Librobreve intervista #59
Ospito di seguito un'intervista a Luca Stefanelli, titolare di un assegno di ricerca all'Università di Pavia. Proprio al Centro Manoscritti di questo ateneo l'intervistato ha potuto lavorare sui materiali autografi di Andrea Zanzotto raccolti a più riprese, dapprima in virtù dell'amicizia con Maria Corti e poi in seguito alla cessioni in anni più recenti. Nel 2011 per le edizioni Ets era uscita la sua monografia Attraverso la "Beltà" di Andrea Zanzotto. Macrotesto, interstualità, ragioni genetiche. Da qualche mese nel catalogo di Mimesis trovate il suo più recente contributo alla lettura del poeta di Pieve di Soligo: Il divenire di una poetica. Il logos veniente di Andrea Zanzotto dalla Beltà a Conglomerati.
LB: Prima di addentrarci nel libro da poco pubblicato da Mimesis, Il divenire di una poetica, cerco una domanda retrospettiva, dal
momento che questo è il tuo secondo contributo dedicato ad Andrea Zanzotto.
Quando nasce l'interesse per la sua poesia (come lettore) e quali sono state le
tue principali "fantasie di avvicinamento" a Zanzotto (come studioso
e critico)? Quali i temi che hai voluto approfondire subito e quali quelli che
- se ti va di dirlo - vorresti approfondire andando avanti?
R: Il mio
interesse per Zanzotto nasce nei primi anni universitari. Ne avevo sentito
parlare da un'amica che è stata l'ispiratrice di molte altre letture giovanili
e non solo: allora le mie conoscenze letterarie non andavano molto oltre
Montale, dal punto di vista cronologico intendo. Così ho comprato l'antologia
mondadoriana delle Poesie, nella
collana degli "Oscar". Ricordo di averla sfogliata per la prima volta
in treno con la mia attuale moglie. Prima
persona, alcune Ecloghe, l'Elegia in Petèl mi abbagliarono: leggevo
senza capire molto, ma c'era qualcosa di indefinito e di nitido allo stesso
tempo che mi affascinava, quasi una costrizione a inseguire quel senso che
sembrava scivolare via da tutte le parti eppure chiedeva anche di essere in
qualche modo rappreso e/o compreso. In particolare, sentivo che in quella
deriva sempre più scivolosa del significante Zanzotto era in grado di mantenere
- per dirla con un'espressione di Alberto Burri che ho sempre trovato
appropriatissima - un «magistrale controllo dell'imprevisto». Nella mia tesi di
laurea, in quella di dottorato (poi in buona parte confluita nella prima
monografia) e ora nel Divenire di una poetica,
l'idea-guida, l'azzardo anzi, è sempre rimasto lo stesso: rispondere, in un
confronto serrato con il testo, a quell'esigenza di senso che la poesia di
Zanzotto pone in maniera tanto prepotente. Un senso sovradeterminato
(nell'accezione freudiana del termine), che non lascia mai spegnere la sua
«oltranza», quell'«ombelico» insondabile senza il quale la poesia non sarebbe
più tale, senza lasciarsene sopraffare, nutrendosene anzi. In un futuro non
troppo prossimo mi piacerebbe procedere a ritroso e lavorare sulla raccolta a
cui forse, da lettore, sono più affezionato: le IX Ecloghe.
LB: Sia il libro uscito per ETS qualche anno fa, Attraverso la "Beltà" di
Andrea Zanzotto, sia quest'ultimo uscito per Mimesis mantengono salda La Beltà come snodo fondamentale del percorso poetico zanzottiano.
L'invito a farlo è in effetti davvero forte, da molti punti di vista: libro
centrale, pensato e uscito in anni fondamentali, fu tra l'altro l'opera che
destò l'attenzione di Contini il quale poi scrisse - dieci anni più tardi - la
celebre nota a Il Galateo in Bosco (che ritengo il libro più
importante di Zanzotto). Difendi la centralità de La Beltà o credi
che anche alla luce delle ultime raccolte che comunque arrivi a prendere in
considerazione, Sovrimpressioni e Conglomerati, sia
opportuno iniziare ad abbandonare questa visione in favore di una visione più
aperta, centrifuga e non centripeta, dove non c'è un'opera prevalente?
Jacques Lacan |
R: L'aver
assunto la Beltà come perno delle mie
indagini è stata una scelta rispondente più a una "strategia" critica
che non a un giudizio di valore. Certo, secondo quanto ho cercato di
argomentare in quest'ultimo libro è proprio nel cantiere della Beltà che inizia ad articolarsi, seppure
in forma ancora frammentaria e a-sistematica, quel plesso di idee e suggestioni
che informa tutta la successiva produzione zanzottiana, almeno fino a Idioma, e che solo a partire da Filò sarà esplicitamente compendiato nel
sintagma «logos erchomenos»/«logos veniente». D'altro canto trovo che questo tipo
di ragioni non possa esser fatto valere su un altro piano, quello cioè di una
valutazione complessiva dell'opera di Zanzotto. In questa prospettiva sarei più incline a riconoscere un certo
equilibrio tra le tendenze centrifughe e quelle centripete, e a individuare una
pluralità di centri variabili. La stessa Beltà,
ad esempio, può essere vista sia come il punto d'arrivo di un percorso che ha
inizio nelle zone più avanzate di Vocativo,
sia come punto di partenza per sviluppi che culminano nella «pseudo-trilogia».
Forse però sarebbe più interessante, a questo punto, un approccio più mobile e
trasversale alla "mappatura" della
galassia-Zanzotto; adottare, cioè, criteri di segmentazione relativi non
alle singole raccolte, ma all'individuazione di costanti tematiche e/o formali
e/o intertestuali. Anche perché, dal punto di vista genetico, i nuclei di
elaborazione delle diverse sillogi si rivelano spesso intersecati tra loro,
anche a distanza di un decennio e più.
LB: Che cos'è il "logos erchomenos"/"logos veniente"
attorno a cui s'addensa questo tuo ultimo studio? E perché e come tale concetto
ti consente di abbracciare quasi mezzo secolo della poesia di Zanzotto?
Ernst Bloch |
R: Come dicevo è
un'idea che Zanzotto viene sviluppando a partire dalle sue letture degli anni
Sessanta (ne cito solo alcune: Paolo, la teologia negativa di Bulmann; la
filosofia di Bloch e più avanti di Heidegger e Derrida; Lapassade, Malson; la
poesia di Hölderlin, quest'ultima però ampiamente frequentata sin dagli anni
giovanili), e che informa il suo pensiero poetico fino a Idioma (1986) e oltre. Da par suo, Giorgio Agamben ha spiegato la
matrice messianica del participio "erchomenos" (il
"veniente", appunto) mettendola in relazione al complesso concetto di
"kairós". Molto all'ingrosso, si può dire che il "kairós" è
l'istante a-temporale che fonda il divenire come successione periodica,
l'anomalia (eccezione, discontinuità) che fonda la continuità analogica e
normata del tempo: come il "Nome del Padre" di Lacan, il "kairós"
è un fondamento che non è a sua volta fondato; fonda la ragione senza essere
razionalizzabile. "Lógos" è il noto concetto cardinale della
filosofia greca (e non solo): non significa semplicemente
"linguaggio", ma il riflettersi dell'ordine universale ("kósmos")
nella (e attraverso la) essenza razionale del linguaggio-pensiero. Definire
"veniente" il "Lógos" implica dunque che questa armonica
compenetrazione tra mondo e linguaggio-pensiero («adequatio intellectus rei»)
non sia mai un dato, bensì, per dirla con Zanzotto, qualcosa «che si dà» sempre
e soltanto a posteriori. Se, dunque,
il "Nome del padre" di Lacan è la sutura (o «punto di capitone») che
tiene assieme l'ordine simbolico, il concetto cairologico di «logos erchomenos»
scardina all'opposto ogni assestamento normativo-paterno svuotandolo dal suo
interno; o forse, meglio, dal suo indeterminato ed eterno "a venire"
(il «posterno eterno» di cui parla il poeta in Filò). Di qui l'idea di un dio visto «non come padre ma come bimbo
eterno», «in-fans» ("non-parlante", secondo etimologia): una ragione
balbettante che apre il reale allo spazio malcerto e creativo dei possibili. In
questo Zanzotto segue una linea speculativa che si sviluppa nell'ambito del
Romanticismo tedesco (in particolare nell'ultimo Schelling e negli Inni tardi di Hölderlin) come
reazione alla crisi della ragione illuministica e degli ideali rivoluzionari.
La conciliazione tra singolare e universale, che non può più avvenire sul piano
della ragione assoluta, va ricercata in una «nuova mitologia». Ne va di una questione
cruciale per i romantici come per Zanzotto: la possibilità di una comunicazione
autentica. È in questo contesto che si viene articolando una interpretazione
"figurale" dei culti misterico-dionisiaci solo apparentemente
bizzarra: la triade Dioniso-Bacco-Iacco, il «Dio veniente» nella sua triplice
articolazione funzionale, prefigura il Messia; e, parallelamente, la triade
Demetra-Persefone-Kore anticipa la Vergine. Si tratta di un'interessante
attualizzazione di antichi conflitti edipici (il Nuovo Testamento contro il
Vecchio, la moderna cultura cristiana contro quella classico-pagana etc.),
funzionale in questo caso a un «rivolgimento natale» (Hölderlin) carico di
implicazioni: il fondamento non sta all'origine, nel passato, ma alla fine, in
un futuro assoluto dal quale provengono solo debolissimi segnali.
Luigi Nono |
R: Credo che la
dichiarazione del poeta a proposito degli Sguardi
fosse più che altro una formula apotropaica, purtroppo inefficace come hai
ricordato. Ho sempre avuto l'impressione che la forma del poemetto (strutturato
in «cinquantanove interventi-battute di altrettanti personaggi» in «colloquio»
con quello che potremmo definire l'"eterno femminino", stabile tra
virgolette) risenta di certe esperienze musicali più o meno coeve. Penso
soprattutto al lavoro del grande compositore veneziano Luigi Nono, la cui opera
A floresta é jovem e cheja de vida
(1966) è tra l'altro citata in una variante nelle carte della Beltà. Che anche su Zanzotto, come su
Nono, influisse il pensiero (oltre che l'amicizia) di Massimo Cacciari è solo
un'ipotesi che mi piacerebbe verificare. Un altro aspetto interessante del
poemetto, tra i tanti, riguarda la posizione della «beltà», che da fantasma
femminile caratterizzato in senso masochistico (in Oltranza oltraggio il poeta la definiva «piena di punte immite
frigida») diviene oggetto di un'aggressione sadico-voyeuristica: la
profanazione del mito lirico della luna da parte degli astronauti americani. Ma
è la stessa poesia, come sempre in Zanzotto, a rivelarsi «parte in causa»: alla
base del linguaggio lirico agisce la medesima, violenta istanza reificante che
anima l'imperialismo scientifico, tecnologico e militare della superpotenza
statunitense. Se mettiamo per un attimo tra parentesi certe giuste osservazioni
di Deleuze (Il freddo e il crudele),
assistiamo dunque a uno di quei fenomeni di reversione speculare che la
psicoanalisi kleiniana ha così ben delucidato, in rapporto alla sfera materna,
attraverso il concetto di "identificazione proiettiva".
LB: In che misura lavorare sui manoscritti conservati al Fondo di Pavia è utile
e importante per un critico? Lo è nei termini di una filologia "classica"
oppure oggi lo è anche per altri motivi, magari non ancora esplicitati?
Károly Kerényi
|
R: Partirei con
un paio di esempi concreti. Studiando i materiali autografi della Beltà mi sono accorto di come, nella
prima fase aggregativa della raccolta, i riferimenti al simbolismo
misterico-alchemico-dionisiaco, filtrati anche attraverso gli studi di Jung e
Kerényi, avessero una valenza che si potrebbe definire strutturale. In una fase
successiva quei riferimenti sono caduti o si sono resi molto più impliciti, al
punto che non sarebbe possibile riconoscerli e interpretarli ignorando quale
fosse il quadro iniziale. L'altro esempio che voglio citare riguarda quel
centrale "carmen pictum" di
Pasque che è Microfilm: se non avessi avuto il privilegio di accedere alle prime
stesure del componimento, non avrei potuto ricostruire l'impatto che ebbe nella
sua elaborazione una polemica scoppiata tra Jacques Lacan e due suoi allievi,
Jean Laplanche e Serge Leclaire, a proposito del concetto cardine di tutta la
psicoanalisi lacaniana, ossia l'equazione inconscio-linguaggio. In termini più
generali direi che la filologia d'autore, qual'è quella che tento di praticare,
non ha ancora raggiunto uno status di
"classicità", un assestamento. E aggiungo, correggendo
quell'"ancora", che non credo sia questione di tempo: si tratta di
una disciplina essenzialmente empirica, che richiede senso delle sfumature,
delle differenze, del contesto, e che per questo rifugge da
astrazioni-generalizzazioni normative. In questo, a mio avviso, c'è anche buona
parte del suo fascino. Ma c'è anche qualcosa che ha riguarda il titolo del
libro, che avrebbe potuto anche essere "Una poetica del divenire": ho
optato per l'altra soluzione ("Il divenire di una poetica") perché lo
studio dei materiali autografi permette al critico, e all'eventuale lettore, di
osservare la scrittura prima che i giochi siano fatti (mi scuso
dell'approssimazione, non lo sono mai), quando il processo creativo è ancora
aperto, fluido, scintillante di percorsi e intuizioni alternative.
LB: Come penultima domanda vorrei uscire dallo specifico dei libri e provare a semplificare il gioco. Sei in una classe di scuola superiore (oppure anche tra lettori di poesia che sbuffano e dicono di non voler leggere Zanzotto perché complicato) e vuoi provare a "convincerli" che vale davvero la fatica di iniziare a leggerlo. Da dove incominci il discorso?
LB: Come penultima domanda vorrei uscire dallo specifico dei libri e provare a semplificare il gioco. Sei in una classe di scuola superiore (oppure anche tra lettori di poesia che sbuffano e dicono di non voler leggere Zanzotto perché complicato) e vuoi provare a "convincerli" che vale davvero la fatica di iniziare a leggerlo. Da dove incominci il discorso?
R: Siamo pur
sempre nello specifico, vista la centralità del tema "pedagogico" in
Zanzotto. Provo inoltre a rispondere con molto piacere a questa domanda, essendo
molto affezionato alla mia pur breve esperienza di insegnante alle superiori.
Il punto è proprio la "fatica", la difficoltà, la complicazione e il
rapporto che si ha con esse, perché ne va del rapporto che si ha con la poesia
stessa, nell'accezione più ampia del termine. Siamo abituati (tutti noi, in
qualche modo: guai a chi pontifica sui giovani come se fossero un'altra specie
vivente!) alla comodità, all'iper-semplificazione, all'immediatezza; a quella,
insomma, che Schönberg definiva «ideologia del comfort» e delle «pantofole»: una forma di regressione narcisistica
che ha il suo corollario nell'aggressività dilagante, verbale e non. Non esiste
una poesia "facile": il presunto "significato letterale" è
uno specchietto per le allodole che ci viene continuamente agitato davanti per
coprire furfantesche traslazioni di ogni genere. La poesia di Zanzotto, come
ogni poesia autentica, ci mette invece di fronte a un non-tutto del linguaggio,
un non-tutto dell'altro, e in ultima analisi un non-tutto di noi stessi. Però
probabilmente questo "pistolotto" lo terrei per me, e mi limiterei a
leggere, domandare, discutere e poi ancora a leggere.
LB: Sei nella situazione descritta alla domanda precedente ma hai soltanto la possibilità di scegliere una poesia di Zanzotto per "convincerli" e magari incuriosirli. Quale poesia scegli? Grazie.
LB: Sei nella situazione descritta alla domanda precedente ma hai soltanto la possibilità di scegliere una poesia di Zanzotto per "convincerli" e magari incuriosirli. Quale poesia scegli? Grazie.
R: Proverei con Filò o forse Rivolgersi agli ossari. Grazie a te.
Merci pour ce passionnant entretien.
RispondiEliminaMerci beaucoup, versus.
RispondiEliminaGrazie per questa intervista che ho letto con grande interesse.
RispondiEliminacarla.paolini@tin.it