Librobreve intervista #15
Ancora Shakespeare e ancora Shakespeare tradotto. Dopo l'intervista a Irene Fantappiè su Shakespeare tradotto da Karl Kraus, guardiamo ora verso la laguna. La casa editrice trevigiana Santi Quaranta, diretta dall'instancabile Ferruccio Mazzariol, ha pubblicato qualche mese fa un libro a prima vista curioso e assai compatto intitolato Shakespeare alla veneziana (pp. 102, euro 10, postfazione di Marco Paolini). La traduttrice dei 33 sonetti è Isabella Panfido, autrice a sua volta di libri di poesia e giornalista (del Corriere della Sera-Corriere del Veneto e, in passato, di Radio24, emittente per la quale ha condotto per qualche tempo una bella trasmissione dedicata alla poesia contemporanea intitolata "L'arca delle parole"). Non so quale sia la vostra reazione nel pensare al Bardo tradotto nella lingua lagunare. Dico che mi piacerebbe conoscerla perché da quella reazione si potrebbe iniziare a ragionare su molti spunti che riguardano Shakespeare, i suoi sonetti, i suoi precedenti traduttori, i dialetti e quello veneziano in particolare. Un po' è quello che abbiamo provato a fare con quest'intervista, le cui risposte ci introducono in quel peculiare laboratorio della traduzione che emana sempre gli odori più dolcemente acri e intensi e che, a volte, nel suo buio (perché in fondo tradurre è un'attività buia), pare illuminato e graziato da una luce sorprendente e laterale, come spesso accade nei quadri di Caravaggio.
LB: Nella genesi di questo libro c'è Lello Voce. Potresti raccontare come ha preso forma, anche editorialmente, con l'editore Santi Quaranta, il progetto di questo libro assai singolare contenente la traduzione in veneziano di 33 dei 154 sonetti scritti da Shakespeare?
RISPOSTA: Era il 2009 e a Udine si tenne un festival della traduzione dedicato ai 400 anni dalla pubblicazione dei Sonetti di Shakespeare. Per quella occasione da Lello Voce, uno degli organizzatori, fu 'commissionata' a otto poeti italiani la traduzione di tre sonetti a scelta, che sono poi confluiti in uno spettacolo/reading. A me fu suggerito di tentare una traduzione in veneziano. A cose fatte i colleghi poeti mi gratificarono del loro entusiasmo, in particolare Voce, Franco Buffoni e Pierluigi Cappello, affermando che il ritmo e la sonorità del veneziano ottenevano una riuscita eccellente, vicina all'originale. Così ho continuato e da tre sono arrivata a trentatrè. Poi, l'editore Ferruccio Mazzariol, coraggiosamente, ha deciso di inaugurare con i Sonetti in veneziano una nuova collana della sua Santi Quaranta. Una collana intesa a promuovere la tradizione della lingua e cultura veneziane.
LB: Una traduzione dello Shakespeare dei sonetti si trasforma inevitabilmente in un confronto con i grandi del passato che si sono cimentati con il Bardo, in Italia ma non solo. Nel tuo caso, qual è il rapporto con le precedenti versioni dei sonetti di Shakespeare? Se ci hai pensato, quale altro poeta non contemporaneo ti piacerebbe provare a tradurre, in veneziano? E contemporaneo, magari?
RISPOSTA: Non potevo non rileggere le traduzioni di Ungaretti, quelle poche fatte da Montale e da Sanguineti e Giudici. Ma la singolarità del mio strumento linguistico mi ha concesso uno 'sdoganamento', una libertà, diciamo, che mi ha costretto e permesso un unico confronto, cioè quello con il testo originale. A dire il vero non ho pensato ad altre fonti: ancora da Shakespeare ho tradotto il famoso monologo di Prospero dal 5° della Tempesta che ho letto in qualche reading e che in veneziano assume una forza davvero travolgente. Forse, chissà, l'Onegin di Puškin. Non saprei dire se mi interessa tradurre dal contemporaneo in una lingua d'antan come quella che ho usato per Shakespeare, non credo funzionerebbe.
LB: Ho letto del tuo confrontarti, anche con Giulio e Laura Lepschy, sulle difficoltà del veneziano. Potresti spendere qualche parola relativamente alle difficoltà intrinseche della scrittura in veneziano?
RISPOSTA: In generale scrivere il dialetto, che non è normato (i tentativi di una codifica sono a mio parere piuttosto inconcludenti e comunque esageratamente inclusivi, con il risultato di stringere nodi anziché scioglierli) è un affare complicato. Credo di aver fatto almeno venti revisioni per la grafia dei miei sonetti shakespeariani; i professori Lepschy, bontà loro, mi hanno suggerito alcune strade per semplificare e unificare la trascrizione fonetica di pronuncia, come per la <l> intervocalica, ad esempio, cioè <ela> o <quelo> che nella dizione si omette ma che è corretto segnare. Altro problema spinoso le differenti pronunce della <s> sorda e sonora e della <z>, consonante rarefatta nel veneziano eppure spesso addirittura doppiata.
LB: Quali sono i nodi dei sonetti nei quali hai trovato gli ostacoli maggiori? Sono perlopiù nodi sintattici, lessicali, fonici o di altra natura?
RISPOSTA: Lessicali, anzitutto, dato che non esiste un dizionario affidabile italiano-veneziano, ma solo il vecchio, insuperato Boerio che fornisce la traduzione dal veneziano all'italiano (un italiano esilarante, ottocentesco, meriterebbe un saggio). A parte questo, ho dovuto supplire con qualche artificio la mancanza nella lingua veneziana di termini astratti quali 'lontananza', 'distanza', essendo il veneziano lingua pragmaticissima. Ho rispolverato poi tutto l'armamentario poetico della grande tradizione seicentesca, ma anche la lingua di Goldoni e dei minori dialettali dell'Ottocento mi sono venuti in aiuto, in particolare per le forme avverbiali.
LB: Nel libro ripercorri anche la tua interiorizzazione del veneziano, in una cornice che rimanda in parte anche al tuo bel libro di poesia Casa di donne (Marsilio, 2005). Da un lato c'è il veneziano come lingua di una certa tua affettività calata in determinati contesti della tua infanzia. Dall'altro c'è la lingua altamente pragmatica di uno stato che è esistito per un periodo di tempo non trascurabile. C'è una sorta di fragile equilibrio in queste manifestazioni del veneziano, che talvolta sembra però cedere all'aspetto pragmatico. Eppure, a mio avviso, il risultato finale è notevole anche nei nodi più astratti e "sentimentali" dei sonetti e tu stessa ammetti che il veneziano ti ha offerto soluzioni impensabili con l'italiano. Ti chiedo di fare qualche esempio.
RISPOSTA: Ho scoperto di recente che anche nel dialetto romagnolo non esiste il verbo 'amare' e si ricorre alla forma, come in veneziano, 'ti voglio bene', più lunga – quindi meno ritmica, diciamo. Ma 'voler ben' ha una portata semantica molto ampia, duttile alle varie sfumature dell'intreccio affettivo del Bardo. Per i sonetti buffi, in particolare, come i numeri 42, 130, 143, 144 o fortemente allusivi come il 20, la ricchezza di espressioni semi-comiche del veneziano hanno trovato largo campo di impiego. Ma l'aspetto che ritengo vincente della traduzione in veneziano è la grande messe di parole tronche e mono o bisillabiche che ben si attagliano all'inglese, anche contemporaneo, e che permettono di serrare il ritmo, e manovrare l'ictus nel verso, in particolare nei difficilissimi distici finali, dove il Poeta racchiude spesso la chiave di lettura dell'intero sonetto. Un esempio per tutti: il distico finale del 124 che recita
“To this I witness call the fools of Time
Which die for goodness, who have lived for crime”
che in veneziano suona così:
“A testimoni quei piavoli de 'l Tempo ciamo,
che more par el ben, vissui de ingano”.
LB: Permetti una domanda-scorribanda, ma che credo sarà apprezzata dal pubblico di lettori di questo blog. So che segui con attenzione anche altre poesie straniere. Quella inglese e quella russa, la cui lingua tra l'altro conosci. Potresti citare i nomi di alcuni poeti stranieri che più ti hanno convinto negli ultimi anni? E se dovessi fare un tris di nomi rimanendo all'Italia?
RISPOSTA: Tra i russi il mio vertice assoluto è Mandelštam, tradotto molto bene da Remo Faccani per Einaudi e Josif Brodskij che però è tradotto non bene, di anglofoni sceglierei certamente Seamus Heaney e Elizabeth Bishop, tra gli italiani, la mia stella fissa è Vittorio Sereni. Forse non sono recentissimi... potrei aggiungere tra i contemporanei Tony Harrison, Adrienne Rich, Fabio Pusterla, Luciano Cecchinel, Antonella Anedda. Di russi contemporanei non saprei, il panorama è molto frantumato, mi pare.
LB: Per concludere ritorniamo doverosamente a Shakespeare. E a te. Qual è il tuo sonetto?
RISPOSTA: Direi il 73, per la dolente grandezza della riflessione sulla vita e la sua caducità, per la riuscita, e la fatica che mi è costato, il 20, una tessitura di sottintesi e doppisensi davvero complessa da rendere.
E allora, come omaggio all'intervistata e come assaggio per i lettori...
E allora, come omaggio all'intervistata e come assaggio per i lettori...
SONNET 73
That time of year thou mayst in me behold
When yellow leaves, or none, or few, do hang
Upon those boughs which shake against the cold,
Bare ruined choirs, where late the sweet birds sang.
In me thou seest the twilight of such day
As after sunset fadeth in the west,
Which by and by black night doth take away,
Death's second self, that seals up all in rest.
In me thou see'st the glowing of such fire
That on the ashes of his youth doth lie,
As the death-bed whereon it must expire,
Consumed with that which it was nourish'd by.
This thou perceivest, which makes thy love more strong,
To love that well which thou must leave ere long.
Quela stagion de l'ano ti pol vedar in mi
co zale fogie, o nisuna, o poche, pìndola
da quei rami che intel fredo sgrissola,
nui cori desfai, dove gera oseleti e dolci canti.
In mi ti vedi un zorno al so tramonto
co, al calar de 'l sol, zo a ponente sfanta,
e lo ingiote man drio man la note nera,
l'altra negra siera de la morte che tuto intela chiete sèra.
In mi ti vedi quel falivar de 'l fogo
che se nìa intela cenare de la zoventù
cofà intel cusso, dove che se desmorsarà,
fruà de la stessa fiama che lo gà impissà.
De questo ti te gà inacorto, e xe el to amor più forte
tanto da amar co tuto ti chi te sbandonarà de boto.
(Traduzione di Isabella Panfido)
Quela stagion de l'ano ti pol vedar in mi
co zale fogie, o nisuna, o poche, pìndola
da quei rami che intel fredo sgrissola,
nui cori desfai, dove gera oseleti e dolci canti.
In mi ti vedi un zorno al so tramonto
co, al calar de 'l sol, zo a ponente sfanta,
e lo ingiote man drio man la note nera,
l'altra negra siera de la morte che tuto intela chiete sèra.
In mi ti vedi quel falivar de 'l fogo
che se nìa intela cenare de la zoventù
cofà intel cusso, dove che se desmorsarà,
fruà de la stessa fiama che lo gà impissà.
De questo ti te gà inacorto, e xe el to amor più forte
tanto da amar co tuto ti chi te sbandonarà de boto.
(Traduzione di Isabella Panfido)
La penso come chi incoraggiò l'intervistata nel 2009... il veneziano rende!
RispondiEliminaBello!! Sapete di altri esperimenti del genere in altri dialetti? Annalisa
RispondiEliminaNon saprei dirle. A.-
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