Una poesia
da #7
Quando penso alla poesia cinese, inevitabilmente passo/cedo al pensiero della
traduzione e della vicenda della poesia cinese in Italia negli ultimi decenni. Ritorno allora, immancabilmente, alla prefazione che Montale dedicò
al fondamentale volume curato da Giorgia Valensin e dedicato alle liriche
cinesi dal 1753 a.C. al 1278 d.C. e naturalmente a quell'immane lavoro di cura
della traduzione.
Quasi dieci anni fa, per la cura
altrettanto lodevole di Claudia Pozzana, Einaudi pubblicò Speranza fredda (pp. 134, euro 13), un libro di Bei Dao, tra i più importanti poeti cinesi contemporanei, nato
a Pechino nel 1949.
Ora io non so davvero come suonino
queste poesie in cinese. Le vedo, nella generosa versione con testo a fronte
che Einaudi pubblicò e che da qualche settimana naviga tra scrivania e
comodino. Le vedo soltanto, come posso vedere un'affissione pubblicitaria in
cinese. Leggo la prefazione di Claudia Pozzana, così brava a condurmi davanti
al pensiero radicale del poeta sulla poesia, alla sua concezione dell'assenza che risale fino a Wallace Stevens (un autore amato dai poeti cinesi d'oggi),
della lontananza, della distanza (la traduttrice intitola il suo intervento
proprio La lontananza della poesia. Introduzione a Bei Dao). Mi affido
quindi alla sua traduzione per la poesia che ho scelto, non prima di avervi
rinviato a uno studio dell'autrice uscito per Quodlibet, di cui qui trovate un breve ma
significativo estratto.
PUBBLICITÀ
I gigli battono i piedi sulla seta dell'alba
i colombi declamano i sogni dell'umanità
in questo clima di svendite
sentiamo il tuono dell'oro
La libertà avanza con circospezione
il dolore della notte, dilatato dagli occhi di un gatto
diventa un gigantesco pneumatico
l'ombra delle nozze fa una svolta d'emergenza
Il nuovo dittatore eletto dai giornali
saluta con la mano fra le crepe della città
fumo di cucina che implora la guerra sale
fino al sole, a quest'ora apre il fiorista
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