giovedì 31 gennaio 2013

"I padri" di Giulia Rusconi. Collezione, collazione e colazione di padri


I padri di Giulia Rusconi (Ladolfi Editore, pp. 50, euro 10, prefazione di Anna Maria Carpi) è un libro che colpisce, spiazza e lascia attoniti, e tuttavia volenterosi di far ritorno ad esso. L’autrice (veneziana, non ancora trentenne, un'iniziazione alla scrittura che risente molto del vicino-lontano Goffredo Parise e che si ravvisa nell'intelligenza situazionale) ci consegna uno degli esordi più convincenti degli ultimi tempi. Lo segnalo qui rallegrandomi, come è giusto che sia quando un bell'esordio compare, dopo aver fatto lo stesso con il libro di Marco Scarpa (ma in Italia ci sono ottimi primi libri di poesia e vorrei quasi dimostrare la presunzione che questi siano più di quelli che escono in altri paesi europei). Il fatto che per primo mi ha scosso - e che tuttora continua a persuadermi della bontà di questa raccolta - è la scelta netta di un tema preciso, individuabile, attorno al quale viene costruito un libro stringato e rapidissimo di trentuno componimenti che variano dai 7 ai 10 versi. Si tratta di un tema che sta tutto nel semplicissimo titolo scelto dall'autrice e che pure non dice molto. Di certo quel titolo non dice tutto. Inganna, contraddice, perché è questa una poesia di contraddizioni vicinissime, coaugulate persino nel passo breve di alcuni testi (una delle madri, protagoniste di secondo grado, ad esempio, “Non mi insegna niente e mi piace” anche se, poco oltre, "mi insegna a prendere posto / a disegnare contorni.”). Chi ha scritto questi versi lascia cadere tra le pagine una "collezione" di padri che può sfociare in "collazione" e - mi perdonerete i giochi di parole che si susseguono - persino in "colazione". I padri sono collezionati e tenuti tutti dentro a guisa di matrjoska da lei, "la grandissima". Giulia Rusconi - o perlomeno chi dice io in questi componimenti - colleziona, collaziona e fa colazione di padri. In una poesia si arriva addirittura al padre numero "novanta" ("...padre della dimenticanza / parla di Wittgenstein / e di Aufhebung e decostruzionismo"). Naturalmente è forte il senso di straniamento che deriva dalla lettura di un libro che si ingurgita col fiato tirato, a bocconi e pure con qualche sorriso franto, sperduto tra i denti, che sale dal nonsense latente, come nella poesia in cui lei è a cena nella luce rosa "con uno dei miei padri" (curiosa la variatio applicata a "padre", il termine più ricorrente dell'opera) che insegna le buone maniere e dove leggiamo "Io che odio il bolo subisco / questo cimitero. Ma lui / è fra tutti il preferito / poco paterno pochissimo padre.". Se nonsense può sembrare, è altrettanto vero che è questo un versificare che parla schietto a noi della nostra epoca transgender (così come efficacemente notato nella prefazione), più di tanta altra calibratissima e celebralissima poesia. Leggiamo così una carrellata di padri che si sussegue per gesti, situazioni, scene, pensieri, ricordi, moltissimi insegnamenti (in questo ravviso Parise, padre tra i padri, padre di sillabe e di luoghi).

"Padri", al plurale, nella nostra lingua è usato spesso in senso culturale, politico. L'operazione dell'autrice è invece una violenza sul plurale dell'accezione comune della parola "padre" e forse su un recupero etimologico della radice di "padre", "pa-", che rimanda alla “protezione” e al “nutrimento”, non tanto o soltanto materiale. Nella poesia che si apre con la bellissima endiade di sostantivo e aggettivo in enjambement "Tutti mi dicono che sono una donna / e bella e che ho spalle ampie...", troviamo la chiusa bisticciante con la parola "faccia": "Io non cerco che una mano / grande che mi copra tutta la faccia / non mi faccia invecchiare." Di qui la protezione, il nutrire il tempo. I padri di Giulia Rusconi non sono tutti "mali necessari" come pensava Joyce e forse, con un pizzico di blasfemia, si può dire che i padri si scelgono, si conoscono strada facendo ("Ho conosciuto un padre / è il numero duecento / mi ha insegnato che cos’è l’addio") oppure, per sottrazione, si ignorano ("Ho un padre che non conosco / l’ho visto una volta so come si fa / chiamare so che non parla / quasi mai e che vive in una buca / piena di ossa di lupo / occhi di vetro e angeli maestosi."). Talvolta la riluttanza nell'utilizzo delle virgole o di altri segni di punteggiatura conduce a riflettere, eppure non può che confermarsi come scelta consapevole e dettata - suppongo - dalla tornitura del verso, dalla sicurezza delle cose che chi scrive deve assolutamente dire. Rare sono le rime, più facile rilevare delle assonanze in chiusura dei testi, scie vibranti che sembrano fermare la voce a un passo dall'abisso della chiusa, dal contatto tra anime, come in "diventata brutta / ancora ne porto il lutto", oppure, nella poesia del "nuovo padre" (che insegna la pazienza, beve caffè decaffeinato, "...tiene / le mani a riposo sulla fòrmica",  insegna a dire grazie, ad aspettare che cali il sole) quando dice: "... «Fumiamone un’altra / e poi andiamo». Ma piano."

L'apertura del libro, su questo punto della sicurezza del dire e su questa sorta di cannibalismo messo in atto dalla scrittura, non lascia scampo, visto che viene subito sgomberato il campo dall'utilizzo della parola "papà": "Non ti voglio chiamare papà / è troppo infantile / viene in mente la pappa e allora / ti mangio ma orfana / sarò forse perduta." La seconda poesia cade invece ossessivamente sui suoni che rimandano alla radice che ho menzionato (pa-, pa-, -pe-, -po, -pa-, pi-, pa-, pe-, pa-, Pe-):

Mio padre mi insegna a parlare
per la seconda volta.
In una stanza calda mi legge Invernale
e «vile» gli esce fra i denti.
Anch’io ripeto, balbetto 
e inciampo e imparo con lui.
Quando ero piccola mio padre
- l’altro - si è perso
la mia prima parola: era
a Pechino, in viaggio di lavoro.

E le madri? La parola "madre" compare più volte. In questo libro brevissimo c'è posto persino per "alcune" madri. Insegnano il dolore, ad accarezzare, il carteggio o anche niente, come la seconda. In un caso è addirittura chi dice io nei versi ad essere madre-moglie del nono padre, in una sorta di vertiginoso percorso che pare atterrare sui terreni neanche troppo simbolici dell’incesto: "Sono sua madre perché è piccolo / e non sa fare niente. Ma / ha un pene molto grande / che mi convince e non divorzio mai." (Dicevo Parise, ho ripensato a L'odore del sangue.) Il titolo e la ripetizione ossessiva sui padri non deve portare all'errore di gettare in ombra questa epifania di madri che smembra finalmente quell'unico e goffo blocco unigenerazionale (quell'unico viso orribilmente senza età) in cui sembra essersi trasformata la linea madre-figlia, sempre più piatta, talvolta sempre più insipida e frolla (con l'aggiunta surreale persino delle nonne, talvolta). Non credo debba passare in secondo piano questo ricorrere più parsimonioso alle figure di madri. Ed è questo un passaggio chiave per dire che, se la figura dell’uomo esce bastonata da queste pagine (anche se questo non è certo un libro pseudofemminista o neofemminista), la figura femminile non ne esce aumentata a discapito. Tutt’altro.

Scrivevo in apertura della "collazione" di padri. Se prendiamo un qualsiasi dizionario, a questa voce troviamo il significato filologico di confronto tra diverse copie di un testo manoscritto o a stampa. E tutti i padri enumerati nei vari testi ("il mio quinto", "il numero tredici", il ventesimo, "(il nono)", "mio padre numero diciotto", "il numero duecento"...) potrebbero essere assunti a oggetto di collazione con un padre che non di rado l'autrice nomina con un inciso tra trattini: " - l'altro - " (e la silloge che visionai tempo fa e che ha dato vita al libro era intitolata proprio L'altro padre). Ma "collazione" potrebbe darsi anche nell'accezione di quell'istituto giuridico per cui "chi riceve un'eredità deve conferire al patrimonio ereditario tutti i beni che gli erano stati donati in vita dal defunto, in modo da dividerli con gli altri coeredi." In fondo questo è apertamente un libro sull'eredità e nella scrittura viene cannibalisticamente e ripetutamente elaborato un lutto condiviso con gli altri eredi: noi. Anche questo che fa la poesia di Giulia Rusconi.

Il libro si conclude con il testo che riporto per intero:

Quando ero piccola avevo due padri
uno non c’era l’altro c’era
e si scambiavano di posto il venerdì.
Bios mi insegnava a nuotare
a spaccare noccioline coi sassi
Calamus mi insegnava a scrivere
a mettermi in fila per due.
Bios rientrava e sapeva di treni
gli stavo in braccio sulla poltrona.
Calamus lo chiamavo papà
ma per scherzo, e in ombra.

Ecco, ogni padre ha un "posto". Collezione, collazione e collocazione di padri. E la scrittura olfattiva, di cui Parise fu esponente tra i più grandi (pure quel naso aquilino gli giovò), compare qui nella poesia conclusiva che fornisce la traccia, il contorno e le pareti dove sbattere la testa in questo libro-rompicapo, matrjoska o cubo di Rubik, che si potrebbe estendere e rigirare davvero all'infinito. E non a caso, proprio in questo testo conclusivo, ricompare la parola “papà”. Che cosa se ne fa l’io di queste poesie di tutti questi padri? "Li colleziono li metto in fila / sulla libreria e li conto sempre / e li classifico per età / per ordine di importanza / li seziono gli scambio le teste / qualcuna fa fatica a staccarsi dal collo." 

Rem tene, verba sequentur. Il vero di questo libro è nell'appropriazione primaria e istantanea della materia da cui prende abbrivio e che via via tratteggia inesorabilmente, la quale sta a monte, nei fori, nelle lacerazioni o pezzi mancanti che lascia intravedere tra un padre e l'altro (“Il contatto sì il pezzo mancante / della casa delle cose”). Le parole che Giulia Rusconi ha disposto per plasmarla sono venute poi e, con ogni probabilità, altre ne verranno. La sua è una poesia che parte a risemantizzare le parole il cui significato è dato per scontato. Ed è anche questo che mi fa pensare che l’autrice, contrariamente ad altre opere prime di poesia, avesse davvero qualcosa da dire, che abbia fatto bene a scrivere questo libro e che faccia bene a noi, ora, leggerlo, mangiarlo, deglutirlo senza alcuna concessione al tragico (“io al tragico sono negata”), ma con due piedi che piuttosto saltellano impazienti nei sempre più indispensabili e a noi congeniali spazi del grottesco.

2 commenti:

  1. Interessante e notevole presentazione. La prima sua che leggo. Grazie

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  2. Concordo, mi ha incuriosito... credo valga la pena cercare il libro che suppongo sarà quasi introvabile in libreria... Ilenia

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