mercoledì 4 giugno 2014

Le voci di Claudio Magris

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #21

Circa vent'anni fa usciva per il Melangolo nella collana "Nugae" un librettino minuscolo di Claudio Magris intitolato Le voci (pp. 48, euro 5,16 a convertire il costo originario di 10.000 lire, il volumetto pare ancora misteriosamente acquistabile). L'opera è il testo di un monologo teatrale che più volte ho intercettato ma mai affrontato. Ora, spinto da quei trascinamenti di cui si compone il mosaico sempre incompleto delle nostre letture, si è presentata l'occasione e ho finalmente letto questo libriccino importante e appartato. Il testo, come detto, appartiene al genere dei monologhi. Teniamolo presente per le considerazioni che verranno dopo. Chi dice io in questo libro è un uomo che parla della propria ossessione per le voci di donne depositate nelle segreterie telefoniche. Sono donne che ascolta in quanto voce, in quel medium sonoro che è tanto corpo quanto anima e, probabilmente, né corpo né anima. Il protagonista ricerca le voci delle donne che ama, conosce gli orari nei quali telefonare per non rischiare di trovare la donna a casa, ha un metodo pressoché infallibile, si applica con un'abnegazione non priva di tratti di comicità.

Una delle cose che più mi ha impressionato nel leggere questo librino è anche l'orizzonte temporale della sua comparsa: metà anni Novanta. Ci si apprestava all'avvento di Internet e di tutte le protesi comunicative a questa annesse. Stava partendo tutto lì, in quegli anni. E se è vero che il telefono e la segreteria telefonica protagonista di queste pagine esistevano già da tempo e che gli attuali mezzi possono essere visti da certi sociologi dei media come delle evoluzioni di quei mezzi, è altrettanto vero che quasi sbalordisce ora ripercorrere all'indietro certe intuizioni che in quest'opera monologante aleggiano pienamente formate.

Il protagonista, pazzo e folle, delicato mitomane e inoffensivo stalker avanti lettera, sembra prefigurare quel processo ineliminabile che l'uomo - compreso l'uomo cieco che tornerà a vedere grazie all'occhio bionico e che le nostre generazioni forse non faranno in tempo a conoscere - dovrà attraversare per rivedere il proprio mondo stravolto dalla tecnologia. Sarà probabilmente un processo doloroso, con degli avamposti occupati da poche persone in coraggiosa avanscoperta. Mi rendo conto che sto innescando un discorso troppo rizomatico, quello del rapporto tra uomo e tecnologia, che ha radici in tanta letteratura filosofica, sociologica e antropologica, e che non si può certo limitare a qualche astratto discorso distratto. Però è una riflessione che si può provare a limitare e far partire dallo spazio ristretto di un brevissimo monologo, come ha fatto Claudio Magris, proprio perché qui è massima l'apertura e massima è la solitudine del protagonista, quindi massima è l'apertura e l'esposizione a ogni soluzione e ad ogni caduta, compresa a una caduta salvifica. In un stato vitale elusivo quale il nostro, dove tutto imita ed è a imitazione di tutto (simulacro, immagine, ombra e spettro sgusciante) qual è lo spazio rimasto per l'unicità e per il vero incontro con l'altro? E qual è lo spazio di quella voce che prova a trasformarsi in scrittura nei mezzi di comunicazione digitale ma che, alla fine, imita soltanto la voce, rimanendo scrittura franta, frammentaria e filiforme? Magris, attraverso la voce del proprio protagonista, sembra improvvisamente suggerire una chiave nella delicatezza. Allo stesso tempo - provo ad aggiungere facendo un'ipotesi - pare non sia mai risolta del tutto anche la chiave (opposta?) della violenza, la quale inevitabilmente permea nella conoscenza e nell'avvicinamento dell'altro, in quello che rimane, a tutti gli effetti, il mistero e il segreto della conoscenza di un'altra persona. Naturalmente non mi riferisco certo a una violenza dai connotati giornalistici, fisica o verbale che sia, bensì a quella violenza che è esercizio inalienabile e tuttavia alienante della forza, una violenza che sembra essere data e connaturata una volta per tutte nel nostro corpo nello spazio, e anche nella nostra voce, anche quando è voce di quest'epoca ventriloquiante, voce oracolare della Pizia, della strega di Endor, dei mistici o dei posseduti.

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