giovedì 19 giugno 2014

da "Le poverazze" di Marino Moretti

Una poesia da #39

Qualche giorno fa ho visitato la casa di Marino Moretti a Cesenatico con alcuni amici che scrivono, in occasione di una lettura. Durante la visita, guidati da Manuela Ricci, da anni alla guida della Casa fondazione intitolata allo scrittore, ragionavamo su come Moretti fosse oramai uscito dal "canone", compreso quello scolastico. Se non fosse per i versi sulla pioggia del famoso mercoledì a Cesena, davvero non si ricorderebbe più nessuno di lui. Il fatto che sia uscito un Meridiano e che per decenni del Novecento sia stato autore di punta della Mondadori non significa davvero nulla. Anzi. Talvolta i Meridiani sono - loro malgrado ovviamente - delle pietre tombali sulla memoria e sulla fruizione di un autore, soprattutto se rappresentano il solo libro che di un dato autore è dato disporre in commercio. Sono molti gli scrittori che stanno uscendo da una sorta di canone. Corrado Govoni è un altro, e lo ricordava anche Francesco Targhetta non molto tempo fa. Si parlava persino dell'uscita del Carducci, dato che potrebbe mettere in allarme qualcuno. Magari tra non molto non si studierà D'Annunzio. Sono cose che danno da pensare, anche perché, per converso, non pare che questo allegerimento del canone faccia spazio a nuovi nomi. "Canone" è una brutta parola, perché rimanda a quel principio di auctoritas e ipse dixit che non fa sempre bene alla scrittura e alla lettura. Tuttavia, anche se mi sta antipatica, capisco che talvolta è necessario richiamarla. Io comprendo le ragioni per cui - per fortuna - Giacomo Leopardi farà molta più fatica a uscire da una sorta di canone, e queste riguardano le vette (abissi?) di pensiero e forma raggiunte dallo scrittore recanatese. E posso anche capire che non in ogni scrittore è facilmente ravvisabile quell'intramontabilità che giustamente si accorda a Leopardi, a Dante o, per ragioni linguistiche, a Pietro Bembo. Tuttavia credo che chi scrive in primis debba farsi carico di leggere e dire perché certi autori debbano resistere dentro una sorta di canone. Ad esempio, parlando di Carducci, non possiamo smarrire del tutto quello che l'orecchio vive nella lettura e nell'ascolto della poesia carducciana. A dimenticarlo del tutto non facciamo necessariamente questo grande affare. E se proprio non troviamo più temi forti e magnetici in Carducci, troviamoci almeno quell'imprescinbilità fonica e metrica che va preservata. Poi, dal salvataggio di questa metrica, forse un giorno passeranno altre forme di recupero e salvataggio. La memoria di un poeta non può essere legata solo ai temi che ha trattato, alle formulette che si usano per parlarne. Deve per forza passare per i reticoli sonori che questo poeta ha saputo creare, attraverso le perforazioni e le percussioni foniche che ha impresso. In sostanza, quello che vorrei dire senza ambagi, è che oggi può esistere una nuova forma di canone che, dimentico dell'accademia ma non della scuola, può provare a emergere dal basso, dalla semplice lettura e rimagliatura di una rete di letture. Può provare, e non è detto che ci riesca o ci riesca sempre. Ma c'è questa eventualità. Anche gli sconvolgimenti dell'editoria non è detto che siano tutto un male, in questo panorama. E non è detto che il recupero di Moretti, come quello di Comisso o quello (forse un po' meno necessario perché mai del tutto uscito da un canone) di Palazzeschi debba per forza transitare soltanto per una rilettura omosessuale della loro opera. Non è tempo perso chiedersi cosa significhi essere gay o, peggio ancora, come si diventi gay? Non è forse più urgente interrogarsi su cosa siano siano le sessualità e su come si vivano e su come si vivessero un tempo e su come si vivranno domani?


Complice l'attesa di questa visita, ero andato a leggermi Le poverazze, la raccolta del 1973 che con altri libri pubblicati tra la fine degli anni Sessanta e il primo lustro dei Settanta segnava un ritorno alla poesia per Moretti, dopo un silenzio davvero lungo e forse unico tra i poeti italiani del Novecento. Una rapida scorsa alle date delle uscite dei suoi libri di poesia metterà infatti in risalto una pausa di pubblicazioni davvero straordinaria e una ripresa di scrittura poetica in vecchiaia che appare davvero fervida e febbrile. Affrontando questo "terzo tempo" o "tempo supplementare" della scrittura morettiana, viene la voglia di incrociare questi testi con un dato importante, rilevabile in una lettera indirizzata ad Antonio Baldini nel 1950, in cui il poeta di Cesenatico scrive: "La verità è che io non ero un poeta, ma un narratore". E considerazioni divise tra poesia e prosa non mancano proprio ne Le poverazze. La "poverazza" del titolo è una di quelle parole del linguaggio ittico che in Italia ha molte varianti. Curiosa un'occhiata al dizionario Treccani: "poveràccia (o peveràccia) s. f. [der. di pevere «pepe» raccostato paretimologicamente a povero] (pl. -ce). – Nome region. (diffuso, con parecchie varianti: poverazza, peverazza, povarazza, pevarazza, pavarazza, porrazza, porazza, ecc., nel Veneto, nelle Marche e negli Abruzzi) di varî molluschi lamellibranchi della famiglia veneridi". Il termine è davvero ricorrente nelle poesie, soprattutto in quelle del "Terzo quaderno" e "Quarto quaderno", le ultime e a mio avviso più belle sezioni di questa raccolta. I toni epigrammatici e parnassiani della sua ultima stazione poetica sono menzionati anche nel risvolto del volume che vedete illustrato dalla copertina qui sopra, dove un poeta come Dario Bellezza ricorda che "la testimonianza della morte è veramente violenta, e Moretti vi approda con tutta una sua serenità, una grazia di stile ch'egli vorrebbe, ed è, anche tolstoiana".



DOVE, DOVE

                                                                      18 luglio 1971

«Oggi è il giorno che sai, di compleanno.
È come se noi due fossimo nudi
senza peso di scarpe e di vestito.
Uomini non s'è più,
e non più l'uomo vestito o svestito
o ignudo fra gli ignudi.
Non sono io, non sei tu,
siamo e non siamo con o senza udito,
con ire o con virtù,
in attesa d'un tale che alzi un dito,
con sesso o senza sesso,
ermafroditi di marmo o di gesso...
Non son io, non sei tu,
né mortale-immortale,
e neppur più fratelli, né tribù.»
«Siamo, se ho ben capito...»
«Siamo tutti al Giudizio Universale.»

1 commento:

  1. Grazie per ricordare Moretti, la sua poesia e scrittura. Cari saluti. Rina

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