinoza, l'insegnante privato Hugo Horwitz, marito claudicante di un'amica, Dora Jablonski. E c'è traccia di una lettera della Sachs indirizzata a Gudrun Dähnert dove scrive dei coniugi Horwitz, deportati a Theresienstadt l'8 settembre 1942. A Theresienstadt i coniugi Horwitz non vi arrivarono mai.

DER SPINOZAFORSCHER [H.H.]

Du last und hieltest eine Muschel in der Hand.
Der Abend kam mit zarter Abschiedsrose.
Dein Zimmer wurde mit der Ewigkeit bekannt 
Und die Musik begann in einer alten Dose. 

Der Leuchter brannte in dem Abendschein; 
Du branntest von der fernen Segnung. 
Die Eiche seufzte aus dem Ahnenschrein 
Und das Vergangne feierte Begegnung.


LO STUDIOSO DI SPINOZA [H.H.]

Leggevi tenendo una conchiglia in mano.
Con una delicata rosa d'addio giunse la sera.
La tua camera conobbe l'eternità
E la musica cominciò in un vecchio carillon.

Il candelabro ardeva nella luce del tramonto;
tu ardevi della lontana benedizione.
La quercia sospirava dallo scrigno degli avi
E il passato celebrava l'incontro.

(Traduzione di Chiara Conterno)

venerdì 20 settembre 2013

da "Canti di un luogo abbandonato" di Azzurra D'Agostino

Una poesia da #22

"Chi lascia solo chi? A cosa somiglia la vita sulla terra?" si chiede Azzurra D'Agostino ad un punto ben preciso di questi Canti di un luogo abbandonato, poesia-progetto, radicale richiamo avvertito da chi scrive nei confronti dei luoghi. Luoghi-dèi, lieux-dieux, come vuole Yves Bonnefoy? "Ma questi piccoli boschi ci sembrano sempre abitati, non fosse che da un'assenza" è una delle epigrafi del volume, presa in prestito da un altro poeta del genius loci o deus loci, Philippe Jaccottet. Una lettura importante, che consiglio senza troppo aggiungere o indugiare. Un percorso in poesia su uno dei verbi più problematici della vicenda umana, quell'abitare e saper abitare che richiama anche Azzurra nelle sue note. Ha proprio ragione quando scrive "Perché affinché un luogo sia disabitato, occorre prima averlo saputo abitare". Di riflesso mi chiedo: se non sappiamo più abitare i luoghi dove viviamo, se abbiamo disimparato a farlo negli ultimi decenni, potranno questi dirsi domani "abbandonati" o "disabitati"? In questi ragionamenti entrano molti fasci di luce e ampie zone d'ombra, non ultima la politica (a tutti i livelli in cui si pratica quest'"arte degenerata"). 

Azzurra D'Agostino non è più una sorpresa. Ricordo una presentazione della rivista "daemon" a Udine, tanti anni fa, al circolo Pabitele. Una serata fredda finita in un'osteria da frico con Pierluigi Cappello e Vincenzo Della Mea; dovevano esserci anche il direttore, Franco Baldasso, e Andrea Breda Minello. Azzurra aveva la febbre e allora fu Cappello a leggere le sue poesie, dopo averne illustrato con occhi fermi la bellezza. Forse non usò nemmeno l'aggettivo participio presente promettente, come si usa in questi casi coi poeti "giovani" (e proprio Azzurra, il 17 settembre, sul Corriere della Sera, ha scritto un intervento efficace attorno all'impiego della parola "giovane" in Italia, con un finale dai toni sabiani). Quella lettura di Cappello fu una fusione tra due delle voci più belle della recente poesia e la ricordo bene tuttora. Ma mi fermo - sono cose che potete scoprire da soli o che già sapete - e  lascio la parola a lei, che bene ha descritto il progetto nelle note che seguono qui sotto e accompagnano l'invio del volume; c'è spazio infine per un estratto generoso che ho scelto dai Canti e per il quale la ringrazio. Azzurra - mi raccontava tempo fa - non è stata una vorace lettrice di Andrea Zanzotto. Eppure, dopo aver letto a letto queste poesie, le ho scritto subito che pur battendo una strada tutta sua, a mio sentire queste coincidono con la sua prova più intimamente zanzottiana.

Ricordo che Azzurra D'Agostino sarà presente sabato 21 a Pordenonelegge in questo appuntamento e che i prossimi luoghi disabitati in cui sarà possibile incontrare il libro sono i seguenti:
Roma - 6 ottobre 
Imola (Bo) - 19 ottobre 
Appennino - 6 novembre
Pistoia - 8 novembre
Se vi interessa approfondire i dettagli, l'autrice legge eventuali vostri messaggi e richieste a questo indirizzo email; il progetto è anche su web a questo link.

Un viaggio nel tempo (proprio e passato) attraverso l'incontro con i resti. Resti di case, residui di pozzi, tetti, dettagli di un'umanità scomparsa. Il poemetto Canti di un luogo abbandonato nasce dall'ascolto delle voci di un popolo e di una cultura che non ci sono più, ma che è ciò da cui veniamo. Nasce dall'incontro con i ruderi, con quelle che una volta erano case e che ora sono con violenza riprese dalla natura, abitate talvolta di nuovo - ma da animali e piante. Nasce dall'abbandono, dall'irrequietezza di anime che sembrano non trovare pace nel vedere il proprio mondo spopolato. Nasce da una domanda che il presente pone: chi è che se n'è andato per davvero? Perché affinché un luogo sia disabitato, occorre prima averlo saputo abitare. E oggi, che l'abitare sembra così difficile, quasi impossibile, questa è una indicazione preziosa. Il poemetto è la seconda parte di una trilogia la cui prima parte, 'Versi dell'abitare', è stata pubblicata con una prefazione di Fabio Pusterla sull'XI Quaderno di poesia contemporanea, ed. Marcos y Marcos – e si occupa della questione dell'abitare la terra da parte dell'uomo, e dunque della domanda 'come vivere?'. I Canti di un luogo abbandonato sono un incontro col disabitato e con l'assenza – che è sempre prendere in considerazione una presenza. L'ideale luogo di lettura del poemetto è un luogo abbandonato, meglio se 'rimangiato' dalla natura. Riabitare questi luoghi con le parole, con letture ad alta voce che creino una piccola comunità, fa parte di un progetto che vorrebbe mappare questi luoghi per creare una piccola geografia alternativa a quella usuale delle rotte certe e frequentate. Una geografia di posti che nel loro essere incompleti e stranianti sono speciali, e ci fanno delle domande.

Nota sul volume: il libro è stato autoprodotto e realizzato graficamente con il lavoro di Anonima Impressori di Bologna, officina grafica e stampa d'arte. È stato composto e stampato con caratteri mobili e matrici in legno. Ne sono state realizzate 300 copie numerate e assemblate a mano. Ogni copia contiene una cartolina d'arte. Il libro non ha una distribuzione ufficiale e vuole tentare, per incamminarsi nel mondo, la via diretta dell'incontro con i lettori. 














[...]

C'era anche tempo per parlare coi cani per allungare
le mani farsi annusare star lì nello spiraglio dove l'aglio
in una treccia mescolava l'odore a quello di corteccia
ora siamo malinconici perché dimmelo te come ti sentiresti
è normale mescolare un po' di pianto con la scorza
delle cose che non si smorza rimane quella il faggio
è faggio, respira in quel suo modo di pianta, bella
la vita non si dice, ma a noi quella ci manca, ci piace.


Le donne certe volte si scioglievano i capelli e quelli
erano dei momenti come di luce, l'aria sapeva di mele
le parallele degli aironi erano perfette. Di vendette
non c'è bisogno nessun segno di conversione della pena
la cena verrà servita comunque e dunque diciamola la verità
la verità è che noi della miseria ci saremmo vergognati
siamo stati in quell'assoluta povertà come una verità vera
come una cosa che c'era. Si confonde il cielo se non ha
le sponde le teste dei monti a fargli da sponde, le gronde.


Siamo qui ci piacerebbe pensare d'essere anche noi
proprio noi l'acacia, il sambuco, il buco che nasconde
il ragno e il topo, essere il topo stesso e lo spesso strato
di buio che lo nasconde essere fronde, rami, schiocchi
biacchi, occhi nel verde, sorde vipere, pere mature,
pure pupille di volpe, pelo, pelle, tutte queste cose
tutte quelle cose belle e tremende vicende di sangue
senza lingue siamo rimasti senza lingue ci tocca parlare
stiamo in mezzo a questo vento e non possiamo respirare
non siamo da nessuna parte non siamo sulle stelle quelle
cose si dicono ai bambini perché non piangano più
si mente ai bambini e quando sono soli stanno a testa in su.


Essere qualcosa ecco cosa ci manca ora che diseredato
il prato non l'ha annaffiato nessuno ci ha pensato la pioggia
è normale sale in forma di vapore e poi scende giù goccia
a goccia e sboccia di nuovo tutto daccapo non è stato
dolore è stato solo morire certo dispiace se tace anche l'ultimo
erede se non ci crede a queste cose non si pronuncia non viene
in questo posto non ha un vero e proprio posto non ha un posto
come spiegare noi abbiamo una nostalgia che non si può capire
c'è qualcuno che la sente? Che ci sente a noi, così vicini al niente?


Tutto è semplice nell'aria e vi lasceremo in pace
ci piace l'idea di essere spina ma non è così affatto
non del tutto il fatto è che qui non ci sente nessuno
scambiati per merli tordi passerotti l'ombra del pruno
che si sposta per il vento che spavento che fa il cigolare
del cardine il cardo con su la farfalla la stalla svuotata
sventrata la carcassa di un animale sta nuda nel sole
in pieno sole. Mosche. Mosche. Brusche virate dei vivi.


Vivo fino a qui dice la pianta del noce senza una sola
voce un solo fiato di voce, si secca come avesse peccato
in qualcosa beccato hanno beccato interi stormi intorno
di notte di giorno sempre si muove una bava di vita la vite
si scava un varco fra tutte le piante e quante sono tutte le piante
l'ha piantata qualcuno questo è sicuro l'ha piantata attento
al sole che picchia alle folate di vento al passo che hanno le ore
l'ha piantata qualcuno con una vanga, una zappa e l'amore.


La casa viene al mondo e si spacca sotto
il peso di un tramonto mortale: rotto il cotto
il tetto, l'architrave. Quante Ave Maria avrà detto
la vecchia che non ha più nome. Il gendarme sarà
venuto? Avrà preso mai un disertore? Le ore quando
è ancora buio e già là nei campi si muove l'aratro
chiedere perdono per il peccato lo steccato aprirlo
tirar fuori le bestie restie nell'alba da venire a farsi aprire
cucinare per gli uomini dentro i camini la cenere sparsa
arsa come la bocca dopo l'amore il fiore sul greto del fiume
il sudiciume portato a lavare al pozzo il gozzo tagliato
del maiale il sangue a sgocciolare giù dal collo del coniglio
tutta una vita tutto un germoglio un gran scompiglio.



[...]

martedì 17 settembre 2013

Quelle copertine dello Specchio Mondadori così vicine a quelle di Faber and Faber

©overtures #2. Il pretesto per divagare tra copertine, grafica editoriale e storie di libri

Chi fa letture di poesia in Italia aveva un tempo più di qualche collana come riferimento. Per quel che concerne gli editori "maggiori", c'erano e ci sono ancora la "Bianca" di Einaudi (esempio qui accanto; curioso che il vero nome della collana non sia "Bianca") e Lo Specchio di Mondadori. Detto questo, non dimentichiamo Guanda e altri importanti editori di poesia come Garzanti, Scheiwiller o Crocetti. Ma i due "fari" erano bene o male quelli. Ora non importa se molti, moltissimi libri anche importanti sono usciti al di fuori di queste collane. La situazione è  mutata, queste collane hanno perso forse buona parte della loro funzione d'orientamento; viene da interrogarsi oggi sul peso e la capacità del web nell'orientare certi gusti, certe chiacchiere. In realtà è cambiata l'editoria e forse ha sintetizzato bene Giulio Mozzi scrivendo che nella corsa degli editori ai profitti facili e veloci sta - sembra paradossale ma così non è - una delle principali cause delle difficoltà strutturali ed economiche in cui versa l'intero settore (chiedo scusa se non ritrovo la fonte, ma credo comunque stia tutto nel suo blog Vibrisse). Certo, l'inerzia è grande e queste due collane fungono ancora da contenitori di autori e titoli importanti. Resistono in un panorama dove i grandi editori stanno abbandonando la poesia. Ma fortunatamente o sfortunatamente il loro ipse dixit vale meno. 

La storia grafica delle due collane è segnata da una sostanziale continuità nel caso di Einaudi e da una certa mobilità nelle vicende de Lo specchio Mondadori. Se per Einaudi la poesia in copertina ha tenuto banco, nel bianco, in tutti questi anni, nel caso di Mondadori si sono registrate delle oscillazioni. Fino a due anni fa Lo Specchio prevedeva una copertina dove l'immagine giocava un ruolo preponderante. Quell'esperimento durò un decennio circa. Mi pare fosse stato inaugurato dalle Sovrimpressioni di Andrea Zanzotto e si sia concluso - coincidenza vuole - con un libro di uno studioso di lunga data di Zanzotto, Gian Mario Villalta e il suo Vanità della mente (con una bellissima opera del pittore Claudio Guerra in copertina). Poi, con Catena umana di Heaney, Lo Specchio è virato e ritornato ad una sostanziale pulizia, come alle origini. (All'insegna della pulizia, lo Specchio di tanti anni fa prevedeva internamente la pubblicazione di una poesia, fosse anche di soli 10 versi, in due pagine, con un grande spazio bianco tra il titolo e il primo verso e con l'obbligo di voltare pagina anche per una manciata di versi: avete presente? Era curiosa quella scelta tipografica.) Da un punto di vista produttivo, non dover ricorrere ad un'immagine di copertina è un risparmio e una velocizzazione non da poco (il nuovo format prevede soltanto una foto in bianco e nero dell'autore in quarta di copertina). Credo sia anche a questa ragione che possiamo ascrivere un buon ritorno della grafica di copertina puramente "tipografica", senza ricorso alle immagini. Ottimi esempi sono le collane "incipit" e "i grandi pensatori" di Bollati Boringhieri, mentre in questo post illustravo il caso delle copertine "tipografiche" di Penguin. Non si pagano diritti per utilizzare foto particolari e non si diventa matti a cercare un'immagine adeguata che accontenti tutti. Si paga l'ideatore di un progetto grafico una tantum e si spera che i grafici, strada facendo, non tradiscano quel progetto grafico quando impagineranno i futuri volumi della collana (ad esempio con leggerezze di interlinea, di allineamento o di dimensione del carattere, distrazioni che fanno trasalire gli ideatori del progetto grafico complessivo: di questo tipo di coccoloni mi è capitato di parlare con la bravissima Annalisa Gatto di Studiofluo, autrice proprio del progetto grafico della collana "incipit"). L'ultima "gabbia" grafica del Lo Specchio assomiglia forse un po' troppo però a quella dei libri di poesia di Faber and Faber. Lo si vede abbastanza bene con il confronto dei recenti libri di Matthew Francis e di  Maurizio Cucchi, rispettivamente intitolati Muscovy e Malaspina. Anche la scelta del carattere tipografico, determinante con una simile impostazione, mi pare molto vicina.


Sotto, partendo da alcuni autori, ho costruito una piccola cronistoria grafica de Lo Specchio. Voi in quale specchio vi specchiereste? A riguardarle, trovo interessante la soluzione centrale, con il grande quadrato e il nome (anzi, il cognome) cubitale in alto e poi ripetuto per esteso più in basso, vicino al titolo: apogeo dell'epoca dei poeti-brand?

Ho divagato troppo. Parlare di copertine mi porta a questo. Non a caso ho intitolato questo spazio "©overtures #2. Il pretesto per divagare...". Sulla scia di questo, approfitto almeno per dare una notizia e collegarmi alle uscite de Lo Specchio. In questi giorni esce il nuovo libro di Mario Benedetti. S'intitola Tersa morte. Un bel giallo è stato scelto per la copertina, prima volta - mi pare - da quando c'è la nuova "gestione grafica" (il giallo puro era stato scelto per il postumo Yellow di Antonio Porta, ma nella precedente veste grafica). Del libro ha già scritto efficacemente Tommaso Di Dio qui, in un contributo intitolato Il teatro degli spettri; nell'anticipazione potete leggere pure qualche testo in anteprima. Per chi ha amato Umana gloria e Pitture nere su carta si tratta di un libro sicuramente atteso. L'autore lo presenterà domenica 22 settembre, in due diversi momenti, a Pordenonelegge.

Il tram a Milano in viale Monte Nero,
eri seduta a guardarlo come guardavi i treni.
Con la bicicletta senza i freni,
dopo il passo di Monte Croce
per andare a Attimis, a Forame,
è stata una fortuna non cadere, sfracellarsi.
Sapevo che c’eri, che eri vicino a guardare
mentre io pensavo, e ti trattenevo.
Come una foglia tra le foglie
eri sulla panchina. C’erano alberi e alberi,
e il tuo viso, il vestito del solito blu.
Madre, persona morta
in viale Monte Nero, sulla strada per Attimis,
per Forame dove sei nata.


Nella grotta del bosco Làndri


La frana di braci si alza sulle foglie di acero
e in basso la grappa con il tabacco da fiuto,
i cartocci delle pannocchie per le sporte da fare:
notte fatta di attimi, pareti che si scuotono,
pensieri che si divincolano e si addormentano.
E torna la domanda. Non saprai di essere morto,
non sarai, quel nulla che nella vita diciamo
non sarai, non ci sarai più, non saprai di te.
Perfetta assenza. Non distrarti, non eludere
la pura inconcepibile assenza, non distrarti.

(da Tersa morte di Mario Benedetti, Mondadori, 2013, in uscita in questi giorni)

domenica 15 settembre 2013

"Gli unici libri che amo sono quelli che cadendomi sui piedi non mi fanno male". Le edizioni Henry Beyle in un'intervista a Vincenzo Campo

Librobreve intervista #24

Vincenzo Campo stampa su carta "Zerkall Bütten" i suoi libri, quasi sempre brevi. Se vi appassiona la storia della carta e delle cartiere, se magari vi ha incuriosito il racconto della Valle delle cartiere di Toscolano Maderno, potete trovare qui, nel sito dell'azienda Zerkall, qualche informazione e qualche bella foto. Le tirature sono basse e le copie numerate. C'è la sua presenza, discretissima, dietro le creazioni di Henry Beyle. Ha scelto un nome stendhaliano per la sua casa editrice, la quale però pubblica prevalentemente testi del Novecento, spaziando tra le varie nazioni e lingue. Accanto ad esempio ho inserito il titolo, bellissimo, di Alberto Savinio: Gli uomini di pensiero tornano alla bicicletta. Ma è un catalogo davvero notevole quello che potrete scoprire (qui la versione pdf). I cataloghi editoriali sono a loro volta libri sui generis. Parleremo di questo anche nell'intervista che segue, all'insegna di Vanni Scheiwiller e di un suo sogno purtroppo non realizzatosi. Un tempo avevo iniziato a collezionarne qualcuno, poi per motivi di spazio non ho più potuto. Inoltre, sfogliare i vecchi cataloghi delle case editrici che hanno fatto la storia dell'editoria in quanto mestiere, può considerarsi un'esperienza singolare (così come è singolare l'esperienza di sfogliare un elenco telefonico del 1964 per approdare ad altro genere di pensieri o fantasie). E anche l'atto dello sfogliare il catalogo di Henry Beyle ci offre oggi suggestioni appuntite: Le polpette al pomodoro o Storia di una libreria di Saba, Can de toso, mi fai morire. Ritratto della madre di Rigoni Stern, un Chirurgia estetica di Apollinaire, L'ascensore senza specchio di Gillo Dorfles (vi è mai capitato di entrare in un ascensore senza specchio?), oppure i Sedili di Bruno Munari: cosa si nasconderà dentro questi titoli ghiotti come polpette?


LB: Le creazioni di Henry Beyle sono prevalentemente dei "libri brevi". Crede che tali rimarranno o pensa anche ad un "lievitare" del volume dei libri?
RISPOSTA: Negli ultimi mesi del 2011, volendo accompagnare il testo di Valentino Bompiani, Vari tipi di editore, con una nota, entrai in contatto con Paolo De Benedetti; a lui debbo una definizione che ben si addice alla Henry Beyle: gli unici libri che amo sono quelli che cadendomi sui piedi non mi fanno male.


LB: Mi soffermo sul catalogo della casa editrice (il lettore potrà rapidamente consultarlo sul sito o anche a partire da una libreria online come Ibs.it, dove è notevole il colpo d'occhio su titoli e autori). Come avvengono le pubblicazioni? Esiste una pianificazione serrata o i titoli si aggiungono per una sorta di gemmazione o costellazione più estemporanea? Può dare qualche anticipazione sulle prossime uscite?
RISPOSTA: Non esiste alcun calcolo, strategia editoriale, programma a lungo termine. Vagabondo tra vecchie pubblicazioni, antologie, riviste, almanacchi e mi piace pensare che di tanto in tanto, tra le diverse cose che scorro, un titolo bussi alla porta.
Nella mia casa siciliana avevo portato anni fa intere annate della rivista "Il Ponte"; questa estate sfogliandone alcune vi ho trovato un notevole testo di Calamandrei in cui egli ricostruisce la sua prima esperienza di avvocato nel corso della Prima guerra mondiale. Un testo che pubblicheremo nei primi mesi del 2014.


LB: Tra la bibliofilia e la fondazione di una casa editrice come Henry Beyle cosa accade? Cosa avviene nel passaggio o, più precisamente, cosa è accaduto nel suo caso? E, in fondo, lei si ritiene un bibliofilo?
RISPOSTA: Non sono un bibliofilo; per molti versi sono qualcosa di più subdolo: un tizio che è approdato alla forma più ingannevole di bibliofilia. Pubblico i libri che avrei voluto riunire in una mia collezione.


LB: Quando penso a cataloghi come a quelli di Henry Beyle mi interrogo sulla "ripubblicazione", che è una trave portante dell'edificio editoriale. Quali testi sogna di ripubblicare, se si può dire? E un editore come lei sogna anche i libri, di notte?
Vanni Scheiwiller racconta che avrebbe voluto allestire un catalogo che radunasse tutti i libri che non era riuscito a realizzare, un catalogo "delle occasioni mancate, delle speranze tradite: sarà – scrive – un catalogo bellissimo, tutto di libri bellissimi, senza paragone con quanto ho saputo realizzare". Pensava di pubblicarlo per i 50 anni delle sue edizioni. Non credo che la Henry Beyle arrivi a 50 anni dunque a 25 faremo anche noi un simile catalogo. Fin d’ora c’è un discreto elenco.
Non ricordo sogni con libri; la sera guardo sovente cult movie di serie b, mi capita che la prosecuzione di uno di questi si infili nella notte; nessun evento intellettuale dunque.

giovedì 12 settembre 2013

Gli aironi bianchi di Derek Walcott. Una poesia tradotta da "White Egrets"

Desiderata #1

La vostra biblioteca comunale prevedeva la lista dei "desiderata"? Intendo quel foglio dove si potevano annotare i titoli che il bibliotecario, previa scrematura, avrebbe poi potuto valutare per i futuri acquisti. In "Desiderata" vorrei parlare di libri brevi (per lo più di poesia, per lo più in inglese) che mi piacerebbe vedere pubblicati prima o poi nella nostra lingua. Per cominciare resto sul facile: Derek Walcott e i suoi White Egrets. Credo infatti che non attenderemo molto per vederli in una pubblicazione italiana. Magari mi sbaglio. Non lo so. Intanto propongo una mia traduzione di un breve testo qui sotto.


Da poco è uscita la traduzione dei saggi bellissimi di What the Twilight Says (La voce del crepuscolo, Adelphi). Lì, ad esempio, si legge di Les Murray, il mastodontico poeta australiano dell'altrettanto mastodontico Freddy Nettuno (autore fatto proprio dalla casa editrice guidata da Roberto Calasso, ma in realtà proposto in prima battuta in Italia dall'editore Giano di Tiziano Gianotti). La poesia che ho scelto è l'ultima di White Egrets (reperibile in più edizioni, sotto ho riportato la copertina del volume Farrar Straus and Giroux da me consultato). Specifico che è l'ultima poesia perché è un'informazione importante se poi deciderete di addentrarvi nelle onde, sonore e marine, di questi versi caraibici. Pubblico naturalmente anche il testo inglese. Così sarà più facile, eventualmente, criticare e discutere certe scelte, se qualcuno lo vorrà. 

C'è un audiolibro di Valerio Magrelli intitolato Che cos'è la poesia? Il titolo non scoraggi: nulla di più antisistematico del lavoro di Magrelli attorno e dentro la poesia. Lo trovate in edizione Sossella o anche per Giunti. Seguendo le lettere di un abecedario d'invenzione, Magrelli prova a darci la sua definizione approssimativa di poesia. Il risultato è sorprendentemente ricco e vivace. Si tratta di un ascolto eccezionale e in fondo godibilissimo. Io l'ho inserito nel lettore dell'auto e ho sorriso più volte. Ad un certo punto Magrelli dice più o meno che in poesia vale tutto, tranne i gabbiani al tramonto. Si sentono le risate di approvazione e soddisfatte del pubblico, captate dalla registrazione. Ha ragione da vendere Magrelli, lì. Qui Walcott riprende i gabbiani. Ma non il tramonto. Sentiamo come il poeta caraibico accompagna alla fine il lettore, con una poesia data da un solo lunghissimo periodo che però non mozza il fiato, e come accompagni alla stessa parola "fine". Proprio in una delle "lettere" dell'abecedario di Magrelli torna poi l'idea di isola-promontorio legata all'utilizzo della strofa in poesia. Anche Walcott sembra aver qualcosa da dirci a riguardo...


This page is a cloud between whose fraying edges
a headland with mountains appears brokenly
then is hidden again until what emerges
from the now cloudless blue is the grooved sea
and the whole self-naming island, its ochre verges,
its shadow-plunged valleys and a coiled road
threading the fishing villages, the white, silent surges
of combers along the coast, where a line of gulls has arrowed
into the widening harbour of a town with no noise,
its streets growing closer like print you can read,
two cruise ships, schooners, a tug, ancestral canoes,
as a cloud slowly covers the page and it goes
white again and the book comes to a close.














Questa pagina è una nuvola tra i cui bordi
sfilacciati appare a tratti un promontorio 
di montagne che poi si nasconde ancora,
finché quello che affiora dall'azzurro adesso terso
è il mare solcato e, intera, l'isola che si chiama da sé, gli orli ocra,
le valli sprofondate nell'ombra e una spirale di strada
che unisce i villaggi dei pescatori, i bianchi e silenziosi flutti
dei frangenti lungo la costa, dove una linea di gabbiani sfreccia
verso il porto sempre più grande di una città senza rumore,
le sue strade diventano più vicine come lettere leggibili,
due navi da crociera, golette, un rimorchiatore, canoe ancestrali, 
mentre una nuvola lenta copre la pagina che ritorna
bianca e il libro finisce.

martedì 10 settembre 2013

Un'incursione nella preistoria acustica della poesia con Brunella Antomarini

Librobreve intervista #23


Dopo tanti libri di poesia, parliamo di poesia da un nuovo versante, che si staglia sull'orizzonte delle possibili discussioni sulla poesia. Parto dal recente saggio di Brunella Antomarini intitolato La preistoria acustica della poesia (Nino Aragno Editore, pp. 105, euro 10). Non è passato molto tempo da quando dicevo ad un amico che trovo molto più interessante la riflessione teorica attorno al romanzo, se paragonata a quella concentrata sulla poesia. Prontamente il libro di cui parliamo oggi mi ha smentito. L'autrice insegna Fenomenologia ed estetica alla John Cabot University di Roma. Che cosa ha scritto prima di pubblicare questo saggio così appassionante? The Maiden Machine. Philosophy in the Age of the Unborn Woman (Edgewise, New York 2013); Thinking Through Error. The Moving Target of Knowledge (Lexington Books Lanham 2012; Italian edition: Pensare con l'errore, Codice Edizioni, Torino 2007); L'errore del maestro. Una lettura laica dei Vangeli (Derive&Approdi, Rome 2006); La percezione della forma. Trascendenza e finitezza in Hans Urs von Balthasar (Aesthetica Edizioni, Palermo 2004). Con A. Berg ha curato Aesthetics in Present Future. The Arts in the Technoogical Horizon (Lexington Books, Lanham 2013) e, diversi anni fa, è stata autrice anche di un libro per bambini, Denizens of the Forest (Poligrapha Ediciones, Barcelona 1992). Un percorso avvincente, che ad un certo punto incontra la pubblicazione di un saggio interamente dedicato alla poesia con l'editore Nino Aragno. Scopriamo come nelle sue risposte.

LB: Mi permetto di partire banalmente dal titolo del suo libro uscito per Nino Aragno Editore qualche tempo fa: La preistoria acustica della poesia. Estrapolo intanto due parole: "preistoria" e "acustica". Siamo oggi nella storia? Che cos'era la preistoria della poesia? E possiamo leggere l'aggettivo "acustica"  in contrapposizione con la "deriva tipografica" della poesia? (Penso anche al colpo di dadi di Mallarmé...) 
RISPOSTA: Siamo nella storia nel senso che possiamo guardare indietro e tracciare le strade (o qualche strada) che abbiamo percorso per essere arrivati dove siamo arrivati. Voglio dire, come tento di fare con il saggio, che ci dev'essere una genesi (certo complessa) della 'naturalezza' di scrivere in versi, di andare a capo, cioè di visualizzare un ritmo, una metrica, una musicalità che non appartengono al visivo, ma all'acustico. E fuori di dubbio la poesia c'era prima della scrittura e c'era con funzioni rituali e didattiche che spiegano con chiarezza (come hanno fatto i teorici delle tradizioni orali) l'uso della musicalità e quindi della cognizione corporea (non concettuale). Quindi ho lavorato sulla metamorfosi della poesia dall'oralità alla scrittura, dall'arcaico allo storico. Pur immersi nella storia (o magari stando ormai all'uscita), custodiamo gli strati precedenti, ce li portiamo dietro in queste tracce di cui la poesia è un esempio. Restiamo arcaici, o in debito verso quell'identità arcaica che ci accompagna ma che non possiamo del tutto capire o recuperare. Non parlerei perciò di contrapposizione tra oralità e scrittura, cognizione corporea e cognizione concettuale, ma piuttosto di derivazione, evoluzione. Mi piace l''espressione 'deriva tipografica', se significa che questa evoluzione è piena di deviazioni e orientamenti imprevedibili e non progressivi, ma non vuol dire critica alla scrittura, naturalmente.

LB: Ora, per non fuggire dal titolo, passo alla "poesia" (in fondo i titoli, quando indovinati, sono flash che illuminano improvvisamente tutta l'opera e che dalle parti dell'opera sono a loro volta illuminati, secondo Andrea Zanzotto). Lei si è normalmente occupata di filosofia. Come avviene questo incrocio con la poesia? Non che sia una situazione rara, anzi. Ma intendo da un punto di vista quasi professionale, come si passa da certe tematiche prettamente filosofiche al soffermarsi sulla poesia?
RISPOSTA: La transizione avviene come interesse per il coinvolgimento della percezione, del corpo, della globalità corporea nella conoscenza. La poesia è stato un esempio, come lo è stato il mio lavoro sui Vangeli (che erano orali e non scritti). Ho fatto questo lavoro antropologico che è servito come base fattuale e concreta al mio lavoro epistemologico sulla conoscenza ordinaria, cioè come conosciamo in assenza di certezze, teorie, concetti fissati dalle scienze, eccetera.


LB: In quali punti le tematiche affrontate nel suo libro si intersecano con quelle ampie della traduzione e con quelle ancora più intime del ritmo?
RISPOSTA: Il ritmo sembra sostenere la poesia nella sua definizione minima. Lo stesso atto di andare a capo è una determinazione di ritmo. Qualunque corrente, orientamento, o poetica difendano oggi i poeti, si definiscono dal quell'atto. L'analisi della traduzione come 'intrinseca' alla poesia segue dal fatto del ritmo. Dal momento che cogliamo un senso nel ritmo, pensiamo che quel ritmo-senso possa essere traslato, appunto tradotto, in un'altra lingua. Un po' ci sbagliamo, perché in ogni traduzione si perde qualcosa - o molto - della lingua originale. Eppure è proprio nella traduzione che viene attuata - quando la poesia è grande, diceva Marina Cvetaeva - quella vocazione a dire e non dire, definire e lasciare indefinito, che è propria di tutta la poesia. Il passaggio da una lingua all'altra insomma è rivelativo di come si muove, si costruisce e si trasforma un testo poetico.


LB: Ci racconta brevemente, per quanto possibile, di Marcel Jousse?
RISPOSTA: Un antropologo gesuita, che ha lavorato dagli anni Venti e ha viaggiato in Palestina e tra i nativi americani per capire come fa il corpo a conoscere, anzi come si realizza una conoscenza del mondo nella trasmissione orale di formule da un corpo all'altro. Conoscenza fragile e collettiva, senza autore e sempre in fieri. Un po' come avviene paradossalmente nella nostra cultura digitale. Comincia a essere studiato ora in Italia, da esperti come ad esempio Antonello Colimberti.


LB: Poesia e errore era un titolo di Franco Fortini, un cappello con il quale radunare molti versi giovanili. Un titolo "mobile", che fu soggetto a variazioni e slittamenti. Lei si è occupata in profondità dell'errore in un suo studio uscito per Codice Edizioni (Pensare con l'errore, Codice edizioni, 2008, qui un estratto con le prime pagine). Per quale porta "rientra" l'errore in questo suo recente libro dedicato alla poesia?
RISPOSTA: In realtà questo libro è stato scritto prima di quello sull'errore. È che ci è voluto tempo e non era facile trovare un editore colto e libero come Nino Aragno. Il passaggio avviene appunto dallo studio di esempi di conoscenza corporea allo studio della mente-corpo nell'uso che fa degli errori. Il corpo non ha bisogno di verificare le proprie credenze ed è tenace nell'attaccarsi a quelle che ha, anche se sono sbagliate. Sappiamo benissimo perciò (senza ammetterlo) che quando pensiamo di essere certi, lo siamo in virtù di una finzione. Per fortuna, ci sbagliamo sempre.


LB: Lo sviluppo della rete ha portato un nuovo fiorire di studi e ricerche sull'oralità, la corporeità, la voce. Di questo si trova traccia anche nel suo testo. Qual è la sua posizione scientifica in merito a questa "nuova ondata" ad un livello più generale e, poi, nello specifico, nei confronti della poesia?
RISPOSTA: Sto lavorando ora infatti a come il corpo cambia nel suo contatto e interprenetrazione con le nuove tecnologie. Abbiamo un corpo tecnologico e abbiamo tecnologie quasi-organiche. Che tipo di poesia produrranno questi ibridi non lo so. Sto a vedere.


LB: Quali libri di poesia consiglia Brunella Antomarini?
RISPOSTA: Quelli che commuovono e quelli che giocano con la scrittura senza l'arroganza dell'illeggibile.