Uscire a venticinque anni con un libro d'esordio che si può ricordare tra i migliori degli anni Novanta è un vantaggio? Non lo so. Non penso nemmeno si possa parlare di vantaggi e svantaggi e davvero non so se la domanda abbia fondamento. Però quando l'esordio riesce bene, si rischia sempre di fare la figura del giovane brillante poeta promettente che poi è presto dimenticato. So però che la poesia di Giovanni Turra (Mogliano Veneto, 1973), dopo quel Planimetrie uscito per Book Editore nel 1998, è approdata in situazioni di lettura e ascolto più diradate, anche se c'è stata la non trascurabile pubblicazione della silloge Condòmini e figure nel Nono quaderno italiano di Marcos y Marcos, nel 2007, con un'importante prefazione di Franco Buffoni. Turra ha poi forse perso il treno non imperdibile della poesia al tempo dei social network, il che non è necessariamente un male per un'arte così lenta e anche ha perso il treno-freccia senza direzione della presenza massiva in rete ai tempi dei "tori da testiera" (come sono stati definiti i commentatori di certi lit-blog). Ecco allora che dopo un inusuale iato di quindici (15) anni, appare per le edizioni La vita felice Con fatica dire fame (pp. 92, euro 13, con un risvolto di Stefano Raimondi), un libro che consiglierei di tener ben presente in tempi di classifiche e carotaggi e prelievi a campione che cercano di sondare e fotografare la poesia degli anni zero (zero come nome che è tutto un programma?).
L'arco temporale che racchiude questi testi, unito all'evidente meticolosità versificatoria di Giovanni Turra, dà subito l'impressione di un lavoro mai pago e inesauribile (ecco la fatica, sin dal titolo), di un bagno in un bacino lacustre dello stile che s'attesta ad un livello che è metrico e prosodico attentissimo, controllato, adatto a liberare piccole scosse di un novenario, la forza del settenario o l'enigma di un trisillabico. Un testo finito è frutto della religione (o della stanchezza) ricordava Jorges Luis Borges, e con queste poesie verrebbe facile dire che siamo dalla parte della stanchezza, dopo quindici anni di lavorio incessante e limatura. Lavoro di lima, già, bell'espressione. Si pensa sempre al pezzo finito e mai alla polvere di ferro o legno dell'atto del limare, che qui in queste poesie sembra un'acuta presenza. Proverò, nel poco spazio che mi do, a dire perché in fondo questo libro, oggi finito e dato alle stampe, stia quasi più dalla parte della religione, nel senso di recupero di una sacralità del lavoro sulla parola e in fondo un atto di fede pieno nella tradizione poetica di una grande eredità versificatoria e di una lingua come quella italiana, un atto che mi pare a tratti abbia davvero dell'incredibile, e che pure è l'unico criterio discriminante per poter continuare a scrivere di poesia, a parlarne, a riconoscerla (e non perché ci siamo tutti risvegliati nel bosco sacro eliotiano dalla sera al mattino). E anche la critica delle varianti forse non ci interessa più; ci interessa di più la critica della limatura, ma come limatura prodotto di scarto che cade a terra sotto la morsa che trattiene il pezzo di realtà che ogni volta proviamo a salvare. Voglio dire che la tradizione lirica italiana in questo libro di Turra batte anche laddove si avvertono gli strappi, le sincopi, le disparità delle contrazioni dei versi, in un cerchio che quasi prova la sempre difficile impresa di saldare forma-stile-etica in un solo giro di parole, in un camminare rischioso e rasente al muro di un'afasia che sembra persino suggerita dalla ripetizione di "fa-" nel titolo Con fatica dire fame, un titolo che tra l'altro adopera la parola "dire" nel momento in cui ne ammette una quasi disumana fatica.
E la fame allora? In realtà, il riuscito titolo che illumina tutta l'opera appare come un jeu interdit su due parole, "fatica" e "fame" per l'appunto, che rimandano entrambe al "venir meno", alla "mancanza". E diventa così un dito puntato in ogni componimento. Che cosa è mancato improvvisamente in questa vita, in queste vite che Turra raduna nei testi di questi quindici anni? La fatica diventa una condizione perenne e ineliminabile? E qual è la fame di cui si parla? Bruto bisogno fisiologico, fantomatica fame di conoscenza o una fame ben più sconvolgente (di progettualità, direzione, finanche fame di senso) che sta venendo a mancare? Si tratta forse di una fame di catastrofe, nel senso di scioglimento completo dell'intreccio delle vite per capire come sono fatte dentro davvero, quasi una fame di apocalisse rivelatoria che dica cosa sta sotto le numerose superfici descritte in questa poesia. Questo è un libro davvero superficiale, nel senso di un libro che sta sulle superfici delle cose e dei gesti, quasi a volerne preservare un'allegoria continua corrente sottopelle.
Il libro, che s'apre con un'epigrafe dal Faust di Goethe ("tanto quel che sai di meglio non puoi dirlo ai tuoi alunni"), quasi a voler ricordare una grande nostalgia per un rapporto maestro-allievo ormai irrimediabilmente perso o impraticabile, pare snodarsi dapprincipio attorno a un immediato, palese omaggio montaliano:
Il pensile orologio da parete,
il metallo brunito della scocca.
Con tatto d’entomologo ne sfili
com’altrettante ali le lancette:
un volo di lancette sul quadrante,
tutta la tua vita in un botto.
E s’accampano di getto,
come usciti dall’armadio,
i tuoi morti tutti e due.
A mezzo busto dentro una cornice,
in un giorno di sole.
Il richiamo a Forse un mattino andando in un'aria di vetro e ai versi "Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto / alberi case colli per l'inganno consueto." sembra più una spia tematica, una conformità di voleri, una primissima intonazione come i suoni curiosi prodotti da un'orchestra che accorda e prova gli strumenti prima di uno spettacolo, che un montalismo vero e proprio. I temi della prima sezione, "Superfici", sembrano stare in tanti titoli che si susseguono: Superfici appunto, l'occhiuta e riuscitissima Bricolage concepita osservando una giovane collega a scuola, Auto nuova, Mani, Il barbiere, Giardino Zen, Cannocchiale. I temi della raccolta, se così vogliamo chiamarli, fanno il loro esordio già da queste prime battute: i luoghi di una giornata, gli spazi abitati, persino una sorta di voyeurismo/scopofilia in realtà rivolti all'eros sparso nel mondo intero, alle superfici, che poi non è tanto lontano dall'essere la ragione "erotica" per cui forse esiste la poesia (sotto certi aspetti lo ricordava bene anche Zanzotto). La seconda parte del libro, "Quando siamo via", è un inno al gioco inanimato che fanno le cose in nostra assenza, gli spazi, tra il limone cimato e l'annuario del telefono. In una poesia, Lo sgombero, assistiamo al massimo di variazione nel minor spazio possibile, da Lo sgombero del titolo allo "sgombro" (senza "e") che chiude la poesia:
Riscuotiti al suono fesso
del citofono. Nell’avello
cieco dell’androne, penetrane
l’eco, l’arcano degli oscuri
allacciamenti. Afferra
il saliscendi della porta,
inverti il giro all’ultima
mandata. Fatti viva.
Altro è dire forte
e chiaro e senza voce
il nostro nome, nella nostra
casa vuota, occhio per occhio
a cominciare dal letto,
buca d’obice, voragine d’alte
mura, nell’attimo
finale dello sgombro.
Si procede, e non poteva essere diversamente, con Condòmini, dove lo spostamento d'accento indietro (o in avanti) ci porta continuamente a un gioco di pieni e vuoti che si rivolge agli spazi abitati e alle persone che li abitano: condòmini e condomìni. Turra, sin dalla silloge del Quaderno di Marcos y Marcos, sembra scegliere la lectio difficilior di una parola sdrucciola. "Il cadavere di Cook" è la sezione del cadavere dell'esploratore-poeta fatto in pezzi, vivisezionato e spartito tra gli isolani che rimangono, e si muove in una serie di testi che indugiano su singoli pezzi o situazioni, in feroci macro fotografiche o impietosi e lunghi piani-sequenza. La poesia che segue, da questa sezione, si intitola Denti:
I miei denti:
cresciuti me li diresti
in un pendio
– un dirupo di gladioli –
precipitevole tanto
quanto me
se mi vedi dal basso.
Minuscoli cippi, segnali
di confine, nel breve camposanto
della mia vita.
Il massimo rigore e concentrazione a mio avviso si ravvisano nella bellissima sezione (sin dal titolo) "Manovre per l'addiaccio", dove l'anacoluto, l'iperbato, quel calco sospeso tra certe costruzioni della lingua latina e certi costrutti di frase anglosassone, come il "quando siamo per dormire", lasciano spazio a uno dei più bei componimenti della raccolta, in corsivo. Qui le alte gru nei quartieri sorti dai disgraziati piani urbanistici del Veneto assomigliano a delle giraffe sperse allo zoo.
La notte,
quando siamo per dormire,
noi si volge il capo ad est,
nel disordine sparso
dei nuovi quartieri.
Un’alberatura fitta di guglie,
alti pinnacoli, antenne
dove girano le gru.
E v’è stupore nel sangue,
ammirazione, quasi ci fosse vicino
il mare.
Credo sia in questo frangente del libro, in questa sezione, che la sonda della poesia di Turra prenda di petto il tempo della memoria, il paesaggio, lo sbattere e sbatacchiare delle imposte dello sguardo sul Veneto (Francesco Maino scriverebbe "veneto", con la minuscola), senza però quel livore inutile che rischia ormai solo di fregare molte altre generazioni a venire. Ed ecco il terremoto del Veneto orientale del 1976, il rapporto col padre, il fare la spesa ("Nessuna cosa nuova nei discount / potè mai avere inizio") quando "ecco ti scoppia nel cervello / un lampo senza aloni", le leirisiane età d'uomo ("L’io che ero io a sedici anni / io dico: era, è stato. / E vide, crebbe, disse. / E tutto è dentro me, / dov’è uno spazio grande / apposta per il gioco."). Nella sezione conclusiva, quella che si intitola come il libro, compaiono gli animali, alci, animali allo zoo e animali da soma. E se Un tempo unisoni potrebbe ricordare la rilkiana pantera, Animali da soma è un testo che sorprende per l'impennata che prende e per come si conclude, in un finale dove la ricerca delle parole rare ("i ginocchi", la sella denominata "basto") non potrà essere scioccamente scambiata per ricerca di inutili preziosismi lessicali:
Parlano alemanno
un uomo in età e una giovane
donna, come dolendosi
liricamente
di qualcosa. Avrebbe potuto
essere questo il tono
e la posa, l’afflato
dei sodali amici di Gesù
ai piedi della croce.
Parlano i due
come da una grata.
Alternano velari
e gutturali
negli orecchi a un cavallo.
Ha la bocca sconciata dal morso
madido. Gli zoccoli son fessi
e mezzo aperti. Non nitrisce,
raglia. Gli si rompono i ginocchi
per la fatica del basto.
Mutatis mutandis, Bach oggi suonerebbe come i Sonic Youth? Chi lo sa. Forse ci proverebbe, abbracciando con amore tutta una tradizione di poesia che ci parlava di respiro, piede metrico, sguardo e che oggi prova ancora a carpirne la centralità, a metterla in opera, anche se al posto dello sguardo s'avvicendano sguardi distratti e muti, al posto del piede metrico ci sono piedi dall'aspetto sinistro "ingombranti e comatosi" e al posto del respiro, in questa epoca, sembra rimasta soltanto una "rauca ruggine del fiato". Turra ha sicuramente letto a lungo Philip Larkin, the master of the ordinary secondo la celebre definizione di Derek Walcott. A me però tornava in mente Nelo Risi che nel primo testo del suo Di certe cose del 1970 scriveva "Se occorre arte perché siano vere / le parole rare / forse più ne occorre / per essere stilisti dell'usuale".
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