giovedì 23 giugno 2016

"faria" di Giusi Montali e Luca Rizzatello: più di un autore, ma meno di due

Al di là del titolo e dell'illustrazione, una gabbia capovolta e un uccello distante, la copertina di faria (volume curato da Maria Luisa Vezzali per Dot.com Press, pp. 76, euro 10, con una nota/depistaggio di Sergio Rotino) è curiosa per un altro motivo. Capiamo subito da questa di avere davanti un libro scritto "a quattro mani" - come si diceva anche quando si scriveva con una mano sola a penna, oggi l'espressione è forse più corretta - da Giusi Montali e Luca Rizzatello. Qua viene aggredito con un colpo il cardine dell'autorialità unica, univoca della poesia, una picconata (indiretta, o forse neanche tanto) al narcisismo che devasta qualsiasi discussione sulla poesia. La cosa strana è che il mito di Narciso sembra però giocato nella grafica, dal momento che i nomi dei due autori sembrano rispecchiarsi in una superficie d'acqua rispetto a un asse che corre sotto di loro, solamente che il risultato sotto quest'asse non è il nome riflesso bensì il nome dell'altro autore. Sono molte e notevoli le implicazioni che questa inusuale scelta autoriale porge a noi lettori di un libro di poesia siffatto. Ma che cosa accade in faria? Ce lo dice, meglio di qualsiasi altro discorso, la nota iniziale: "ci sono 56 testi, divisi in due sezioni di 28 testi ciascuna, a loro volta costituite da 14 testi fonte e 14 riscritture; la struttura rimanda al dispositivo della Vita Nova, in cui si alternano poesie e commenti; ma dove là i commenti presentano le ragionate cagioni, qui producono le ipotetiche conseguenze. Nella sezione L’agiografia umana i testi fonte sono di Luca Rizzatello, nella sezione Il signor kleck i testi fonte sono di Giusi Montali. La prima regola di faria è: c’è più di un autore, ma meno di due. La seconda regola di faria è: fare letteratura di evasione, ma in senso escapologico." La nota dice anche altre cose molto interessanti, ma per ora mi fermo qui, perché nel suo tono descrittivo in realtà pone più di qualche picchetto per le capanne sudatorie dei nostri ragionamenti. Scrivere note sensate in un libro di poesia non è un'attività facile - non credo sia nemmeno particolarmente gratificante - ma a volte all'autore/agli autori questo gesto riesce bene.

"Più di un autore, ma meno di due", appunto. Questo potrebbe essere destabilizzante per chi ha una certa abitudine a leggere poesia filtrandola sempre e comunque a partire dal nome dell'autore e dalla tirannia che questo esercita sul percepito, sulle aspettative, sulle delusioni ecc. Nel caso di faria sapere e non sapere così bene chi ha scritto cosa potrebbe insomma essere un'azione di disturbo alle nostre certezze in merito a teorie delle percezione e ricezione del testo letterario. Argomenti non più tanto di moda, si sa, ma pur sempre centrali se quello che ci interessa è la scrittura e non il côté-cotechino che attorno alla sedicente letteratura e paraletteratura s'affetta. Voglio dire che se qualcosa accade allora accade dentro la scrittura, in un libro pensato e progettato e non altrove, come troppo spesso verifichiamo. Da questo punto di vista, cioè quello di una virtù anonima della scrittura, faria è un congegno di critica dei meccanismi più incancreniti mediante i quali il tapis roulant delle patrie lettere pensa di muoversi. In realtà, e lo verifichiamo sempre più spesso, c'è ben poco movimento e avviene tutto per una malsana e per tanti versi inspiegabile cooptazione intragenerazionale che continua a tenere banco. Cui prodest? è la domanda da fare, soprattutto a chi è più giovane e si avvale di questa cooptazione.

La prima parte del volume, L'agiografia umana, riporta tutti titoli in inglese e si palesa come "affresco contemporaneo che oltrepassa ogni senso nazionale e nel quale la realtà studiata si apre all’immaginazione che permette, più di qualsiasi altro strumento, di indagarne gli aspetti anche meno evidenti e rivelarne le storture". Dispone via via sonetti di versificazione più breve a sinistra e di versificazione lunga a destra. Si registra un forte squarcio d'apertura, nelle immagini e nell'attingere a cespiti inediti (la Nigeria e Osaka possono fare capolino in un passo breve). Se usignoli stanno con tralicci di cementifici, vetri strisciati di littorine, sfrigolanti neon d'Autogrill, le radici dei limoni biancheggianti vivono con "fantasmi anoressici sulle stampe/ delle case da tè di osaka" negli "specchi di pagina" che messi insieme formano questo libro. A destra, il testo s'allunga e prende altre forme, direzioni, riparte da capovolte motivazioni, talvolta ricorrendo a determinati lessemi che si ripresentano, talvolta apportando una riscrittura pressoché totale. Ma è corretto dire che a destra troviamo una riscrittura dei testi fonte disposti a sinistra? Non penso che "riscrittura" sia la definizione più aderente a quel che accade. Vediamo un esempio di questo "specchio di pagina" nel testo intitlato "Dark roomances":

In nigeria i farmaci si fanno mescolando
l’acqua con i fiori e con la polvere di gesso
dentro i catini incrostati negli scantinati
le smorfie delle maschere rituali restano

l’unica cura contro il ceppo virale più
ostinato mentre fuori gli arbusti non si
possono nascondere tra i morsi della polvere
gli animali sono sbiancati per il sudore

nel dopopranzo non si muovono ma non stanno
mai fermi tremolano in preda ai vapori della
digestione nel silenzio infranto solo dai

kalashnikov nell’acqua dei catini si specchiano
il morso e le cinghie di cuoio dell’esorcista
il cigno ha il piumaggio bianco ma la carne nera.

-

in india ogni tre anni si è liberi dal ciclo terrestre:
né vita, né morte, l’elisir cade da un catino conteso
ai quattro angoli del paese le gocce svelano il regno
del sole, alla confluenza dei fiumi la purificazione

si trasmette per generazioni, mentre il sadhu si salva
individualmente e fa ritorno al cosmo, shiva fuma
con lui hashish e si ritrova sull’eminenza tanar delle
discrezioni: hegel ha torto, così preferisce la coincidenza

di pensiero e modus vivendi, si scopre gimnosofista
eremita del corpo nell’ascesi del silenzio, nell’imbuto
del bacino le voci percorrono il corpo mesmerizzato:

anche i topi sono sacri, nell’inconscio si ingravida
il ramo d’oro, i bambini e i cantastorie si sottraggono
alla morte e proseguono lesti un altro giro di vita

Mi sembra che questo testo sia in grado di reggere la complessità terribile dell'esemplificazione e di rendere l'idea di come funziona questo marchingegno di faria. Ma funziona? Non nel senso del verbo "funzionare" con cui si parla orribilmente della poesia in giro, ovvero riferendosi a quel "test sul testo" all'applausometro del pubblico nelle pubbliche letture. Non in quel senso funziona faria, per fortuna. Funziona semmai con diversa accezione del verbo, meno da playlist radiofonica insomma. Funziona nei moventi e negli esiti, funziona proprio lì dove accade, cioè nella scrittura, e persino in una ritrovata mimesi del mondo. Ritornando alla preziosa nota e alla parte in cui introduce la seconda sezione intitolata Il signor kleck, leggiamo che questa sezione sarà "la narrazione di un tentativo di analisi della realtà da parte di un soggetto e al contempo uno studio che un altro soggetto fa sul primo; è un monologo, ma anche un dialogo; è il tentativo di descrivere una serie di immagini talmente «informali» da modificarsi continuamente. Entrambe le sezioni intendono evadere da ogni preconcetto poetico e da ogni conformismo e in ciò siamo debitori all’abate Faria che ci ha ben istruito."


Quest'altro frammento riportato introduce allora altri due aspetti essenziali: la seconda sezione del libro, sulla quale presto arriveremo, e il personaggio da Il conte di Montecristo che presta il proprio nome al titolo del libro, quell'abate Faria impegnato nella fuga dalla sua cella nel castello d'If (ma nel dialetto, almeno in quello di Rizzatello, o nella lingua di Cecco Angiolieri, "faria" è anche il condizionale "farei-farebbe"). Di qui il richiamo alla volontà di fare letteratura d'evasione, ma in senso "escapologico" come chiude la già citata nota, in un'accezione magico-illusionista quindi. L'annosa questione della "letteratura d'evasione" è così risolta, in senso letterale, all'interno dello stesso circuito che ha creato, ricorrendo a un famoso personaggio che cercò la propria evasione (ecco allora che potremmo ritornare per un attimo alla copertina). Nella seconda sezione, laddove i testi fonte sono di Giusi Montali, è la centralità del verbo "vedere" a colpire, spesso nell'accezione "vedi" ma anche "vedilo", "vedila". Troveremo anche qui parole da linguaggi specialistici e settoriali, come quello medico o scientifico, ma anche di un rinnovato repertorio crepuscolare (una piccola campionatura potrebbe annoverare "diencefalo", "poltergeist", "linea di Kármán", "fibromi", "eritema", "aritmia", "narghilè", "entalpia", "verminazioni", "epistassi", "iperacusia"). Ecco quanto accade, sempre a esempio, nel componimento e nello "specchio di pagina" intitolato "prima tavola":


il sonno è una costellazione di dimenticanza
che nel vuoto ripete il codice in dotazione
attraverso lo spazio conosciuto e oscuro e
il tempo dilatato: si ampliano le arterie per
contenere l’aria attraversata, i piedi nella terra
la testa spinta in questo buco: nell’orizzonte
degli eventi la strada è un ago che perfora
dentro un nero che ingoia, verme di buio

-

sul visore c’è scritto manichino
perché non si confonda con gagarin
vedi la foto sul mar nero vedi
il francobollo eppure l’equipaggio
è quello di riserva oltre la linea
di kármán ecco la stazione in fiamme
il rientro il difetto nella valvola
dell’aria poi l’esposizione al vuoto

Le immagini "talmente informali" di cui è fatta questa seconda sezione, i moltissimi elementi inconsueti (anche geografici) che fanno questa sezione e l'intero libro spostano con una scossa il terreno su cui cammina la lettura e travolgono quell'immaginario poetico che ormai potremmo definire "medio" a favore di un progetto di scrittura che si apre, soprattutto in senso spaziale, a un flusso di percezioni divaricanti. Ed è forte la componente progettuale del libro - lo avete letto anche dalla nota - che fissa il perimetro della cella del possibile e i tunnel della fuga del nostro abate. La parte più interessante della bella nota di Sergio Rotino è dove precisa che "nello scrivere le poesie doppie, duali, bine, che compongono il progetto di questo libro, così come nel leggerle, ci troviamo sì per le scale di Escher, ma restando sempre in un sistema cartesiano di inizio-fine. Chi scrive (forse più di un autore, forse meno di due autori) vuole cioè cancellare preconcetti poetici e varie forme di conformismo poetico, affidando al lettore la propria fuga. Ma così facendo usa la carta, l’inchiostro, il libro e il verso. Quindi chi legge diviene momentaneo testimone dell’atto. Ne diviene anche complice spostando in avanti il limite con il proprio cercare nuovi paradigmi. [...]". Insomma, finalmente un "libro di poesia" e non solo un "quaderno di scritture", per provare a riassumere.

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