7x7 è
una rubrica articolata in regolari uscite metrico-stilistiche nell'arco di
sette venerdì e dedicate ad un libro. Come non piangenti è il libro di
poesia di Cristina Alziati, pubblicato da Marcos y Marcos nel 2011 nella
collana Gli Alianti, per il quale è stata scelta l'immagine emblema del
Vergesslicher Engel di Paul Klee. Le analisi sono tratte da un più ampio studio
di Alessandra Conte, dedicato a Cnp nel 2014.
“Rendetemi il mio ben” canticchierà
allacciata alle bocce della chemio,
insieme con Orfeo; ma ciclo
dopo ciclo si sfarà quel canto,
e il sole e gli inferi. A riveder le stelle
- gli dirà - trarre tocca sé seco.
Resta dov’è, Euridice. Ogni cosa
davvero succede, per sempre.
Il
testo introduttivo della sezione I
riccioli della chemio si apre con l’Orfeo di Monteverdi. La poesia, essendo
tutta un corsivo, sembrerebbe citazione unica essa stessa, dove una delle
citazioni nella citazione (al quadrato e, poi, al cubo) è riportata tra
virgolette. È così che si apre la parte più intrisa di biografia e dedicata
alla malattia, ricorrendo – verrebbe da pensare – alle altrui parole, visto
che, subito dopo, il testo intitolato con il numero 1 della serie di otto è costituito da una domanda volta proprio a
chiedere come e per quale voce si possa raccontare quest’esperienza. Dunque
l’inizio del racconto è segnato con una annotazione musicale preliminare che
introduce il quadro entro cui si dispiegherà tale voce, e l’aria di Orfeo
evocata ne evidenzia la carica di canto nel canto. Il titolo contiene i nuclei
sonori ( /ʧ/ e /k/ ) da cui sembrerebbe sdipanarsi quasi ogni verso del
corsivo, sorta di epigrafe in contrappunto con quella infernale sottesa – tra
l’Ade monteverdiano e l’Inferno dantesco. Il quadro è chiaro, ma emerge anche
una certa ariosità nei dettagli, un tono leggermente scanzonato a far da
contrappeso ai monumenti e alla densità. I riccioli
stessi, al posto dei comuni ricci, potrebbero richiamare l’immagine di tirabaci
civettuoli, se non fossero accostati alla chemio,
dissonante slang del quotidiano di chi ha a che fare con la malattia. L’Alziati
comincia il primo verso, endecasillabo tronco frazionabile in due unità
metriche tradizionali (un settenario ed un quinario entrambi tronchi),
canticchiando (anche qui la leggerezza) Monteverdi: è possibile canticchiare un
mostro sacro della vocalità? No, infatti: subito, al verso successivo, nella
stessa posizione finale ricorre a richiamo la parola chemio. Si scorgono le bocce
della chemio a cui la protagonista è allacciata,
nel secondo verso, anch’esso endecasillabo, il quale gioca sui ritorni fonici
della coppia formata dal suono /ʧ/ geminato, preceduto dal nucleo -ll- che ricorre quasi con regolarità anaforica
nel verso («aLLaCCiata aLLe boCCe deLLa chemio»). La costruzione di questa
prima immagine si presta ad alcune osservazioni d’ambito fonico-ritmico. Come
già detto, il primo verso risulta scomponibile in due parti, non solo in quanto
a classificazione versale, ma anche ritmica, poiché esse – considerando la
sequenza degli accenti principali – costituiscono due membri speculari, o
un’unità ritmicamente eseguibile sia da destra che da sinistra, in cui l’inizio
acefalo in levare è compensato e completato dall’esito tronco del verso. La
citazione iniziale tra virgolette permette di rilevare un impercettibile gioco
di catena sonora che si estende a legare le parole contigue nell’arco, poi, di
tutto il primo semiperiodo concluso dalla pausa medio-forte del punto e
virgola. I suoni /n/ e /m/ sono disposti tra le unità verbali a figura di
chiasmo sonoro, all’interno del quale si ripete allitterante la sillaba -mi-,
quasi a sottolineare la prima persona singolare («“ReNdeteMI il MIo beN”
caNticchierà»). La catena si lega tramite la consonante /n/ di beN
a caNticchierà, che contiene sia il
suono /k/ della parola chemio –
ricorrente anche nel titolo, oltre che nella stessa posizione finale al v.2 –
che la vocale /a/, sottolineata in quanto ultimo suono della parola ossitona a
chiusura del verso, e input nello sviluppo fonico del verso successivo, che si
delinea tripartito per suono e ritmo. L’endecasillabo al v. 2 si può
suddividere nelle seguenti frazioni isoritmiche: «allacciata-alle bocce-della
chemio», che presentano la stessa sequenza di tempi vuoti organizzati attorno
all’accento principale (∪ ∪
/ ∪
- ∪∪
/ ∪
- ∪ ∪
/ ∪).
I suoni concordano nella tripartizione, in cui ricorre, come già notato in
precedenza, il suono /l/ geminato che si divide tra i primi due tempi deboli.
Il verso sembra esplicarsi come un canto che si espanda tramite la vocale
centrale di massima apertura tra i primi due membri, chiudendo la parabola al
terzo, con lieve arretramento e chiusura con i suoni /k/ e /ɛ/. Da qui il raccordo tra i vv. 2-3 si attua con
un altro chiasmo sonoro tra «CHeMio / insieMe Con Orfeo» (in cui, tra l’altro,
la prima parte del v. 3 chiusa da punto e virgola è un settenario). I versi
appena analizzati trattano dell’autrice o del ricordo dell’immagine di lei al
futuro, un tempo che qui si colora di epicità, che narra però un’esperienza
conclusa ma compresente, in quanto visione del tempo passato. L’autrice è
insieme ad Orfeo ed è Orfeo, il canto stesso portato nell’Averno. E quell’allacciata risuona amoroso e scanzonato,
quanto mai fuori luogo o “luogo fuori”, oltre la disperazione. Ed infatti non è
un canticchiare quello di Alziati e Orfeo, è un vero canto, materico e legato anche alla fisicità del corpo, destinato
però a sfaldarsi nel tempo del percorso infernale che si definisce con la
ripetizione della ciclicità, pur spezzata in enjambement («ciclo / dopo ciclo»),
sembrando eterno, e al cui destino si aggiungeranno lapidariamente in
polisindeto «e il sole e gli inferi» (un quinario sdrucciolo); traducendo: luce
e buio, cieli e terra, mancanza di prospettive anche come polarità in positivo
o in negativo, ossia morte in vita. Così l’autrice come Orfeo manifesta la
propria condizione psicologica di morte in vita legata alla perdita di se
stessa, o almeno di una parte, come Orfeo della persona amata e che per questo
si è addentrato nel buio dell’oltretomba. Non casualmente nell’avversativa,
fino alla virgola al v. 4, si frange temporaneamente la regolarità precedente,
pur essendoci legame interno tramite la ricorrenza sonora di /ʧ/, /k/ e
l’allitterazione col suono /s/ («ma CiKlo / dopo CiKlo Si Sfarà quel Kanto»).
Fino a qui la citazione del frammento dal libretto dell’Orfeo suggerisce
implicitamente la presenza dantesca: il sottotesto utilizza per alcune parti lo
stesso metro della Commedia, da cui derivano anche il modello della guida del
viaggio agli inferi (Orfeo è accompagnato fino ad un certo punto da Speranza) e
l’ammonimento scolpito sulla soglia dell’Ade («Lasciate
ogne speranza, voi ch’intrate», in Inf. Canto III, v. 9). La presenza si
fa esplicita nella sentenza elegantemente articolata tra i versi 5-6 che – accanto
alla figura dell’inversione e alla forma del latinismo, quasi figura
etimologica, allitterante con il pronome personale sé – include nel montaggio un frammento ed un verbo dantesco, trarre, e che recita «A riveder le
stelle / […] trarre tocca sé seco.» (Inf. Canto XXXIV, v.139); dove le due
componenti dell’enunciazione si configurano, intervallate e spezzate
dall’inserto parentetico gli dirà,
come due settenari. Si tratta dell’ultimo verso dell’Inferno, ed il punto
fermo, l’unico dei quattro che ricorra in coincidenza con la fine del verso -
oltre a quello posto in chiusura del testo - sembra proporre una pausa più
lunga, suggerisce l’impressione di ulteriore silenzio rispetto agli altri. E se
non ci sono ulteriori personaggi ad accompagnare l’Alziati nel viaggio
metamorfico di morte e rinascita, Speranza però aleggia: qui l’autrice
sdoppiata si triplica interpretando Euridice – quella parte di sè che non potrà
ritornare alla luce dopo l’esperienza – ammonendo Orfeo / Alziati (che invece
riuscirà a praticare il viaggio iniziatico) con verbo dantesco (trarre) che, pur con gran fatica, è
possibile uscire dall’inferno (sebbene non nominato con parola comune, richiama
in paronomasia l’inverno della poesia
successiva, metafora della malattia e della trasformazione) e allegoricamente
contemplare di nuovo il cielo – ancora notturno ma stellato – presagio di luce
e “pura felicità dello sguardo”[1].
Il verbo indica la fatica di imprimere movimento – con la forza fisica o con
impulso interiore – a qualcosa o qualcuno tirandoselo dietro come uno
strascico. «Dal concetto di trazione si sviluppa l’idea del “condurre”, del
“guidare”, “del portare da un luogo ad un altro”, […] nel verbo è spesso
implicita la nozione che lo spostamento avvenga con stento, con sforzo, se non
addirittura “a forza”. In questo senso, trarre
ricorre di frequente con riferimento al compito di guida svolto da Virgilio in
favore di Dante; è anzi significativo che il verbo compaia in connessione con i
tre momenti centrali del viaggio dantesco: l'uscita dalla selva (If I 114 «sarò
tua guida / e trarrotti di qui per loco etterno»), l'incontro con Catone (Pg I
67 «Com' io l'ho tratto, saria lungo a dirti»), l'arrivo nel Paradiso terrestre
(XXVII 130 «Tratto t'ho qui con ingegno e con arte»; e si vedano inoltre If VI
40, Pg III 6, V 86, IX 107, XXIII 124). Per ulteriore determinazione semantica,
inoltre, contiene l’idea del “portar via”»[2]:
quindi, date le suggestioni appena esposte, per salvarsi occorrerebbe portarsi
fuori dagli inferi da sé. E allora si ripensa al titolo del libro e al tempo
che si è fatto breve, alla chiamata di responsabilità, a vivere quello che
rimane e ad attraversare la vita – qualunque siano le condizioni – come i
maestri delle tre Tracce suggeriscono
all’interno del libro. E ciò viene detto con voci d’uso letterario alto e
allitterante, come segno di poeticità, curando la compositio dei suoni, creando
omofonia interna tra le parole contigue. L’aria / recitativo si chiude con uno
sguardo ampio, nell’immobilità dei tempi compresenti nel per sempre, con un’Euridice che resta dov’è («Resta dov’è,
Euridice» – un ulteriore settenario), e una constatazione, che ogni cosa (l’ogni cosa da fermare tramite la
scrittura) succede veramente, in una realtà che stabilizza gli accadimenti come
impossibili da cancellare («Ogni cosa / davvero succede, per sempre.»).
[1] BIANCA GARAVELLI (a cura di), in Dante Alighieri, Inferno, Bompiani, Milano 1993, p. 501.
[2] ALESSANDRO NICCOLI, “Trarre”, in Enciclopedia Dantesca, 1970, http://www.treccani.it/enciclopedia/trarre_%28Enciclopedia-Dantesca%29/
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