sabato 31 dicembre 2016

Poesie inedite di Mariagiorgia Ulbar



"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare. 

Due poesie inedite di Mariagiorgia Ulbar (Teramo, 1981).


Notte di San Silvestro



Sul ciglio stavano cantando
grilli oltremisura organizzati.
Questo è un lampo d'agosto, ti vidi
non parole ma uguale quel canto
faceva al loro posto la voce.
Diceva diceva siamo spersi
con un ritmo trillante di infante
spersi spersi spersi spersi
come un suono del sud di chitarrina
che portava presto a confondersi.

*

La nebbia esce in ciuffi dalla terra
la stella cadente di un crepuscolo
piombava su una strada
valeva uno stupore.
Nell'istante, lo stesso, l'immediato
nasce un vulcano dalle ere
della mia molta vita non narrata
e l'occhio si confonde
si impenna una mano imbizzarrita
e spara sulla lava.
 

giovedì 22 dicembre 2016

La religione cosmica di Albert Einstein

Nell'assai bella e varia collana "Pellicano rosso", Morcelliana ospita la traduzione di Cosmic Religion and Other Opinions and Aphorisms di Albert Einstein, libro uscito per la prima volta a New York nel 1931. Il rosso e bianco volume italiano intitolato Religione cosmica (pp. 128, euro 12, a cura di Enrico R.A. Calogero Giannetto e Audrey Taschini) si apre con “Un apprezzamento” di George Bernard Shaw, il quale incornicia in un intervento d’occasione l’opera del fisico lungo un percorso della scienza che è sempre stato contraddistinto da tappe con date di scadenza: se l’universo retto di Newton è durato circa trecento anni, la domanda è quanto durerà l'universo curvo che Einstein, in scia di Spinoza, legge sub specie aeternitatis (e sappiamo che lo stesso Einstein ebbe da rivedere alcune sue posizioni al cospetto delle teorie che iniziavano a concepire un universo in espansione). Lo scritto che dà il titolo al libro è molto breve e in questo Einstein riversa larga parte della propria “teofisica spinoziana”. Nota è l’ammirazione del fisico per il filosofo olandese, anche se parlare di ammirazione è riduttivo, dal momento che il Deus sive Natura ha sostanziato l'intera ricerca scientifica di Einstein, fino alla formazione delle teorie di relatività generale e speciale. E diventa difficile per un lettore cogliere la portata della sua dissertazione sulla “religione cosmica” continuando a frequentare una qualche idea antropomorfa di Dio, o mancando di cogliere appieno la sovrapposizione Dio-universo (e che non bisognasse farsi alcuna immagine di Dio è qualcosa che si legge già in Esodo e Deuteronomio). Ed è proprio in un rinnovato rapporto tra uomo, natura e Dio-universo, in una nuova – per l’umanità – concezione del Tutto, che si situa la riflessione etica e religiosa di Einstein, la quale si allarga anche agli scritti successivi che compongono il libro.

Il volume prosegue con uno scritto dedicato al pacifismo e al disarmo e colpisce ritornare alla data di uscita di questo, circa a metà del periodo delle due guerre mondiali. E come a sancirne il monito, quasi fosco, leggiamo lo scritto “Gli ebrei”, che si suddivide in una parte dedicata alla loro patria e un’altra che riporta il discorso sugli ebrei pronunciato a Londra il 27 ottobre 1930 alla presenza delle società Ort e Oze (quello per cui G.B. Shaw pronunciò il suo apprezzamento). La terza sezione di aforismi e opinioni prevede, tra gli altri, un discorso che Einstein dedicò alla radio e che non mancherà di interessare chi si è interrogato sulla natura e le qualità di questo mezzo ritenuto dallo scienziato molto meno distorcente della stampa. L’appendice trascrive invece la conversazione tra Einstein e Rabindranath Tagore del 1930. Le posizioni dello scienziato e del poeta indiano, come noto, sono inconciliabili e non è esagerato credere che un impulso alla sistemazione in volume degli scritti giornalistici che compongono questo libro del 1931 venne a Einstein proprio da questo dialogo, nel quale la concezione puramente umana di Tagore da un lato s'alterna con un Einstein che ribatte:

Non posso provare scientificamente che la Verità debba essere concepita come una Verità che sia valida indipendentemente dall'umanità; ma lo credo fermamente. Credo, per esempio, che il teorema di Pitagora affermi qualcosa di approssimatamente vero, indipendentemente dall'esistenza dell'uomo. In ogni caso, se esiste una realtà indipendente dall'uomo esiste anche una verità relativa a questa realtà; e allo stesso modo la negazione della prima provoca una negazione della seconda.
Tornando allo scritto che dà il titolo al volume, leggibile in inglese anche qui, penso che la proposta einsteiniana di religione cosmica - a tutti gli effetti una strana religione senza l'uomo ma di cui l'uomo è parte - diventi un impulso per posizionare un pensiero nuovo su parole e termini di speculazione dati per scontati o comunque appannati quali “dio”, “natura”, “universo”, “religione”. L’uso non convenzionale che il fisico ne fa ci sposta progressivamente lungo il suo tracciato etico e politico, che permea gli scritti puntuali e brevi raccolti in questo volume, in passaggi di pensiero che vanno a tangere temi centrali non soltanto nel secolo scorso. Non sarà difficile notare come molto di ciò che è stato pronunciato e qui si legge sia presto diventato lettera morta e, anzi, sia stato quasi capovolto e scaraventato dalla storia che è seguita. Il volume tuttavia si può cogliere anche come un’opportunità per scoperchiare l’altra scatola dell’eredità di Einstein, quella appunto religiosa, che solo una visione sciocca slegherebbe da quella scientifica: come è evidente religione e scienza in Einstein si legano saldamente e compongono un lascito larghissimo, che oltre ad aver descritto per un certo tempo l’universo nel quale proviamo a collocarci, ci offre uno spunto significativo sugli egotismi, sulle nostre paure, timori e terrori. La linea che lega Einstein al filosofo olandese riparatore di lenti esce da queste pagine ancora più nitida e rafforzata. Benedetto sia ogni tentativo efficace di distoglierci dall’appiccicosissimo e vischioso antropomorfismo e antropocentrismo che, non da ieri, ci rovina come una bomba a orologeria destinata a far danni anche durante il ticchettare del timer.

mercoledì 21 dicembre 2016

I cambi di stagione: solstizio d'inverno


In occasione di solstizi o equinozi, quindi al massimo quattro volte l'anno se non mi stufo prima, riprendo qui un testo dagli archivi. Specifico solo il caso dei testi editi. Le immagini che accompagnano questi pigri post sono tagli e rotazioni (di 90°, 180° o 270°) dalle tavole.

Il testo seguente apre il libro Traviso (Edizioni Prufrock spa, 2014)


2.

Segue, la sodaglia dell’inverno
     il ghiaccio rotto nelle pozze
     e l’aria sa con l’ora dei posti dove
     mai sono stato, quegli
     unici dove ho
     davvero sostato,
     eterno.


domenica 18 dicembre 2016

La breve storia della pioggia di Alain Corbin

Prima della presenza costante del meteo sullo schermo dei  nostri telefonini, prima ancora dell'esplosione dei siti dedicati, della sua entrata nella finanza (coi derivati sul tempo meteorologico) o della sua politicizzazione, qual è stato il momento in cui "il tempo che fa" è entrato prepotentemente nelle vite degli uomini, sancendo anche una virata nel modo in cui questo è percepito e raccontato? Ovviamente da sempre quel che dal cielo arriva è centrale nella vita degli uomini e continua a esserlo anche oggi, ma c'è stato un momento in cui è irrimediabilmente mutato qualcosa di basilare nel rapporto con il tempo meteorologico, anche a seguito di quella che qualcuno ha definito la "secolarizzazione del cielo" e il venir meno o l'affievolirsi del legame religioso tra uomo e cielo. Oggi davvero viviamo situazioni difficilmente spiegabili o quantomeno bizzarre: ci informiamo compulsivamente sul meteo, pretendiamo attendibilità oraria delle previsioni anche se poi magari trascorriamo il fine settimana tappati in casa. Vero che il meteo è rilevante anche se non ci si muove (per esempio lo è anche nell'asciugatura dei panni, se non si usa l'asciugatrice) e vero è che la meteoropatia registra dati in crescita, ma il rapporto con il meteo sta assumendo contorni quantomeno curiosi. E rimanendo in epoca di "cieli già secolarizzati", voglio dire che mi sembrano già lontanissimi i tempi in cui mio padre si arrabbiava se mancavo di guardare le previsioni del tempo reputate più affidabili per capire se si poteva saltare almeno un turno di irrigazione nei mesi di luglio o agosto (e non potevo salvarmi con un podcast). E, a meno che non siamo diventati tutti investitori nella finanza dei weather derivatives, non si capisce tutta questa passione e attenzione attorno al meteo. Forse dovremmo parlare anche di una sua spettacolarizzazione. Viene in mente un titolo di un libro di un poeta, Meteo di Andrea Zanzotto, che nel 1996 inaugurava la collana di poesia di Donzelli: in una parola-titolo Zanzotto aveva centrato un protagonismo che possiamo continuare a leggere a più livelli (psichico, climatico, nell'ineludibile rapporto tra ciò che alto e basso e ciò che precipita). E in che modo questa attenzione dopata sul meteo influisce nel modo in cui non affrontiamo con decisione la più grande sfida conoscitiva attorno al clima? Ma tornando alla prima domanda seminata per strada, quella dell'irruzione nella storia di un certo modo di pensare il meteo, sembra centrata la scelta dell'editore EDB di proporre il libro Breve storia della pioggia. Dalle invocazioni religiose alle previsione meteo dello storico sociale Alain Corbin (pp. 64, euro 9, traduzione di Valeria Riguzzi). Si tratta di un volume che riprende parte del più ampio La pluie, le soleil et le vent. Une histoire de la sensibilité au temps qu'il fait e che ha senza dubbio il merito di placarci per meditare qualche istante sul nostro rapporto col meteo e con i nostri meteorismi.

La ricerca storico-sociale di Corbin situa nel Settecento il momento in cui la sensibilità moderna per il meteo inizia a ingrossarsi sempre più, sino alla valanga parossistica di oggi. La sua è una digressione storica e letteraria, poiché è possibile per lo storico fissare in determinati testi e autori dei momenti inaggirabili della storia della percezione dell'acqua meteorica. Affronta il passaggio suddetto della secolarizzazione del cielo, consolidatasi con il progressivo raffinamento della meteorologia. Il saggio è troppo breve per dar conto di una storia che ha troppi rigagnoli ma allo stesso tempo è fortunatamente breve per porre un punto fermo di riflessione su un tema quotidiano. Il meteo è tema psicologico e politico per antonomasia, dallo spleen di Baudelaire si passa agilmente a espressioni che nell'uso comune sono diventate persino stucchevoli (da noi si pensi alla gramsciana "Piove, governo ladro!" e alle sue circonvoluzioni odierne). In "Pop Song 89" Michael Stipe dei R.e.m. canta "Should we talk about the weather? Should we talk about the government?". Meteo e governo, o meteo e politica se preferiamo, vanno a braccetto. Era il 1988, l'album Green e riguardiamoci pure il video, così anche le spalle mosse di Fabio Rovazzi e del suo "Andiamo a comandare" non ci sembreranno più così nuove...



martedì 13 dicembre 2016

"Editori vicini e lontani" di Cesare De Michelis

L'editore Gaffi in Roma pubblica all'interno della rifondata ItaloSvevo Editori vicini e lontani, raccolta di scritti di Cesare De Michelis (pp. 104, euro 14). I brevi capitoli di questo libro, accolti dalle pagine intonse della collana "Piccola Biblioteca di Letteratura Inutile", coincidono coi ritratti che il presidente di Marsilio Editori ha dedicato dal 1989 al 2016 a protagonisti dell'editoria, scrivendo per più quotidiani o supplementi culturali. L'abitudine di recensire libri dedicati a figure importanti dell'editoria è diventata in quasi un trentennio il pretesto per tracciare una piccola orografia e geografia dell'editoria italiana degli ultimi duecentocinquant'anni e per mettere assieme una corona di ritratti che sarà opportuno elencare per esteso: Giuseppe Maria Galanti, Edoardo Perino, Adriano Salani, Rocco Carabba, Roberto Bemporad, Piero Gobetti, Angelo Fortunato Formiggini, le famiglie Calabi e Mauri, Valentino Bompiani, Alberto Mondadori, Roberto Cerati, Giulio Bollati, Giovanni e Dino Fabbri, Gianni Bosio, Gianni Sofri, Giovanni Gandini, Roberto Calasso, Marco Cassini, Gian Arturo Ferrari e Klaus Wagenbach.

Il punto di vista individuale e da insider aumenta l’interesse per ogni singolo ritratto. Tuttavia, in un libro così confezionato, diventano rilevanti sia lo scritto introduttivo sia l’exodus che accompagnano gli articoli d'occasione raccolti in volume. Il primo, ad esempio, si apre in tono quasi apodittico affermando che “nell’andamento del mercato editoriale, nella sua stessa struttura organizzativa, si riflette impudicamente lo stato della vita culturale di un paese; è proprio come guardarsi nello specchio, si vede esattamente quel che c’è.” L’immagine dello specchio tornerà anche in chiusura dello stesso scritto, laddove Cesare De Michelis scrive che “nei libri si specchia il mondo che c’è e bisogna essere contenti che così sia, perché questa è la premessa di tutte le libertà”. L’argomentazione che vi troverete è efficace, anche se bisognerebbe sempre ricordare che non tutti gli specchi riflettono quello che c’è allo stesso modo (si pensi a quelli concavi e a quelli convessi) e anche il rapporto tra vita culturale e libri può entrare nello spazio di riflessione di specchi non piani.

Ricordo che anni fa, in un'intervista rilasciata proprio mentre frequentavo il suo corso di Economia e gestione delle imprese editoriali a Padova, De Michelis dichiarò che l’editore è essenzialmente "un operatore della logistica". Nel suo apparire così poco eroica e fascinosa, questa definizione prende di petto la vera protagonista del mondo moderno nel quale, in fondo, è nata l'editoria come la conosciamo: parliamo di quella logistica che permea di sé ogni angolo del reale e del pianeta, anche laddove circolano parole come "idee", "progetto" e "cultura". Persino la cosiddetta dematerializzazione dell'informazione ha implicazioni logistiche di prim'ordine, com'è evidente a chiunque osservi la rete e i suoi nodi. In questo quadro, una domanda a bruciapelo come quella che De Michelis si sentì fare a inizio anni Settanta dal presidente di Messaggerie “Ma lei a quanto vende al chilo i suoi libri?” assume un tono tutt’altro che bieco o prosaico. Del resto, proprio nei ritratti dei grandi editori che De Michelis inanella, emerge costantemente l’attenzione viva di questi pionieri per l’aspetto economico più brutale e non andrebbe mai dimenticato che anche l’invenzione del corsivo italico da parte di Aldo Manuzio servì anche a far risparmiare carta. Tutto questo ovviamente si colloca prima dell'editoria ideologica e di propaganda che ha conosciuto il Novecento.


Penso ci stia un appunto sul frammento in epigrafe che dice “meglio vendere i libri che si fanno che fare i libri che si vendono”. Col venir meno delle ideologie e delle linee editoriali, si è iniziato a parlare di editoria e progetto. Parallelamente, il grande meccanismo che l’editoria dei colossi sembra voler rincorrere è solamente quello rappresentato dal diktat del mercato. Sembra esserci un equivoco di fondo ed è qui che si inserisce il senso di quell’epigrafe, che sprona a evitare un’editoria di cultura trainata dalle sole leggi (spesso poi presunzioni di conoscenza) sulla vendibilità di un nuovo titolo. In un ipotetico gioco sull’uovo e la gallina traslato in editoria, sembra insomma che De Michelis suggerisca di preoccuparsi di fare i libri e porre l’istinto editoriale davanti al carro, per poi preoccuparsi, una volta fatto il libro, della sua "promozione" ("promozione" che in ambito editoriale è spesso sinonimo di "distribuzione" e "vendita"). Il lavoro dell'editore coincide anche con l'innalzamento dell'asticella di ciò che si potrebbe leggere. Insomma, meglio fare i libri e occuparsi di venderli anziché preoccuparsi delle vendite per mettere insieme i nuovi titoli.

Nell’ottica di De Michelis il mercato è un meccanismo semplice, “una regola pragmatica che premia soprattutto la capacità di previsione, che smorza qualsiasi illusione di linguaggi universali e di culture totalizzanti; seleziona le proposte, ma delude qualsiasi illuministico dover essere”. In questo ragionamento, ancora una volta, ne esce protagonista e rafforzata l’editoria di catalogo - paradigmatico in tale direzione è ormai il caso di Adelphi - ovvero l’idea di editoria fondata su questo dispositivo proiettato nel tempo e nella durata, in grado di superare anche gli ondivaghi meccanismi dei bussolotti finanziari e proprietari. Ne risulta una visione tutto sommato equilibrata dei destini dell’editoria libraria, la quale, anche alla luce delle nuove opportunità del libro elettronico, saprà rimanere lontana da discorsi inutili riguardanti soltanto le dimensioni (la dicotomia, divenuta quasi insopportabile, tra piccolo e grande editore) o l’omogeneizzazione e l'omologazione, che mal si addicono a un latore di diversità e libertà quale si mostra il nostro libro attraverso i secoli. Di certo le “sfide” e gli scenari sono mutati, non da ultimo quelli attorno al copyright, al modo in cui leggiamo e prima ancora scriviamo e, più banalmente, al modo in cui passiamo il tempo. Insomma, chi vivrà vedrà. Resta che quella del libro è sempre una vicenda interessante e avvincente da seguire, come tutte le storie di specchi, concavi convessi o piani che siano.

giovedì 8 dicembre 2016

Pirandello poeta. Il verso come «serio comento a questa fantocciata della vita». Un'intervista a Selene Gagliardi

Librobreve intervista #72 

L'espressione "Pirandello poeta" dovrebbe subito collocare in un terreno insolito, dal momento che quasi mai si ricorda Pirandello per le sue poesie. A perlustrare la produzione in versi dello scrittore siciliano ci ha pensato Selene Gagliardi, che da poco ha pubblicato il saggio Pirandello poeta. Il verso come “serio comento a questa fantocciata della vita” (Augh!, pp. 172, euro 14). Le risposte che seguono rappresentano un'opportunità per tornare a parlare di questo lato. Si affrontano anche temi "spinosi" come quello dell'analisi testuale, tornato - almeno un po' - alla ribalta nei discorsi generali attorno alla poesia, all'analisi del testo e al modo in cui insegnarla.


Luigi Pirandello (1867 - 1936)
LB: A quando risalgono gli ultimi studi critici sulla scrittura poetica di Pirandello e cosa si è voluto recuperare (o da cosa ci si è distanziati) con questo recente libro?
R: In realtà dei veri e propri studi critici sulla produzione lirica di Pirandello non sono mai partiti, o meglio non sono partiti studi organici, essendo le analisi della poesia pirandelliana sempre affidata all’iniziativa di singoli ricercatori appassionati alla materia. Sicuramente sono pesati molto i giudizi negativi di due luminari della critica letteraria novecentesca come Leone de Castris e Luigi Russo, che addirittura additò i versi dell’Agrigentino come opera di “scolasticume”. Una nuova spinta alla lettura del Pirandello lirico, tuttavia, si è avuta dopo la pubblicazione di una raccolta complessiva delle sue liriche, curata da Manlio Lo Vecchio-Musti e che prese vita nel 1960 (e non a caso nel ’66 e nel ’68 videro la luce due monografie sull’argomento, a opera rispettivamente di Francesco Bonanni e Vittoriano Esposito). Altro capitolo fondamentale è stato il convegno internazionale organizzato dal Centro Nazionale di Studi Pirandelliani di Agrigento, che nel 1981 venne dedicato proprio al Pirandello poeta. Probabilmente fu quello il primo, vero studio sistematico delle raccolte in versi dello scrittore. Da lì si accesero di nuovo i riflettori su una parte dell’opera pirandelliana tanto poco studiata. Personalmente, per comporre questo libro ho cercato di trovare una mia strada, evitando confronti diretti con chi mi aveva preceduto nell’analisi. 

LB: Come è nata l'idea di questa pubblicazione?
R: Il progetto è nato quasi per caso, trovandomi a sfogliare un volume degli anni Novanta che comprendeva tutte le liriche, i saggi e altri scritti vari di Pirandello: si trattava di una versione aggiornata della già citata raccolta a cura di Lo Vecchio-Musti, contenuta nella famosa e prestigiosa collana dei Meridiani Mondadori. Aprendolo e leggendone subito alcune parti, mi è venuto in mente che non avevo mai sentito parlare di un Pirandello poeta e che quindi mi sarebbe piaciuto approfondire l’argomento. Era il 2011 e a quel tempo stavo per laurearmi alla Facoltà di Lettere dell’Università La Sapienza di Roma e perciò ho proposto al mio relatore, Francesco Muzzioli, di affrontare il tutto in una tesi. In corso d’opera ci siamo accorti della scarsità delle fonti critiche, per questo ho tentato di fare analisi inedite sulle liriche di Pirandello. Una volta ottenuto il diploma di laurea, ho rimaneggiato un po’ la dissertazione e inviato lo studio a diverse case editrici. La proposta più convincente è stata quella di Augh. 

LB: Lo studio si struttura in due aree principali: nella prima si analizza il percorso lirico di Pirandello, mentre nella seconda si ricorre all'analisi testuale. Ultimamente, almeno tra gli addetti ai lavori e con particolare riferimento a come si insegna la poesia a scuola, si parla molto di analisi testuale. Quali sono gli strumenti e le linee di forza attraverso le quali si è strutturata l'analisi testuale sul corpus poetico di Luigi Pirandello?
R: L’analisi testuale viene abitualmente fatta nelle scuole, per affinare la capacità critica dei ragazzi, ma in realtà in ambito accademico è meno frequentata di quanto si potrebbe immaginare. Raramente nel corso delle lezioni universitarie c’è il tempo per prendere in mano un testo e farne una puntuale disamina, e d’altronde i saggi che illustrino dettagliatamente dei testi non sono diffusissimi, in quanto si preferisce dare spazio al resoconto dell’analisi o comunque andare meno a fondo per poter affrontare più tematiche. Inoltre, in ambito accademico c’è anche una disputa tra diverse scuole di pensiero su come approcciare un’opera, tanto che la storia della critica letteraria vede più “schieramenti” contrapposti. A mio avviso, tuttavia, è fondamentale tornare a leggere il testo direttamente. Innanzitutto è necessario avere una buona base di conoscenza delle figure retoriche, anche se potrebbe sembrare superfluo. Per me, al contrario, è stato fondamentale: ad esempio, andando a leggere la lirica Meriggio, sulla scorta della retorica mi sono accorta che Pirandello aveva operato un fittissimo ribaltamento degli stilemi poetici di d’Annunzio (e in particolare della sua lirica omonima di qualche anno prima), ribaltamento tutt’altro che evidente a una prima lettura dei versi. Per ambientazione, lessico e metrica i due componimenti sembrano non accostabili, eppure grazie all’analisi retorica è risultato evidente che Pirandello voleva imitare il Vate, ma per opposizione, andando a scardinare punto per punto il suo modo di fare poesia. Spesso la retorica ci mostra quello che i poeti non vogliono dirci apertamente.

Georg Simmel (1858 - 1918)
LB: Restano saldi in questa recente pubblicazione molti rimandi filosofici, che emergono anche affrontando il Pirandello poeta... 
R: Pirandello è nato nel 1967, quindi gli anni della sua gioventù e del suo sviluppo intellettuale li ha vissuti in un periodo in cui imperversava la cosiddetta filosofia negativa (si pensi soprattutto a Schopenhauer e Nietzsche, ma anche a Simmel e Bergson). A cavallo tra i due secoli sono in particolare tre i lasciti filosofici che l’Agrigentino eredita e rielabora: la concezione vitalistica del mondo, secondo cui la realtà sarebbe un flusso in perpetuo movimento, in eterno divenire, per cui il reale è ontologicamente disarmonico e contraddittorio; l’incapacità – derivante direttamente dal primo assunto – per l’uomo di comprendere davvero ciò che lo circonda, infliiggendogli continuamente un forte senso di smarrimento; la presa di coscienza che anche l’uomo stesso altro non era se non un insieme di varie personalità, continuamente in evoluzione, tanto che il concetto di identità, di io, appariva a Pirandello ridicolo (e in tal senso grande importanza ebbero le scoperte di Freud e di Binet, che portarono nello scrittore siciliano all’utilizzo della metafora della maschera). Da qui la caduta di ogni ideale e di ogni convinzione precostituita, così come la necessità di elaborare un’arte, quella umoristica, che mettesse in risalto le contraddizioni e del mondo al di fuori di noi e di quanto avviene dentro di noi. Ridendone di gusto.

LB: Non v'è dubbio sulla modernità del Pirandello drammaturgo. In che misura la sua scrittura poetica illumina (o è illuminata da) la sua scrittura di teatro o prosa?
R: Per comprendere in toto l’arte pirandelliana, bisogna considerare le date in cui le varie opere del Maestro (così lo chiamavano i suoi collaboratori) furono composte. Pirandello fu poeta costante nella prima fase della sua carriera (anzi, iniziò come poeta e solo dopo l’incontro con Luigi Capuana si diede alla scrittura in prosa). Eppure dal 1912 in poi l’Agrigentino non pubblicò più sillogi in versi, dedicandosi interamente alla scrittura di teatro, romanzi e novelle, lasciando alla lirica un ruolo marginale da un punto di vista editoriale (ma non da quello sentimentale, tanto che in realtà Pirandello non smise mai del tutto di comporre versi). La poesia, quindi, anticipa cronologicamente la grande produzione drammaturgica e novellistica soprattutto, precorrendo le tematiche fondamentali del Pirandello maturo (la caduta di tutti gli ideali, l’impossibilità di credere in qualsivoglia divinità o principio precostituito, una sorta di pessimismo di matrice leopardiana, la presenza dell’ipocrisia nella società borghese, la necessità per l’uomo di vestire una maschera per destreggiarsi nel mondo), ma mostra uno stile inedito rispetto all’umorista che diventerà e contiene in germe dei temi poi poco sviluppati, come la passione storica, l’amore smodato per la natura incontaminata, il bisogno d’amore.

LB: Vorrei chiudere con un passaggio dal libro.
Ma perché l’uomo, in un’epoca in cui si era accertata l’illusorietà del concetto classico di identità, non riusciva a rinunciare all’opprimente bisogno di velare il proprio indefinito volto con una deformante maschera? Pirandello fornisce una spiegazione di matrice esistenziale e sociologica: l’uomo comune non potrebbe mai sostenere la vertigine dell’assenza di una determinazione individuale, non potrebbe mai portare avanti la propria vita fronteggiando titanicamente la carenza di un senso ultimo dell’esistenza, non potrebbe mai accettare il distanziamento da quella società – che la rinuncia alla fossilizzazione in un’identità precisa comporterebbe – nella cui integrazione scopre la propria ragione d’essere. Ed esattamente come accade per i ragni, le lumache e i molluschi, condicio sine qua non per l’essere umano è possedere “un piccolo mondo […] per vivere in esso e per vivere di esso. Un ideale, un sentimento, una abitudine, un’occupazione – ecco il piccolo mondo […]. Senza questo è impossibile la vita”. L’umorista, allora, non può pascersi beatamente nel riso che una tale buffonesca condizione gli fa nascere spontaneamente sulle labbra, ma viene colto, immediatamente dopo, da un acuminato sentimento di compatimento per la miserrima vanità delle cose umane, alle quali comunque gli è impossibile aderire. Ogni uomo, del resto, soggiace non solo alla maschera identitaria che volontariamente si pone sul volto, bensì anche alle infinite categorizzazioni in cui a forza viene immesso dagli individui con cui entra in contatto. L’insieme delle classificazioni a cui ciascun individuo viene fatto corrispondere rappresenta la totalità di altrettante trappole, dalle quali qualunque esperimento d’evasione risulterebbe vacuo. L’autore, inoltre, individua una terza tipologia di maschera, per così dire “naturale” – oltre a quella sociale e a quella che ogni uomo si autoimpone –, che trova perspicuo riscontro nei versi della lirica su cui si sta ragionando: il reclusorio del corpo. (pp. 150-151)

lunedì 5 dicembre 2016

"Del sesso" di Jean-Luc Nancy

"Cosa facciamo quando facciamo l'amore? (domanda sussidiaria: in quante lingue si dice, più o meno letteralmente, fare l'amore?) Noi non facciamo niente nel senso di produrre qualcosa (se si fa un figlio, che lo si consideri o meno una produzione, non si tratta dell'amore in quanto tale, che potrebbe benissimo essere del tutto assente)." Del sesso, ennesimo librino di una serie dedicata dall'editore Cronopio a Jean-Luc Nancy (pp. 101, euro 10, traduzione di Antonella Moscati, Ida Porfido, Gianluca Valle, a cura e con postfazione di Francesca R. Recchia Luciani), raccoglie tre saggi riconducibili al tema così nitidamente espresso dal titolo. Sulla scia di un interesse filosofico in larga parte francese per questo argomento (si pensi anche alla perseveranza di una linea che da Sade arriva a Bataille, tralasciando il più scontato Foucault), anche Nancy arriva a occuparsi, per ora in forma estemporanea e puntiforme, di un tema che nei nostri discorsi di tutti i giorni è chiamato in causa sovente, talora perché "poco dibattuto e quindi sottovalutato" talora perché "sopravvalutato". Ho come l'impressione che entrambe le posizioni, estreme e per questo significative, coincidano con altrettante pose intellettuali o addirittura ideologiche, che non di rado sono riuscito a isolare persino nel mio ristretto giro di amicizie. Ben venga dunque un ritorno abbastanza schietto sul tema, in vista di un lavoro più ampio e organico che il nostro filosofo addottoratosi su Kant con Ricoeur sembra annunciare nella "Avvertenza" iniziale del volume. Proprio in questo suo breve scritto accompagnatorio, Nancy utilmente ricorda che il sesso designa
una linea di forza o di fuga che attraversa tutta l'esistenza, attraversando tutti i sessi, al plurale, e le sessualità. Quella linea che permette, come diceva Merleau-Ponty, che "la storia sessuale di un uomo fornisca la chiave della sua vita" - anche se questa chiave apre ad abissi o a spazi intersiderali.
Il primo scritto intitolato "Sexistence" contiene un passaggio chiave: se è vero che la potenza trasformativa del sesso è straordinaria e la sessualità è ambito rivoluzionario par excellence, possiamo far reagire questa considerazione col pensiero che fare l'amore "vuol dire disfare il mio essere, il mio possesso, la mia opera, è fare una non-opera assoluta". La nota finale di Francesca R. Recchia Luciani ricorda il succitato Kant in questo passaggio:
Nella «metafisica dell’amore sessuale» (intesa non come trascendimento ma come intensificazione della fisica da cui proviene) che Nancy presenta in questa trilogia di testi non c’è traccia dello stigma schopenhaueriano che condanna l’eros all’eterna dannazione della monotona riproducibilità seriale di esemplari della specie umana, perché non il fatto biologico della generazione col suo côté produttivistico-poietico («Fare l’amore fa altro rispetto al fare un figlio, anche quando lo fa») è qui l’interrogante quanto piuttosto la constatazione che «il sesso è un abisso e una violenza: tramite la seconda, che subiamo, cadiamo nel primo, dove non capiamo nulla». Semmai qui riecheggia l’esclamazione stupita e dischiudente di Kant che, scorgendo quell’«abisso» e quella «violenza», si ritrae dinanzi alle spiegazioni possibili ma tutte ugualmente inadeguate, alle quali Nancy contrappone la necessità, né esplicativa né analitica, ma coerentemente filosofica di «pensare il sesso con il valore di un esistenziale – di una disposizione inerente all’esercizio stesso dell’esistere». Se, come Nancy scrive in Corpus «l’amore è il tocco dell’aperto», fare l’amore è un posizionarsi inconsapevole, un collocarsi instabilmente «sul bordo di un ‘fare’ che fondamentalmente non fa che toccare il duplice al di là dell’animale e del divino, due nomi che non dicono altro se non che l’esistenza è la sua stessa deiscenza, una sexistence».
Il secondo contributo intitolato "C'è rapporto sessuale - e poi" è da leggersi in continuità con l'assioma lacaniano "non c'è rapporto sessuale", emerso quando Lacan leggeva la parola "rapporto" in modo duplice (in inglese relation e report). Il breve intervento, già uscito in "Littérature" 2006/2, si pone il problema di indagare cosa c'è dopo il rapporto sessuale e cosa rimane, anche oltre la tristezza, l'abbattimento e la sazietà della fine del rapporto. Rimane appunto il rapporto, che non è "né essere né divenire", ma qualcosa che indica ciò "che va da "uno-niente" a, oppure verso, un altro "uno-niente"". In un passaggio Nancy ricorda che il rapporto sessuale "indica che noi siamo senza origine e che non siamo in alcun modo origine di noi stessi. Il rapporto travolge arci-originariamente ogni autocostituzione, ogni autogenerazione." Il contributo si conclude con un'appendice intitolata "Esclamazioni", sul significato e uso pornografico della parola nei rapporti sessuali.

In "Corpo nudo", che chiude il trittico, Nancy si concentra più sulla intimità e quindi sulla nudità, la quale non è mai definitiva ed è descritta come "espressione dell'eterogeneo". Necessario è afferrare cosa intenda Nancy per "eterogeneo", perché ci torneremo anche in chiusura, tra pochissimo:

Quest'ultimo non indica un altro ordine o un elemento parallelo all'omogeneo. Di fatto, rappresenta la differenza interna all'omogeneo e con la quale l'omogeneo - in quanto spazio di trasmissione, della comunicazione, dello scambio e della condivisione - può dar luogo a dei veri fenomeni di "trasmissione" o di "condivisione", a dei veri rapporti. È necessaria l'eterogeneità dei soggetti, cioè dei desideri: desiderio d'essere o di "perseverare nell'essere" per dirla con Spinoza, o anche desiderio dell'altro, dell'altro essere o dell'altro dall'essere.
Ricordando l'interior intimo meo di Agostino, Nancy rammenta che "l'intimità del corpo nudo è più intima dell'intimo" e affonda il suo discorso sulla nudità e intimità, che fu pronunciato al festival di Modena nel 2011, in una direzione che s'allontana dalla considerazione del corpo nudo come "ultimo grado" di un processo di spoliazione, e lo inquadra invece come "esposizione di ciò che non si lascia cogliere né identificare come verità, o almeno non come una verità di adeguazione o di significazione". Quando due persone si spogliano, ricorda Nancy, si mettono nella condizione di non comunicare più, si spogliano dei segni e i loro corpi non sono più né segni né portatori di segni. Tra gli esseri si verifica "una sospensione dello scambio, una sincope del simbolico e l'effrazione dell'eterogeneo all'interno dell'omogeneo", la quale si manifesta quando il corpo nudo, a causa della sua nudità, diviene un corpo visto.

sabato 3 dicembre 2016

"A parte il lato umano" di Antonio Turolo (con una proposta per tornare a parlare di Naturalismo in poesia)

Il premio Ciampi di quest'anno è andato al poeta Antonio Turolo e ne deriva il libro fresco di stampa A parte il lato umano (Valigie rosse, euro 13). Il nuovo volume segue di nove anni la prima vera uscita su libro di Turolo, Corruptio optimi pessima (pubblicato per Nuova dimensione), la quale a sua volta seguiva di altri nove anni la comparsa della silloge Le parole contate in "Poesia contemporanea. Sesto quaderno italiano" del 1998. Al di là delle numerologie e ricorrenze, resta in evidenza la parsimonia e la temperanza di questo poeta trevigiano, dipinto come "appartato" anche nella nota accompagnatoria a questa nuova pubblicazione da Paolo Maccari. Certo che se il metro è il presenzialismo social di molti poeti attuali e il vivacchiare contento in quella sorta di GAE (Graduatorie A Esaurimento) che i poeti più anziani e posizionati aprono e chiudono a loro piacimento sui più "giovani" (gioventù: concetto e, ahinoi, brand a maglie assai larghe e poco serie), diventa doveroso spendere un aggettivo come "appartato" per Turolo, un aggettivo adoperato tra l'altro da una rubrica del popolare litblog "Nazione Indiana". Tornando alle suddette GAE, non è un mistero che a tutt'oggi sia simile alla cooptazione il meccanismo principe del funzionamento della repubblica italiana delle lettere. In realtà parsimonia, temperanza e intermittenza di scrittura sono, oltre che presenze costanti e normali della scrittura di Turolo, dati di realtà più riconducibili a un desiderato rimodellamento di un corpus ridotto di testi, alla luce di una "amministrazione" della propria poesia che ricorda un perimetro kavafisiano e un'agorafobia a tratti acuta (Kavafis, Corazzini e Giudici sono alcuni dei nomi spesi da Maccari nella sua nota). Ne segue - o forse tutto ciò anticipa - il palesarsi di una poesia che saccheggiava - e ora saccheggia meno - un immaginario famigliare, inteso come "immaginario della famiglia" e dei luoghi a questa circostanti. Il fruitore dei vecchi versi di Turolo non incontrava certo quella famiglia comunemente intesa dalla cosiddetta società dei consumi o quella precipitata, suo malgrado, in una certa poesia contemporanea che indugia, già da parecchi anni, sul pericoloso nonché noioso - per come è spesso giocato - binomio genitorialità-filialità (sta diventando un po' bigotta certa giovane poesia contemporanea, eh, sia detto tra parentesi). Chi ha letto le precedenti opere di Turolo capisce bene di quale immaginario famigliare sto parlando e chi non l'ha ancora fatto può rimediare con il libro pubblicato da Nuova dimensione e con certi componimenti di questo librino nuovo di Valigie Rosse che ha il pregio di contenere, in sostanza, quasi tutti inediti (si può acquistare qui). Ma se l'immaginario di un tempo era "famigliare" e anche "provinciale", in un senso consapevole, angusto e perimetrale del termine, lontanissimo dall'accezione comune dell'aggettivo "provinciale", ora con il nuovo libro, sia nelle poesie che nelle prose, Turolo scavalca un muretto di sofferenza nuovo e giunge in un campo più aperto e ancora più deserto, dove suggestioni cinematografiche plurime possono alternarsi a una contaminazione tra la vicenda del pugile Emile Griffith e del suo tragico combattimento contro Benny Paret del 1962 e i ricordi infantili di un ex-pugile che gestiva un bar in città (accade in "Bar delle Antille").

Il volume si divide essenzialmente in due parti, una dedicata esclusivamente alla poesia in versi e l'altra alle prose o prosimetri intervallate da poesie. Tra i componimenti troverete le opere di Riccardo Bargellini, che a mio avviso sanno ben accompagnare la poesia di Turolo, tanto quella di questo nuovo libro come anche quella passata. Affrontare la poesia di Turolo offre un banco per mettere alla prova l'annoso e mai risolto problema-piaga dell'autobiografia. Voglio dire che se da un lato si ha l'impressione di leggere qualcosa che rimanda continuamente alla biografia, allo stesso tempo Turolo ha sempre efficacemente messo in guardia dalla perniciosità di letture biografiche, sin da un memorabile passaggio che recita "Strano destino, quello dei poeti: / leggetene le opere, ragazzi, / non la vita". E come non dargli ragione. Tanti autori si sono spesi per questo imperativo giusto, eppure spesso ripiombiamo in un bigotto e morboso meccanismo che fa leva e rovista su pulsioni voyeuristiche che si rimpallano tra traccia biografica e traccia scrittoria. Questo non significa che il voyerismo non possa albergare nella scrittura come tema, nella fiction così come in poesia (o anche nel cinema), ma se una cosa è il voyerismo che abita l'opera un'altra cosa (e detestabile) è il voyerismo che talvolta si fa filtrare tra biografia dell'autore e sue opere, un'osmosi spesso avallata dal sistema editoriale e dalle sue magagne. Potremmo salvarci pensando che anche tutta la poesia è fiction, ma non basta, prova ne sia a un livello di percepito diffuso il successo crescente dei poeti che pare diano spazio a sentimenti "autentici", scene famigliari oneste, leali e edificanti. Non ci siamo, la poesia di Turolo mi è sempre parsa un buon antidoto e quel suo verso andrebbe ricordato più spesso e stampato nei proverbiali caratteri cubitali. Anche Italo Calvino si era a lungo battuto per spingerci verso un traguardo del genere, ma siamo ancora lontani. Il paradosso da svelare è che tutta la scrittura è autobiografia e, simultaneamente, non lo è affatto, non potrà mai esserlo. Ma sono cose note, oserei dire scontate. Sarebbe interessante applicare il metodo scientifico alla scrittura: ipotesi, esperimenti, fallibilità, ripetibilità.

Continuo sugli aggettivi in questa nota e per una volta vorrei cassare tutti quelli più usati per descrivere la poesia di Turolo fino a oggi: "secca", un abusato e sempre più incomprensibile "potente" (che significa?), "antimetaforica" o "priva di metafora", "piana", "essenziale". A me verrebbe da dire piuttosto poesia "confessionale", ma non è ancora il tempo per giocarsi la carta di questo aggettivo, primo perché non sono ancora convinto di saperlo argomentare fino in fondo e secondo perché non sono certo della percezione che tale aggettivo può incontrare. Inoltre, vi siete mai chiesti perché pare esista oggi una certa predilezione per una poesia che si vuole "autentica", nella quale la cerniera tra biografia e scrittura si fa stretta stretta e quello che leggiamo nel testo si palesa come vita del poeta che la riversa in qualche modo nel testo? (Gli esiti deteriori di questo filone sono quelli della "poesia onesta e leale" sbandierata senza cognizione di causa negli ultimi tempi.) E perché altri modi di fare poesia, più vicini alla fiction, e che pure non sono risultato di minor dolore, meditazione e rielaborazione da parte del poeta, passano in secondo piano? Vorrei provare a suggerire questo: la poesia di Turolo offre un interessante spunto per provare a reintrodurre nella mischia un concetto così vicino al Naturalismo. Se non fosse che tale movimento in Italia ha avuto esiti perlopiù meridionalistici soltanto, col Verismo, saremmo meno attardati nel dibattito attorno al mai sopito Naturalismo in letteratura e a una nuova poesia naturalista, se vogliamo contrapposta ad altri tentativi minoritari ma parimenti (se non a volte maggiormente) interessanti. Insomma, avverto la necessità di un discorso critico che torni a parlare di estetica e retorica in primis (l'enfasi degli slam poets sulla prosodia è solo una parte del lavoro, ora pare che la prosodia sia una loro scoperta). La bravura di Turolo è far apparire necessaria e invisibile la propria consapevolezza estetico-retorica e A parte il lato umano conferma questo dato di osservazione (si prendano a esempio certe concatenazioni consonantiche della brevissima poesia iniziale "Lutto").

Non voglio dilungarmi oltre o nella citazione di molti testi. Tra l'altro credo sarebbe un atto irrispettoso fare come certi blog che pubblicano molti componimenti di un nuovo libro di poesie, per giunta piccolo, e mi auguro di essere riuscito comunque a invitare alla lettura del nuovo libro (chi lo desidera può trovare qui alcuni inediti e qui la nota su Corruptio Optimi Pessima). Con questa pubblicazione notiamo uno spostamento nella scrittura di questo poeta che ci ha sempre detto, senza proclami altisonanti, di non apprezzare così tanto la propria vita, ma altresì ha detto e descritto dalla sua astronave con la quale ha attraversato lo spazio in un viaggio che è sì tra le persone ma che appare spersonalizzante (a parte il lato umano, appunto, QED - quod erat demonstrandum). Da un punto di vista di analisi mi è parso significativo questo passaggio di Paolo Maccari e con questo chiudo:

In ogni modo, mentre i versi sembrano redimere la scialba prosa giornalistica – di cui al contempo non si scordano – in un dettato piano, di intonazione endecasillabica meravigliosamente dissimulata (magari in scandite ipometrie: si vedano i frequenti novenari con accenti in quarta o sesta sede, a suggerire una brevità ancora memore della forma canonica), le prose che li seguono mimano una specie di contro-commento del protagonista, una mimesi della sua psicologia e un’altra versione del suo destino.
--=oOo=--

Ricordo l'appuntamento con la presentazione del libro:

venerdì 16 dicembre 2016 alle ore 20:45 
Palazzo di Francia, Via Roggia, Treviso

giovedì 1 dicembre 2016

"Nemici" di Anton Čechov tradotto da Leone Ginzburg (sull'orecchio dei traduttori)

Nei mesi scorsi ha fatto abbastanza discutere la nuova traduzione einaudiana di Anna Karenina a cura di Claudia Zonghetti. Non conoscendo il russo (e nemmeno così bene il romanzo tolstojano, se è per questo) ho approfittato dello pseudodibattito che si è creato attorno a questo "evento" editoriale (perché evento è, dal momento che non si propone una nuova traduzione di Anna Karenina ogni due anni). Così ho letto i vari interventi e interviste, comprato il libro tradotto da Claudia Zonghetti e archiviato tra i buoni propositi quello di leggerlo per primo appena chiuderò questo blog. Alla prima occasione poi mi sono procurato questo Nemici di Anton Čechov pubblicato da Quodlibet nella collana di ebook "Note azzurre". Che cosa c'entra quel dibattito con questo libretto e i suoi apparati? Nei modi in cui provo a farmi un'idea di certi dibattiti sulle traduzioni, il passaggio per questa pubblicazione c'entrava, perché l'ebook di cui accanto vedete la copertina mi sembra valido per più motivi: i) il racconto di Cechov in sé, ovviamente; ii) la nota del traduttore Leone Ginzburg (che fra l'altro altro, come noto, fu traduttore della Karenina prima di compiere vent'anni, consegnando il proprio lavoro all'editore Slavia che lo pubblicò nel 1929), iii) il modo in cui è strutturata la nota iniziale di Giovanni Maccari e iv) il fatto che il tutto, in poche pagine, fosse venduto a 1,99 euro, quando un libro scarno del genere, se confezionato su carta in un determinato modo, può arrivare a costare anche 9 o 10 euro (il punto non è pagare a volte 10 euro per libri sottili, il punto per me era iniziare a analizzare la convenienza e l'opportunità di certi ebook). Mi interessava in particolar modo il discorso di Ginzburg concentrato sulla traduzione e sulla traduzione di Čechov segnatamente. 

Quali sono i passaggi fondamentali del testo di Ginzburg? Sono quelli dove analizza la situazione delle traduzioni dal russo del suo tempo prendendosela in particolar modo con un certo Kociemski, caso emblematico dell'ignoranza e della superficialità che ancora aleggia nel campo della slavistica. E poi sono quelli contenenti le osservazioni sulla lingua cechoviana. Di certo è impressionante notare ancora una volta la mole di lavori e progetti intrapresi o tratteggiati da questo intellettuale internato nella località abruzzese di Pizzoli già nel 1940 e morto dopo tortura dei tedeschi a 35 anni neanche compiuti nel carcere di Regina Coeli. Il campione della sua prosa che troviamo nella nota posta in coda a questa pubblicazione è un esempio fulgido di rigore e puntualità che fa sbiancare i contemporanei lettori (l'effetto con me è stato questo e penso potrebbe essere l'effetto anche con altri).

E il racconto di Čechov? Si tratta di uno dei grandi capolavori del corpus cechoviano, autore che assieme a altri ha perlustrato la forma racconto ricavandone esiti ancora oggi invidiabili e ineguagliati. Ho come l'impressione che il talento - se ha ancora senso parlare di qualcosa del genere per gli scrittori - sia più facilmente individuabile in uno scrittore di racconti. Qui siamo alle prese con un medico, Kirilov, che nel momento in cui perde il figlio di sei anni è trascinato da un trafelatissimo Abogin capitatogli in casa a uscire per recarsi in soccorso della moglie, che in realtà ha solo finto un malore per fuggire con l'amante. Tra i due nascerà un alterco. La traduzione di Ginzburg è quella finita nel volume Narratori russi che Tommaso Landolfi curò nel 1948 all'interno della collana "Pantheon" di Bompiani. Oppurtuno ricordare che Čechov non fu tra gli autori più frequentati da Ginzburg e ciò, ai nostri occhi e orecchi, aumenta la preziosità di questa sua versione e di questa proposta editoriale.

E la nota iniziale di Giovanni Maccari, infine? Il suo è uno scritto che si sviluppa in più direzioni, tra l'analisi stilistica, la traduttologia e, inevitabilmente, la storia della ricezione letteraria. Il titolo del racconto diventa la lente per ingrandire la tesi, ovvero che il nemico "è l'altro quando le circostanze rendono impossibile assimilarlo a sé". La sua nota è, forse indirettamente, un opportuno stimolo per lasciar fuori certe piaghe dei nostri dibattiti e meccanismi percettivi del testo letterario, come potrebbe essere quella dell'autobiografismo nella scrittura. Ci invita ad ammirare come Anton Čechov costruisca racconti, situazioni, dialoghi e personaggi per poter fare qualcosa di ben preciso: osservarli. Questo aspetto dell'osservazione cechoviana mi sembra uno dei suoi lasciti più determinanti e fecondi: si scrive anche per osservare degli effetti, per produrre un esperimento, sensate esperienze per dimostrare qualcosa. Il progetto di un'opera esiste e preesiste, ma lo scopo dell'osservazione può avversarsi strada facendo nella scrittura e, parimenti, nella lettura. Di qui ne consegue la rilevanza di qualsiasi discorso sulla traduzione: rendere questo atteggiamento di osservazione che uno scrittore costruisce - nel caso di questo racconto cechoviano osservazione concentrata sull'"egoismo degli infelici" - è uno dei plurimi compiti di un traduttore. Insomma, per impostare un dibattito sulla traduzione da una lingua poco praticata come il russo è meglio provare ad allenarsi su questa snella pubblicazione di Quodlibet anziché correre dietro alle reazioni suscitate dalla nuova versione di Anna Karenina di Claudia Zonghetti. Non è sempre vero il vecchio motto delle pubbliche relazioni che dice "l'importante è che se ne parli", no. Infine mi pare che sia Ginzburg su Čechov che Zonghetti su Tolstoj pongano giustamente un problema di "orecchio". Non è un fatto secondario parlare di orecchio quando si traduce e questo posso finalmente affermarlo anche senza conoscere il russo.