giovedì 1 ottobre 2015

"Darwiniana" di Igor De Marchi: non ci si dovrebbe addormentare tra le braccia di un cannibale

A volte bisognerebbe fermarsi e riconoscere come certi libri abbiano contribuito a dare una sferzata, a creare o consolidare un immaginario - magari saccheggiato spudoratamente negli anni a seguire - come abbiano saputo vedere e scrivere prima, col nitore della presa visione di certi aspetti delle nostre vite, del paesaggio, dell'aporia che si crea tra una concezione ora immobile ora invece mobilmente lucreziana della vita e dello stato di natura, di come gira il legame tra vita e morte nelle nostre teste, della guerra o della lotta che conduciamo quasi addormentati "tra le braccia di un cannibale". Sto pensando a un libro come Resoconto su reddito e salute di Igor De Marchi, pubblicato dodici anni fa in una collana di poesia di Nuovadimensione non proprio fortunata eppure contenente un'altra importante opera di un altro trevigiano, Corruptio optimi pessima di Antonio Turolo, ma anche Le cose che dico adesso del "transfuga" della poesia Alberto Garlini. Umberto Fiori, nel testo che accompagnava quel libro di De Marchi, scriveva che "quella che predilige è una luce ferma, cruda, spietata, in cui cose e persone, situazioni e paesaggi si mostrano senza trucchi e senza ripari, come in una foto segnaletica o in una rivelazione", per poi concludere che l'autore era "del tutto immune dagli schematismi di tanta versificazione 'militante' di ieri e di oggi; è un realismo che nasce dal disincanto di una individuale, dolorosa iniziazione al Vero, ma anche da un amore per le cose e le persone [...]". Realismo è un altro termine tornato alla ribalta in questi anni. Nel testo di Fiori è particolarmente feconda quella disgiunzione tra "foto segnaletica" e "rivelazione": chi ci avrebbe pensato a metterle in una qualche relazione, eppure...

In questi dodici anni che cosa è successo a quel poeta che già scriveva, in tempi non sospetti, di una milleriana "Ascesa e declino di un giovane agente di commercio"? Da punto di vista della sua poesia, De Marchi ha alimentato gli amici con plaquette nere fuori commercio stampate in casa, in parte confluite in questo nuovo bianco libro, Darwiniana (Amos Edizioni, pp. 120, euro 10). Tuttavia, per la cronaca è bene dire che De Marchi si è sostanzialmente fatto da parte, e non solo dall'esibizionismo isterico-compulsivo di festival e premi che talvolta si scambia per "la poesia" (non è polemica coi festival, figuriamoci, è solamente una distinzione che si rende via via più necessaria). Dal punto di vista dell'editoria è arrivato nel frattempo tutto il gran filone del precariato, dei cascami della generazione TQ (e chi se la ricorda più?) e altre enfasi del genere, tutti temi che però in De Marchi erano già stati scoperchiati con un'intensità e autenticità maggiore rispetto a quando un certo modo di trattare il precariato è diventato una gretta questione di marketing editoriale. Tutto questo è stato possibile grazie all'immediatezza e al gioco d'anticipo che la rapida sonda della poesia può ancora vantare e per la quale sarà forse sempre in vantaggio sulla prosa. E dal punto di vista del mondo che ci circonda - o che noi circondiamo - che cosa è successo? Quel mondo fatto di mutui pluridecennali da estinguere come incendi, di statali e zone industriali, di drammi e normale ferocia famigliare era già racchiuso in quel libro ed era già stato riconosciuto con un processo doloroso. Eppure De Marchi - calo qui l'unico inciso biografico - non è stato quello che si sarebbe detto in anni recenti un precario. Ha unito una solida preparazione al lavoro iniziato presto (ne parla sempre nei suoi libri) e a volte mi viene da pensare che anche questo non abbia che potuto giovare alla sua musa e ai suoi musi. Musi, sì, perché è una poesia profondamente animale la sua, anche in questo Darwiniana. Chi possiede ancora una copia di Transiti pubblicato nel 2001 sempre da Amos, rilegga la poesia sul gatto morto "solido sotto a ogni punta di scarpa" (chi non ce l'ha può trovarla qui o su Resoconto), e chi ha anche Resoconto prenda quella del camion di maiali superato in autostrada. Queste due poesie mostravano già l'andamento frequente di tanti suoi componimenti: un'osservazione, una conclusione da trarre. In quest'ultimo libro De Marchi fa il pieno, e l'immaginario che fa cozzare con il suo mondo di tutti i giorni è calpestato parimenti da uomini e animali di estrazioni prossime e lontane, persino improbabili. Questo immaginario rinnovato è, a mio avviso, il vero elemento nuovo, la chiara palingenesi che lo ha accompagnato a questa nuova opera e costituisce ora il motivo per scoprire o ritornare ad affacciarsi sulla sua poesia, che è un sentire il proprio mondo come impregnato di un perverso rapporto con l'esotico (perverso in quanto interessante e interessante quanto perverso). E non si parla di esotismo pre-colonialista, colonialista o post-colonialista, bensì di una riappropriazione letterale dell'esotico in ciò che ci intasa le giornate uguali, insomma quella "o" strana e giusta che disgiunge la cruda "foto segnaletica" e la  cotta "rivelazione" di cui scriveva già Fiori.

LUNA NUOVA

Poi arriva l’età in cui ci si vergogna
di guardare i tramonti,
indovinare gli ippopotami
e i conigli nelle nuvole chiare.
È l’età in cui bisogna
sentirsi corrugati e profondi
guardando il chiarore andar giù
attraverso il temporale sul lago
corrugato e profondo
a renderlo di zinco.

Tutto in fretta si è fatto d’acciaio
e di vetro e luce e bianco e nero.
Fabbriche e abitazioni ordinate,
locali di svago come tane
disinfettate, e la gente
vestita sempre com’è sulla spiaggia.
Il primo anno di lavoro
fa quello che diciott’anni
di scuola non hanno fatto:
un groppo un cipiglio
una postura da rimandare a memoria.

   E aspro il risveglio le domeniche
da esotiche evasioni,
come quando alta la luna
rimane nel pallore del mattino
– fuori in luce di sole –
smunta e indifesa
come un fantasma che senza intenzione
si è mostrato senza forza né resa.


Il titolo Darwiniana naturalmente rimanda a uno dei pensatori più influenti, travisati e strumentalizzati di ogni recente epoca. Lo strano palesarsi di questo titolo sembra incedere zoppo e pare altresì figlio di un vuoto: un sostantivo manca o gli è stato rubato. Ci chiediamo infatti cosa dovrebbe accompagnare l'aggettivo "darwiniana". Dicevamo degli animali, e quasi ogni poesia ne conta almeno uno, ma anche molti di più. Il campionario è vastissimo e vale la pena elencarne qualcuno, anche laddove presenti in senso metaforico: agnello, leone marino e bassotto, mosca, gatti randagi e dromedari, leone, la zebra gialla e nera (un peluche sonoro, il ricordo più antico: e non è forse la rivelazione un fatto primariamente acustico, come la poesia?), ancora il gatto e una rilkiana tigre in gabbia (d'accordo, era la pantera nel poeta di lingua tedesca, ma se leggete la poesia Elementare l'ambientazione è simile e anche la forza dell'immagine "come mi ero sporto troppo / dentro la gabbia della tigre."). E poi ancora cicale, rane, cani sui vulcani delle talpe e molti altri ancora. Sembrano tanti kigo di haiku, se non fosse che il libro si smarca dalle stagioni meteorologiche (il meteo è semmai immaginato nei giornali già in viaggio della bellissima "Cinque a.m.") e dal loro trascorrere per portarci in una stagione più omogenea e fissa che assomiglia da vicino alla stagione-stazione della mente. Non ha senso proseguire nell'elenco di animali in questa densissima savana che rimane comunque il Nordest, percorso o osservato da appartamenti e alberghi assunti a rifugi momentanei, perché sono i testi e il loro montaggio a condurci e anche perché non sono soltanto gli animali coi loro nomi a scandire il passo e il ritmo di Darwiniana. Torneremo sul montaggio alla fine. Si ravvisa insomma una sorta di riscrittura linneana del proprio immaginario, tra un Lévi-Strauss di Tristi tropici citato in epigrafe (e "Tropico Fantasma" titola la sezione più corposa del libro), le liane dei debiti che crescono e i cannibali tra le cui braccia si può persino addormentarsi. Ed è un pensiero sull'uomo, sull'essere cannibale (anche qui fortunatamente ripulito dai cascami del fu marketing editoriale cannibalistico), sulla densità di popolazione e sulle probabilità di estinzione dell'umana specie che percorre e infila di traverso il libro con un grosso ago da calzolaio. L'epigrafe scelta così recita: "[...] La libertà non è un’invenzione giuridica né un tesoro filosofico, proprietà esclusiva di civiltà più valide di altre, perché sole capaci di produrla e preservarla. Essa risulta da una relazione oggettiva tra l’individuo e lo spazio che occupa, tra il consumatore e le risorse di cui dispone. E non è del tutto sicuro che questo compensi quello, e che una società ricca, ma troppo densa, non si avveleni di quella densità, come quei parassiti della farina che arrivano a sterminarsi a distanza con le loro stesse tossine, molto prima che la materia nutritiva venga meno." Torna in mente il Konrad Lorenz dei peccati capitali della nostra civiltà e dell'etologo di Vienna De Marchi ha più di qualche tratto.

Ogni poesia ha un titolo, e questo fatto, non così diffuso, è centrale nell'economia del libro e di ogni singolo testo, perché aggiunge un terzo (sebbene in realtà primario) elemento anticipatorio - ora iconico, ora ironico, ora citazionista ("Una sola moltitudine", da Pessoa, anche se si tratta di un depistaggio), ora cartografico, ora ambientale - a dei componimenti che spesso, come già ricordato, hanno un movimento bipartito. Lo stesso titolo può designare più di un testo (una soluzione che farebbe impazzire qualche filosofo del linguaggio e chi si occupa dei problemi della designazione o di corrispondenze univoche) ed è il caso del cartografico e ricorrente titolo "Hic sunt leones" chiamato in causa più volte, come del resto "L'ultimo uomo sulla luna".

Gli uomini sono tutti uguali.
Davanti alla legge, davanti a dio.
Ma quando guardo gli altri
fare le cose fatte bene
bocca sicura e occhiate forti,
salvarsi
con naturale sana decisione
e io non so da che parte prendermi,
so che di fronte agli uomini
gli uomini non sono tutti uguali.

Vibrano le gocce
di pioggia sul vetro della macchina
in moto. Hanno una pancia
alcune un percorso
da rio delle amazzoni
quando vanno giù, una pronuncia.
Ma sono la pioggia, sono l’acqua.


La lingua vibra di rime che ci ricacciano a forza dentro il quotidiano e che parimenti dal quotidiano ci salvano. Nuclei sillabici si coordinano in sequenze, come in scia a una calamita trascinata sopra segatura di ferro. La sintassi spezza e atomizza il discorso ulteriormente, come ad esempio nell'attacco di "Indomabili", con quell'efficace primo verso nominale: "Le altre famiglie. / Possibile che solo noi / ci diamo addosso come cani? / Che saltano su per niente, / che vorrebbero essere umani? / La verità è semplice, ed è lì a un niente. [...]", ma anche nel finale di una delle molte "Hic sunt leones" ("L’erba alta di ossa cave / con due dita di terra per radice. / Dall’altra parte sopravvento / il leone. Così odore e vita / li avevo salvi in quel momento. / Salvezza che deprezzava la vita.").

Un ultimo appunto, come anticipato, è per la progressione delle sezioni e l'architettura del libro. Se la prima sezione "L'ultimo uomo sulla luna" licantropeggia (leopardeggia?) con un sogno che si è rivelato in tutte le sue miserie ("La luna è un sasso grigio / gettato via con forza / da un bambino deluso"), la sezione "Tropico fantasma", posta centralmente, sembra costituire l'approdo provvisorio (eppure perenne) dell'umana condizione che De Marchi osserva, col piglio di un Giuseppe Gioachino Belli degli anni Dieci, senza usare il dialetto (va ricordato che il precedente libro presentava ancora un discreto numero di componimenti dialettali). Appare come una condizione di esule non divertito, di fantasma fiaccato dal lavorio della materia, infelice. Si veda la poesia con cui chiudo questo intervento, dove il rapporto con la madre e i suoi desideri standard sembra risolto in un quadretto di banale semplicità e drammaticità e che invece apre molte direzioni di perlustrazione e senso, finanche provocando strani cortocircuiti per cui chi legge, per un attimo soltanto, si domanda se sta assistendo a un imbroglio. Non c'è solo rabbia nella poesia di De Marchi e forse ce n'è in minima parte; molto più grande è la pietà e l'immensa tristezza che tuttavia non blocca uno slancio a suo modo vitale e generoso, come quando conclude "Diventare invisibile / ora sa, non è questa gran cosa. / Quello che succede veramente / ha luci e ombre". La sezione conclusiva "Fortune", che nelle plaquette agli amici in realtà anticipava di un anno "Tropico fantasma", appare oggi in tutta la sua precarietà di vox media latina: sappiamo infatti che la parola fortuna, come altre voci, non aveva accezioni positive o negative. Diventa questo allora il momento di aprire la voliera dell'ironia, che fra l'altro dopo la sbornia novecentesca sembra quasi scomparsa dalla più recente poesia italiana (e chissà perché poi). Per la cronaca il libro si era aperto con una poesia stramba tutta in corsivo intitolata "Alba (canzoncina del mattino)". Si chiude invece, quasi come un disco musicale dei Settanta, con una reprise de "L'ultimo uomo sulla luna" e con quei tre versi con i quali De Marchi si congeda, con una citazione filmica da commedia all'italiana, addirittura trevigiana, tutt'altro che mascherata, buona anche per smarcarsi, travisarsi ancora e restituire con una battuta l'amaro del libro che si sta per chiudere: "Signore e Signori lo posso dire / con certezza: dalla mia non è stato / come si è soliti dire un piacere." Molte pagine prima avevamo letto: "Guardo indietro e mi confondo. / Un dubbio mi strizza l’occhio / e non sono sicuro che scherzi. / Sarebbe stato meglio il contrario: / che mia madre mi avesse insegnato / non a finire nel piatto per primo l’amaro / per gustare poi il premio del buono, / ma come affrontare da sazio / tutto l’amaro alla fine."


LA MADRE

La madre spera solo
che il figlio non si droghi,
che stia in salute e il lavoro non manchi,
che sia felice e possa avere
quello che non ha avuto lei,
vedere il mondo giovane
franco dalla povertà, insomma
una moglie, poi i figli di una vita
normale, le solite cose.
Era così difficile?


Quanto mi vergogno, e quante
volte non mi sono addormentato
con il naso tappato piangendo
chiedendo scusa a mia madre
in silenzio in un’altra città
addormentata dalla fatica,
di essere alla fine un infelice.


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