sabato 8 settembre 2012

Fabio Franzin e "Il groviglio delle virgole"

Ripescaggi #15












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Ecco un altro ripescaggio, una recensione a Il groviglio delle virgole di Fabio Franzin (Ascoli Piceno, Stamperia dell’Arancio, 2005, pp. 64, 8,00). Fu un libro importante in lingua (come il recente Canti dell'offesa, qui recensito). Si tratta di un volume piccolo che si colloca prima di un lungo e importante "ciclo" di scrittura in dialetto che ha legato il nome di Franzin all'insieme di voci più meritevoli d'attenzione nel panorama italiano contemporaneo. La recensione che segue uscì sulla rivista "Semicerchio", nella bella rubrica dedicata alla poesia italiana curata da Fabio Zinelli.
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Il groviglio delle virgole è un titolo ossimorico, che mischia un piano figurativo ad uno testuale. Così è anche la poesia di Franzin, nel suo mettere un ordine linguistico dentro una sfilacciata materia tra le intermittenze del sentire. Nel componimento che dà titolo al libro è fin troppo facile ritrovare qualcosa che possiamo considerare alla stregua di una dichiarazione di pensiero-poetica: «oltre la rete che sempre c’è / che sempre separa il dolore / dalla gioia, oltre quel recinto / arrugginito le mute macerie / del mio scrivere maturano / ortiche, vive virgole e papaveri. / / Il cumulo si erge come un’oasi / depredata, sopportando il gesto / obliquo e incessante della pioggia. // Le grida sono schegge di vetro. // Gli incanti travi marce, spezzate // e le utopie pietre coperte dal muschio. // Il silenzio è il telaio di una finestra / addossato al nulla nell’insistenza / precaria di un suo sempre più assurdo, / sempre più misterioso equilibrio».

Ci sono scelte linguistiche che aprono continuamente ‘cassetti’ nella poesia di Fabio Franzin, ma fanno questo in stanze-poesie profondamente diverse l’una dall’altra, creando così un effetto di novità ottenuto con quanto è già assodato dal punto di vista lessicale. Il ‘muschio’, ad esempio, copre le pietre nella poesia già riportata, mentre fa da letto alle noci nella bellissima poesia di poco seguente: «verde è il mallo delle noci / adagiate sopra il muschio / dietro la grande casa abbandonata. // Penso a quei tonfi attutiti / nell’ombra perenne dove riposano / memorie di donne e di pollame. // I tre alberi persistono nel rito / antico di una fruttificazione destinata / a marcire, beccolata, qua e là, dalle gazze. // In quei tre alberi ritrovo l’ostinato, / discreto bussare – con le nocche infreddolite – / al portale di feltro dell’amore». Il passaggio pendolare dalla terza alla prima persona, da oggetto a soggetto, così evidente nel testo citato, è una cifra ricorrente nella tessitura di questi versi. Più che a una versione contemporanea del correlativo oggettivo di memoria eliotiana-montaliana, siamo di fronte a una sintassi che si fa essa stessa correlativo oggettivo di una situazione psicologica di volta in volta rinnovata.

Questo libro avrebbe potuto anche portare il titolo di un saggio dell’antropologo Marc Augé: Rovine e macerie, soprattutto ripensando a quei punti dove lo studioso francese afferma che le macerie di oggi (architettoniche od esistenziali) non hanno più il tempo di diventare rovine, vale a dire quanto di più efficace possa esistere per riportare per un attimo l’uomo in una dimensione di tempo puro, ‘non databile’, perduto, lontano dalle accelerazioni e dagli aggiustamenti impressi dalla storia. L’arte solamente può riuscire nel tentativo di ritrovare quel tempo. Il parallelo saggio-poesia chiama a raccolta le potenzialità della scrittura nel ritrovare il tempo perduto delle diverse epoche dell’esistenza, o, lasciando Proust per Leiris, delle età d’uomo. Nel componimento Natura leggiamo: «si sono impressi / nel palmo delle mani / i fulmini. O sono forse il calco / fossilizzato di radici, di rami? // Poi l’autunno accoglie l’inverno. // Il tuono riecheggia fra i ricordi / e l’edera si attorce al vecchio / tronco della parola. // [...] Foglie secche sono ammucchiate contro / i piedi. Il silenzio arde sotto il costato. // Le prime piume, sulle scapole, / sono scure. Il muschio, sulla lingua, si stacca, secco, a scaglie». Si sarà notata una terza occorrenza della parola ‘muschio’, questa volta integrata in un contesto di corporeità, in una chiave assai lontana dalle precedenti.

Il volume si è aggiudicato la XVI edizione del Premio Nazionale di Poesia ‘Sandro Penna’ per l’inedito. Del miglior Penna Fabio Franzin ha sicuramente ereditato la pressione (o il peso, se così si può dire) con la quale lo sguardo si posa sulle cose. È una questione di dosaggio di energia e di attenzione.

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