La poesia non vede oltre, sebbene possa trasportarci col suo metro a misurare cose nuove, oppure le cose che accalcano tutti i giorni. E comunque l'oltre, inteso alla stregua di conoscenza e di esplorazione rinnovata e non come trascendenza, qualora lo raggiungessimo, non sarebbe in grado di confermarci alcunché: rimarremmo comunque in una troposfera aeriforme, in contatto con la superficie terracquea, all'interno di un campo magnetico sotto il firmamento e in compagnia della nostra mente e delle sue illusioni. La poesia allora vede piuttosto nell'immanenza del limite e vede anche le stesse cose (ad esempio: statuette di eroi, mare, rovine, vestiti, sole, animali, rotaie, tavolini, duelli, tovaglie dei picnic sulle necropoli, città nominate o innominate) dopo del tempo grazie a un cervello atemporale. Soltanto così è capace di trascinarci in uno spazio che non confermerà nulla, ma che rassomiglierà a una placca che trema fra i mari, ricordandoci del sisma perenne sul quale camminiamo ("E tutto il mio, il tuo, il nostro insieme, / tutto anche dei paesi l'insoluto / poco prima che inizi l'esplosione / è finito in un terremoto che ho sognato."). Se impariamo qualcosa allora lo dobbiamo forse all'esser arrivati lì, non senza metodo, a esplorare e verificare questo sciame sismico coi piedi ed è da lì che può arrivare la poesia, per chi la scrive e anche per chi la ricerca.
Non sta scritto da nessuna parte che ci sia prosecuzione o antecedente in testi poetici che si manifestano nel loro essere sospesi o quasi appesi a un vulnus mai nominato; semmai vi è persecuzione del testo, perpetrata su un autore servo della propria opera. E non è neanche detto che vi sia il solito trauma da raccontare oppure l'assenza di trauma (questa seconda più in voga negli ultimi anni), entrambe categorie che a mio avviso si stanno svuotando via via di qualsiasi potenzialità ermeneutica o ipotesi euristica, sia a livello letterario ma forse anche a quello storico, urbanistico, antropologico o psichico. Non sto dicendo che trauma o non-trauma non siano più pertinenti all'umano, sto dubitando che attraverso la loro lente sia possibile cavare altri ragni dal buco (quando scrivo questo mi vengono in mente i saggi contenuti ne L'uomo come fine di Moravia). Non è neanche detto che vi sia qualcosa di nuovo da dire o fare ("Un filo rosso manca che unisca me al resto: / traduco le stesse storie di sempre / le mie, le tue dei popoli estinti / quelle dei rimanenti / il filo sta sottoterra, scorrente."). Anzi è quasi impossibile che una qualche situazione di novità si verifichi qui dove "è tutto un simbolo"; sosteneva Borges che in letteratura ci sono appena quattro storie da raccontare: 1) una historia de amor entre dos personas 2) una historia de amor entre tres personas 3) la lucha por el poder 4) un viaje. E così è anche ne Gli eroi sono gli eroi di Mariagiorgia Ulbar (Marcos y Marcos, pp. 105, euro 15), libro da dove provengono gli estratti citati e per il quale potremmo spendere subito l'elemento del viaggio, poiché queste poesie esistono come e se in viaggio (gli als-ob di Vaihinger): "Catturai figure in giro, ombre e grate / di balconi, il pulviscolo alle tre post-meridiane / i bambini di Palermo guerci al sole. [...]".
Il viatico del viandante è un balsamo in tutto il libro, persino un'incognita, come nella poesia dedicata a Venezia e al collegio armeno: "[...] Al collegio di Venezia a colazione / l'ombra non basta, non arriva sulle teste / noi discutiamo al rumore delle imposte / se non serva studiare l'alfabeto / prima di andare fino a laggiù insieme / mettere in un sacchetto il nostro oro / se dovesse servirci all'improvviso / per mangiare, lasciare un posto troppo buio, / salvarti da qualcuno, passare le frontiere nottetempo / fare uno scambio: un mio anello, un mio ricordo / per una indicazione e acqua fredda in cambio." Era questo un aspetto preponderante anche in Su pietre tagliate e smosse - gruppo di testi apparsi nel 2012 in Poesia contemporanea. Undicesimo quaderno italiano sempre di Marcos y Marcos e qui parzialmente confluito - ma è una conferma che arriva come gibigianna già nella prima sezione, che quasi smorza il viaggio titolando più semplicemente Gita sul confine, e poi anche nelle sezioni La cercatrice e nella finale Piccola suite per Gengis Khan. Colpisce la sarabanda di tempi verbali, che in una manciata di versi si sposta anche violentemente tra i passati: spesso è quello remoto intervallato all'imperfetto o al passato prossimo, a un passaggio repentino al presente o futuro. Altre volte v'è la comparsa di uno stile nominale che s'innesta in gruppi di versi ("Su un quadrato di prato quattro pini / quattro pieni e in mezzo pezzi d'aria / con la luce. Due giorni a settimana / oltre i confini dell'umbratile fantasma. [...]" o versi isolati e incastonati ("Una scena di ferro e bosco marginale."). Giochi con la lingua latina ("un'hora heri" ma anche "Nel luogo dei pini d'Aleppo e dei fratìni / un orto in sé concluso dove verde / è verde sempre scuro [...]" che non può che portarci all'hortus conclusus), inversioni, ripetizioni ("Anche oggi è mattina anche oggi / e io mi butto verso il mare."), ripetizioni di stesse parole con funzioni diverse di preposizione/aggettivo ("Se almeno ci avessero sgozzato gli indiani / lungo il tragitto lungo e tentennante [...]"), figure etimologiche ("ma il morso morde a vuoto"), un gran campionario di rime (spesso povere, ma anche eccedenti, come in parte noterete dagli esempi) traducono quello sciame di cui si diceva in apertura fino a slabbrare il tempo, i bordi e i ritmi di questi versi in cui la vita è coagulata in "[...] un composto denso / di scure bibite / e celesti instabili striature.". Sono frequenti le prime persone, sia singolari che plurali. Io e noi sono le persone più ricorrenti, sottintese ma anche esplicitate. Più rare le occorrenze di seconde o terze persone singolari e plurali, che però riaffiorano proprio nella già citata sezione finale Piccola suite per Gengis Khan. Questo accade perché la storia che lega questi testi, quasi sempre privi di titolo, non sembra nascere da un intento di comunicazione dialogica. Insomma, è una poesia che si fida sfrontatamente dell'io e del noi, a dispetto di tutte le elucubrazioni che sono state costruite attorno a queste particelle pronominali ritenute pulciose ed è anche - aggiungo - una poesia di cui ci possiamo fidare proprio per lo stesso motivo. Non ha importanza quale maschera indossi, quale rappresentazione o finzione si celi, giusto per stare ai come-se o als-ob menzionati in apertura, quale proiezione si instauri in chi racconta qui di viaggi, reali o immaginari, attingendo a un registro multilinguistico; interessa di più questo tentativo di ricondurre la poesia in un solco epico del quale non possiamo esserci dimenticati per sempre. Si prendano ad esempio gli "eroi" del titolo, quasi un controcanto al Poema senza eroe della Achmatova. Questi provengono da un passaggio della poesia proemiale che, nella sua circolare e ovvia tautologia, s'accompagna ad animali e angeli: "Animali vagano in silenzio nel cortile; / andandomene prenderò le statuette / degli eroi. Gli eroi sono gli eroi, / anche se pesano nelle tasche io li prendo. / Intanto l’angelo inizia il volo sopra il tetto / io vado via, perché lo so tremendo."
La guerra mondiale è una corta sezione di nove brevissimi testi, quasi un raccordo tra il corpo iniziale e la parte più innovativa costituita dal poemetto di cui si dirà tra poco. Versi come "[...] e a noi è mancata una guerra / mondiale, ti ho detto all’improvviso." sembrerebbero avvalorare le tesi di chi vorrebbe porre l'assenza di trauma come centrale anche nell'interpretazione di questo libro. Eppure la sezione titola effettivamente La guerra mondiale e non allude a mancanze di questa, anzi, e il testo conclusivo inscena un'esecuzione dove si enumera ciò che va salvato, per concludere infine "Salvare soltanto il mare." Prima ancora avevamo letto "Ero una cercatrice di disturbi / io cercavo l'oro dei difficili". La scansione del libro sembra ergersi quindi sopra un mistero, da non rivelare, ma da percorrere spinti da una varianza di tempi verbali che imprime qualcosa di simile a un'accelerazione centripeta, attorno a un nucleo durissimo che resta impenetrabile e che tuttavia scotta e brucia nei suoi chiari. Solo nel poemetto Mio padre era un re (da un verso di Der Sohn di Rilke) avviene un parziale scoperchiamento, una minima rivelazione su quel mistero e quel vulnus già ricordato poco fa. Qui, per tornare a Borges, potremmo recuperare l'idea di un testo che ci parla di un amore tra due persone, padre e figlia, e del morire di lui, la rielaborazione di quel vissuto a distanza di tempo dal verificarsi di un evento capitale per la psiche: una persona non è più lì e non è nemmeno altrove. Sulla pagina, in posizione di incipit, resta allora un "io" separato dal suo verbo con una virgola: "Io, passerò in mezzo alla strada, / si è fatta l’ora, ormai è avanti luglio / e ho espletato tutte le incombenze / e adesso resta solo da narrare. [...]". Eppure anche in questo caso non scomoderei la categoria del trauma, non è necessario. Parlerei piuttosto del tentativo di rendere e adattarsi a un mutamento fondamentale. E se è vero che la voce è quella membrana che sta tra l'animula, vagula e blandula che sia, e il corpo, qui il suono emesso aspira tutto, lingue, ricordi, paesaggio, altri suoni, le tradizioni letterarie e le stagioni in un'accumulazione che incalza e sorprende: "Di metodo ho bisogno per passare, / di metodo di ordine, così invoco: / formiche, maestre elementari, uccelli in stormi, / di Gengis Khan gli eserciti e dei Cesari, / invoco le tedesche ferrovie, le poste di Germania, / la matematica, il latino, / le lingue antiche europee e le orientali, / del pianoforte lo studio, di terracotta l’armata, / invoco le proiezioni ortogonali / e la forma del quadrato, la forma del quadrato / una volta più del cerchio / e la radice che vince sul pi greco. [...]". Tutto ciò si svolge in una estate catastrofica, nel momento in cui le cose accadono o non accadono (è un libro fortemente estivo questo, di una sfatta controra), un momento che occupa uno spazio preciso "perché io gli anni vidi sempre / divisi malamente in due: / il lungo e alto arco che prendeva / da settembre fino a maggio e poi / il retto segmento dei restanti mesi tre / fulmineo fulminante dentro il caldo / profondo e dentro il secco / incontrarsi morte a morte con il cosmo."
Una geografia segnatamente italiana, con rimandi all'Armenia, all'Austria-Ungheria o alla Mongolia, alla Fossa delle Marianne o a Finisterre, fissa alcuni punti nominabili nei quali il tempo e il pensiero che l'accompagna si schiantano appena un attimo prima di dilagare. Ed è la realtà sincronica della memoria che necessita di agganciare questi punti di un'ipotetica mappa o leggenda, laddove si possa creare quel limbo tra il vento di una mente "tenera" e la diacronia (e cronaca) degli eventi: Ancona e la sua raffineria, Trieste e il suo orizzonte ("perché è tempo / di fuoco incrociato all’orizzonte / e noi abbiamo confuso / uomini con panchine."), le già ricordate Venezia con l'Armenia, Roma e il suo cimitero inglese, Pescara e i bar bollenti, il Gran Sasso e la sua vetta orientale con altri luoghi e fiumi dell'Abruzzo settentrionale, Palermo (manca Bologna, o per lo meno non è nominata, pur essendo stata a lungo luogo di residenza). Sono posti di una qualche pace, forse, dove si sta bene come in un luogo "non narrato", posti da dove la mente si può anche sganciare. In fondo ci persuade leggere un passaggio ctonio come "Il futuro è sotto terra / grotta, caverna, forra, / gola, orrido, dolina." Gli eroi sono gli eroi è anche questo, un libro che si espande, proprio come le macchie su una superficie assorbente o come una galassia in un universo di senso primordiale e forse già postumo. È scritto come dai margini di un viaggio, da posizioni di estremità dunque, passeggia in prossimità di un abisso, di un horror vacui o di una conflagrazione, simile all'esplosione del verso conclusivo del poemetto Mio padre era un re, il più lungo di tutti, un chiasmo eccedente, affannato e ancora una volta estivo: "estrema luce bianca dentro bianca luminosa estrema estate".
Un interessante spunto per una nuova lettura. Grazie
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