Librobreve intervista #34
Il volume appena uscito per Feltrinelli |
Questa settimana è uscito per Feltrinelli, nella collana "Comete", Romanzi di Luigi Di Ruscio (pp. 551, euro 39), curato da Andrea Cortellessa e da Angelo Ferracuti. Il volume contiene i seguenti titoli: Palmiro, Cristi polverizzati, Neve nera e l'appendice Apprendistato. Di Luigi Di Ruscio, che da lettore conobbi quando pubblicava le sue poesie con Editrice Zona (qui ad esempio trovate un estratto de L'Iddio ridente), si può scrivere molto oggi, a due anni di distanza dalla morte, dopo tutto quello che non è stato scritto o detto prima. Tuttavia preferisco lasciare subito lo spazio alle risposte di Andrea Cortellessa e a qualche informazione di servizio. Una prima presentazione del volume appena uscito si terrà a Roma domenica 16 marzo, al festival LibriCome all’Auditorium Parco della Musica, alle 18 nello spazio Garage, Officina 3 (insieme ai curatori ci saranno Giorgio Falco e Alberto Rollo). Poi sarà la volta della "sua" Fermo, venerdì 21, al Palazzo dei Priori alle 18.30 (insieme ai curatori interverranno Peppino Buondonno, Massimo Raffaeli e Alberto Rollo). Seguiranno altre presentazioni a Milano e Bologna, ma non è ancora stato deciso dove e quando.
Luigi Di Ruscio (1930 - 2011) |
LB: È appena uscito per Feltrinelli Romanzi di
Luigi di Ruscio, libro curato da te e da Angelo Ferracuti. La prosa di un grande “spatriato”
(Di Ruscio emigrò giovane in Norvegia è lì morì nel 2011 a 81 anni) è accolta in
un circuito di pensieri che tenta di allargarsi. Quale il senso di questa
pubblicazione, oggi, post res perditas?
R: Dici bene Alberto, c’è urgenza di “allargare”, di far
spazio a Di Ruscio – quanto più spazio possibile. Il senso del libro spero sia
quello di una restituzione: di un
grande scrittore ai lettori che gli sono mancati in vita; come del pubblico
all’autore che quel pubblico lui, a modo suo, s’è sempre sforzato di cercare.
Una restituzione che il destino ha voluto, purtroppo, che Luigi non potesse
vedere coi suoi occhi. È un bene, allora, che il volume delle «Comete» assommi
a quasi seicento pagine fitte fitte (anche se un prezzo di copertina così
elevato, trentanove euro, mi pare sotto tutti i punti di vista assai
sbagliato), riuscendo così a far spazio a tutti i principali libri in prosa
(sino a Neve nera, l’ultimo in ordine
di tempo, che per così dire “completa” il tracciato memoriale di Palmiro e di Cristi polverizzati conducendoci nell’esistenza quotidiana di Luigi
nell’esilio norvegese).
Il senso di costrizione, di
claustrofobia quasi, che si respira direi soprattutto nella sua poesia, è un
portato della “stretta” esistenziale che poi, di là dalla filosofia (che è
comunque chiave d’accesso privilegiata alla scrittura di questo incredibile
autodidatta, sorprendente quanto Dino Campana un secolo prima…), è quanto portò
il giovane Di Ruscio alla scelta della spatriazione.
C’è molto dell’Italia di quei soffocanti anni Cinquanta, nel microcosmico
vicolo di Fermo che fa da protagonista nella prima raccolta poetica pubblicata
nel ‘53, a ventitré anni, col lancinante titolo scelto da Franco Fortini, Non possiamo abituarci a morire. Un’Italia
soffocante sul piano politico e culturale (cito sempre l’episodio della visita
alla musa del neorealismo “ufficiale” Renata Viganò, raccontato in Cristi polverizzati, come emblematico
dell’inconciliabilità di Di Ruscio anche cogli ambienti che in teoria avrebbero
dovuto essere i più ricettivi nei suoi confronti; è una storia proseguita anche
in seguito e che spero non si ripeta anche oggi…), almeno quanto sul piano
sociale ed economico.
Come tanti prima di lui, Ruscio
credette di potersi creare un minimo di spazio vitale attraverso la scelta
dell’emigrazione, ma in realtà a Oslo finì per rinchiudersi in un microcosmo
ancora più ristretto di quello della “Marca sporca” che aveva abbandonato: il
«fortino» del suo tavolino da scrittura che ha descritto Angelo Ferracuti,
entro il quale barricato Luigi picchiava a martello, implacabile, sulla
Olivetti 46 e poi sulla tastiera del pc. Come a duplicare spettralmente – in
quell’enclave linguistica che
annoverava un solo abitante – la febbre tayloristica del suo lavoro alla catena
di montaggio, nella fabbrica metallurgica dove ha picchiato per quarant’anni.
R: A differenza della sua poesia, quasi sempre reclusa nelle
sue pour cause martellanti cellule
ritmiche (spia di questa condizione “ferma” – ribadita dall’allusivo titolo
scelto da Di Ruscio per la sua prima autoantologia, Firmum, pubblicata nel ’99 – mi pare il basso tenore metaforico che
ha così ben descritto Massimo Raffaeli, il suo maggior lettore), la prosa dei
cosiddetti Romanzi incarna appieno
questo senso di reclusione esistenziale, sì, ma offre al lettore anche continui
squarci: apre brecce, opera slarghi insperati che trafiggono la colata delle
“lasse” prosastiche di tagli di luce lampeggianti, bagnandosi di una vitalità
(a un certo punto di Cristi polverizzati
Luigi cita proprio l’«accrescimento di vitalità» che associava alla poesia,
citando il Leopardi dello Zibaldone,
Alfredo Giuliani nell’introduzione ai Novissimi
– Di Ruscio scrive anzi «nuovissimi» – del ’61) e di una sensualità fragranti,
quasi efferate. Un po’ come era capitato a Palazzeschi un secolo prima,
racconta Di Ruscio che quando iniziò a scrivere in prosa – poco dopo l’esordio
poetico – lo fece con la stessa disperazione che si respirava nei suoi primi
versi; ma che a un certo punto (come, ha raccontato una volta Sanguineti per
spiegare la capriola, il capovolgimento in Palazzeschi, capitò a Kandinskij che
una sera, rientrato a casa, si sorprese ad apprezzare un certo suo quadro
poggiato a testa in giù…) quella cupezza e quella tetraggine si capovolsero in
satira e in grottesco, in umorismo, in comicità ribalda e travolgente. C’è un
riso esplosivo, nella prosa di Di Ruscio, che quando si scatena spazza via
tutto. È la forza vitale della scrittura che si manifesta, che prende
letteralmente corpo. Quando si assiste a un fenomeno del genere ci si sente
meglio, proprio fisicamente. Non mi pare poco.
R: Sì, il dolore o, per dirla con Heidegger (non so se fra
le ricche e strane letture filosofiche di Di Ruscio figurasse anche lui, ma
certo l’incipit di Cristi polverizzati
a questo fa pensare), la gettatezza:
l’angoscia di una condizione umana che appartiene a tutti noi, indipendentemente
dalle condizioni materiali in cui ci troviamo. Non a caso Luigi insisteva a
protestare contro l’etichetta manualistica cui le storie della poesia lo hanno
frettolosamente ridotto, quella di “poeta operaio” (lo stesso titolo della
seconda autoantologia, Poesie operaie
del 2007, andrebbe letto – come preferiva infatti pronunciarlo Luigi – «operaie
poesie»). Quella descritta dai suoi versi non è solo e non è tanto la
condizione operaia (che peraltro queste poesie riproducono, certe volte, con un
senso di fisica esattezza pressoché schiacciante: penso alla descrizione quasi
cronachistica di un incidente sul lavoro nella quarantasettesima delle Poesie operaie), bensì la condizione
umana in generale. Lo stesso aveva mostrato Simone Weil nel libro uscito
postumo che s’intitola La condizione
operaia, proprio, e che Fortini traduce giusto l’anno prima dell’esordio
poetico da lui prefato di Di Ruscio, nel ’52. Per scrivere quel libro Weil
doveva necessariamente averla vissuta sulla sua pelle (anche se fu storia di un
solo anno, la sua), la vita in fabbrica; ma solo per trascenderla nel ritratto
filosofico di una forma di vita che nella modernità, salvo privilegiate
eccezioni, è stata quella conosciuta da tutti noi. Una vita all’insegna della
subalternità, della repressione degli istinti, del tempo sottratto alla nostra
interiorità. Lo stesso ci mostra Di Ruscio, con l’ossessione per la figura
della ripetizione (che esplicitamente
riproduce il meccanismo della catena di montaggio) o attraverso l’allegoria del
chiodo. A Oslo, la fabbrica dove lui
ha lavorato quarant’anni produceva appunto chiodi: e tanto nella prosa che
nella poesia di Di Ruscio, il cui sostrato cristiano è importantissimo, questo
particolare diventa naturalmente il correlato oggettivo di un’esistenza crocifissa alla necessità, alla
contingenza, alla quotidianità. «Cristi polverizzati» – i crocifissi che
smercia il personaggio picaresco di Moscatritata nel libro omonimo – siamo
insomma tutti noi. In esergo a Poesie
operaie stanno quattro versi di Fortini: «Voi che da mille anni / Portate i
mali del mondo / E ne ridete / E ne morite».
LB: In un passo di Cristi polverizzati, ricordato anche da Massimo Gezzi in un suo contributo su Di Ruscio pubblicato in «Istmi – tracce di vita letteraria», si legge «Si sono invertite le parti, la poesia è diventata un fatto critico e la troverai meglio vagante nell’oceano della prosa, siamo rimasti fulminati e scottati giocando tra le altissime tensioni. Ogni verso speculato sino all’ossessione come si trattasse di un sillogismo, il sorriso della spontaneità è rimasto nella prosa, qui è ancora possibile il libero gioco dell’intelligenza». Mi sembra un passaggio pregno di conseguenze...
R: È quello che provavo a dire poco fa. Hegel, un autore che invece di sicuro Di
Ruscio ha letto (un suo esergo figura in Cristi
polverizzati), parlava di «prosa del mondo» per il mondo della «finitezza»
e «oppresso dalla necessità», in cui «ogni vivente
isolato rimane nella contraddizione di essere a sé per se stesso come questo conchiuso
uno, ma di dipendere al contempo da ciò che è altro». Se di ciò è lecito
considerare inverso simmetrico la poesia, questa appunto la troviamo nella
prosa, di Di Ruscio, anziché nei suoi versi. È nella sua prosa che la
temperatura della scrittura si fa incandescente, rompe tutti gli argini, libera spettralmente dalla sua croce –
almeno per qualche attimo – il fantasma di chi scrive. E, con lui, noi che lo
leggiamo. Sono molto contento che Luigi
avesse apprezzato, della prefazione che scrissi a suo tempo a Cristi polverizzati, soprattutto il
passo che dedico alla sua descrizione dell’amore con Palmina, alias la Palmira. Pagine strepitose, di
una sensualità avvolgente e traspirante, che ci riconciliano con la disgrazia
di avere un corpo.
LB: Sei in una classe di una scuola superiore, diversa di quella di prima. Hai pochi minuti per suggerire la lettura della poesia di Di Ruscio. Che cosa diresti per introdurre la poesia che ora ci lasci per concludere questa intervista? Grazie.
R: Per apprezzare appieno la sfrenatezza della prosa di Di Ruscio, leggendo,
bisogna essere passati per la croce della sua poesia. Così come per avere una
minima chance di fare l’esperienza
della sfrenatezza e della liberazione, nella vita, dobbiamo passare per freni e
vincoli che conosciamo, ahinoi, così bene. Nelle ultimissime poesie che ci ha
lasciato Luigi questo sciogliersi coincide, purtroppo, con lo sciogliersi
dell’esistenza. La poesia con cui vorrei lasciarti è una delle ultime che ha
scritto. Luigi la mandò il 31 gennaio 2011 all’editor feltrinelliano che gli aveva fatto il contratto per il libro
che ora è uscito, Alberto Rollo, e fu pubblicata su Nazione indiana il giorno della sua morte, il 23 febbraio seguente:
ho la bocca piena di farfalle
e se apro la bocca
voleranno via tutte
e non ritorneranno neppure
se rimango a bocca spalancata
per una eternità
e se apro la bocca
voleranno via tutte
e non ritorneranno neppure
se rimango a bocca spalancata
per una eternità
Nuovi materiali su Luigi Di Ruscio mi vengono segnalati su https://www.alfabeta2.it/2014/03/15/non-scrivere-stanca-scritture/
RispondiEliminaSenza mai dimenticare quanto gli ha dedicato Francesco Marotta: https://rebstein.wordpress.com/category/luigi-di-ruscio/
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