Con Simone Marcuzzi (Pordenone, 1981) ho un debito. Quando lessi il racconto dedicato ad un agente Vorwerk-Folletto contenuto nel libro d'esordio Cosa faccio quando vengo scaricato e altre storie d'amore crudele (per Zandegù, l'interessante parabola editoriale di Marianna Martino, dal 2005 al 2010) esultai. Finalmente qualcuno era riuscito a raccontare in modo esilarante un'esperienza pazzesca alla quale anch'io e mio fratello avevamo assistito increduli da piccoli: l'assedio dell'agente della Vorwerk-Folletto alla nostra casa e le risate che per mesi ci regalammo a ricordare il suo slancio performativo-persuasivo con nostra madre (fortunatamente nostra madre non ha mai ceduto alle sirene di un folletto e anche a lei sono grato, per questo).
Quello che voglio dire, tralasciando tutta la dottrina che si potrebbe sviluppare su questo folletto verde che deve pensare alla pulizia delle nostre case, è che provai quel senso di gratitudine per chi scrive bene una cosa che ti riguarda. Anche per questa ragione lo leggo volentieri quando oggi, per Laurana, pubblica un libro intitolato 10 italiani che hanno conquistato il mondo. L'operazione editoriale è furba, ma non per questo "bastarda" o "figlia di puttana" (tanto per usare una coppia di aggettivi che Gaber applicava rispettivamente a sinistra e destra): provare a raccontare dentro il format della collana "Dieci!" 10 personaggi che, partendo dall'Italia, hanno davvero conquistato il mondo con quello che hanno fatto, il tutto in un frangente storico di eccesso di ribasso delle azioni italiane a livello mondiale. Gli italiani ai quali pensa Marcuzzi vanno a formare un gruppo davvero eterogeneo per genere, età, epoche, estrazione, mestiere. I suoi dieci italiani sono vissuti e declinati al presente, in episodi di vita, ed è anche questo il bello del libro. I nomi? Giorgio Armani, Juri Chechi, Dante, Leonardo Da Vinci, Enzo Ferrari, la coppia Leone-Morricone, Rita Levi-Montalcini, Luciano Pavarotti, Pinocchio, Moana Pozzi. Ed è pure convincente il modo in cui questi dieci personaggi abitano i racconti di Marcuzzi, le varie epoche della sua adolescenza e giovinezza, tra famiglia, amici, compagni nello sport, università, primi colloqui di lavoro con le ragazze delle agenzie interinali, allorquando si instaura un rapporto di 1:1 tra colloquio e innamoramento!
Tra tutti i dieci movimenti che costituiscono il libro, il più riuscito resta a mio avviso quello dedicato a Juri Chechi e, contestualmente, alla prima estate in solitudine trascorsa dall'autore (i genitori in Tirolo, e il fratello a Lignano, i quindici anni, tutte le discipline più bislacche dei Giochi Olimpici di Atlanta da poter divorare in televisione mangiando schifezze). Il finale del brano dedicato a quest'estate e a Juri Chechi è molto bello. Ne trascrivo un pezzetto:
"Come sempre, a esercizio terminato, la regia indulge sui replay. Al ralenti, la posizione della croce è ancora più straziante. Dura quattro, cinque secondi, e amplifica il mio turbamento. Certo, la muscolatura di Juri Chechi è tutta uno spasmo, gli anelli e i canapi fremono, ma lui è fondamentalmente disteso, consapevole, quasi raggiante.
Finalmente capisco. Questa sera Juri Chechi, oltre ad aver scritto una pagina memorabile per la storia sportiva italiana, mi ha insegnato qualcosa. La serena accettazione della morte non coincide con una rinuncia. Raccogliere la sfida, pur conoscendo già il finale, se da un lato rivela la provvisorietà dell'uomo su questo mondo, dall'altro la fa risplendere. E se ci provassi anch'io?"
Sono andato a rivedermi quella perfetta esecuzione agli anelli, la croce è davvero impressionante, il volto di Chechi perfetto, l'attimo che precede la croce, il passaggio di Chechi da orizzontale a verticale, mi ha sciolto. Ammiratelo. Credo che se il mio lavoro oggi fosse nell'insegnamento inizierei l'anno scolastico mostrando questo video, facendolo vedere fino allo sfinimento per un'ora, soffermandomi persino sul ralenti della croce (la gravità sembra sparita, Chechi sembra appoggiare i piedi su un piano) e sull'attimo in cui i piedi di Chechi impattano su quel tappeto blu, dove si posa sempre un po' della polvere di gesso che gli atleti hanno sulle mani e che - fortunatamente - nessun folletto mai aspirerà!
Fantastico Chechi, fantastico. Ne avessimo in questi Giochi di Londra uno così!! Luca
RispondiElimina