giovedì 30 novembre 2017

"La mela nel buio" di Clarice Lispector. Un contributo di Ludovico Setten

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #39


Si propone di seguito un'analisi del libro La mela nel buio di Clarice Lispector pubblicato in italiano da Feltrinelli nel 1988 (pp. 307, traduzione di Renata Cusmai Belardinelli, libro fuori commercio). La prima edizione de A Maçã no escuro risale al 1961. L'autore del contributo è Ludovico Setten, del quale troverete una breve nota in fondo al post.

LA MELA NEL BUIOIL DELITTO COME NECESSITÀ PER LA CREAZIONE DI DIO

La mela nel buio è il quarto romanzo di Clarice Lispector, nonché il più lungo. È un’opera complessa e tratta una notevole varietà di temi: è la storia di un uomo chiamato Martim, che commette un crimine e fugge dalla città in cui vive. Vagando per la campagna, trova una fazenda dove inizia a lavorare sotto la supervisione della proprietaria, una donna di nome Vitoria, e di sua cugina, la giovane vedova Ermelinda. La storia di Martim è un’allegoria del mito della Creazione, di cui l’autrice analizza i diversi passaggi.
Innanzitutto, l’uomo si trova nella situazione di dover liberare se stesso da tutto ciò che lo incatena alla società in cui vive e per farlo deve intraprendere un’azione che non può essere accettata dal pensiero dominante: l’uomo deve commettere un crimine. Martim decide dunque di assassinare sua moglie, in modo tale da liberarsi dalle catene della società. Ma, come fa notare Benjamin Moser, uno dei principali estimatori e critici di Clarice Lispector, “I peccati di Martim sono neutrali.”[1] Il protagonista non si sente affatto colpevole per il suo crimine: perpetrandolo, egli perde ogni tipo di legame con il mondo convenzionale e in special modo con il suo linguaggio, spostandosi verso un mondo che può essere percepito come amorale. Martim è divenuto l’ombra di un uomo la cui unica colpa è di esistere; proprio ciò rappresenta il motivo per cui viene perseguitato. Una volta arrivato nella fazenda di Vitoria, Martim comincia a lavorare per lei, ritrovandosi in uno stato di quasi completa sottomissione nei suoi confronti e agendo automaticamente senza nemmeno pensare. Moser mette in evidenza come, in questo momento, Martim possa essere paragonato a una figura tipica del folclore ebraico, il Golem:

È vero che questa figura non può parlare ma può comprendere, a un certo livello, ciò che le si dice e comanda. È chiamato Golem ed è usato come servo per ogni tipo di lavoro casalingo: non può mai uscire da solo. Sulla sua fronte è scritta la parola Emet (Verità; Dio).[2]

Esattamente come un Golem, Martim non è in grado di parlare la “lingua comune”, perché sta cominciando a crearne una completamente nuova; come un Golem, inoltre, egli fa qualsiasi tipo di lavoro nella fazenda.

Le parole uccidono i sentimenti che esse stesse partoriscono. Il dire modifica il sentire. E così, esposti a un alternarsi di stati mutevoli che li incatenano a un flusso e un riflusso imprevedibile, i personaggi di Clarice Lispector sono più vittime che artefici di un’esperienza interiore che non sono in grado di controllare, e dove nulla vi è di permanente se non la passione di esistere che li accomuna.[3]

Le parole del filosofo brasiliano Benedito Nunes rappresentano esattamente il percorso di Martim verso la follia che, secondo Lispector, è l’unico modo attraverso il quale l’uomo può raggiungere il cosiddetto “stato di grazia”, arrivando dunque a conoscere i più sottili e complessi significati che il mondo in cui vive ha da offrire: in questo caso particolare, la follia è un “utile strumento per il raggiungimento della conoscenza, non un mezzo per l’autodistruzione. Eppure, proprio l’autodistruzione ne è il prerequisito.”[4] Attraverso l’autodisfacimento, Martim è in grado di guardare le cose da una diversa prospettiva, comprendendone il loro significato e cercando di descriverle attraverso il linguaggio degli uomini: ma egli non è più capace di esprimersi con questo idioma. Ci riuscirà solamente al termine del romanzo, quando sarà arrestato per il tentato omicidio della moglie.
Prima di ricordare il linguaggio, Martim deve ricrearsi, rinascere, e per fare ciò deve passare attraverso molteplici e distinte fasi: deve cominciare con identificare se stesso con altre parti del mondo.[5] Il personaggio comincia dunque a evolversi da una roccia a una pianta, a un topo, a una mucca, a un cavallo e, infine, diventa un uomo. Ecco cosa “trovare un linguaggio” significa per Clarice Lispector: “il simbolo della cosa nella cosa stessa”.[6] Martim, tornato ad essere uomo, rinato, deve riscoprire i simboli del linguaggio, in modo tale da raggiungere la vera essenza delle cose.

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.[7]

Questo passaggio tratto da San Giovanni rappresenta il punto di ispirazione di Clarice Lispector per la stesura di La mela nel buio. In questo passaggio delle Sacre Scritture si può apprendere ciò che Martim deve compiere: creare Dio attraverso il linguaggio, trovando la singola parola che a dà vita a Dio, la parola nascosta che egli non riesce a pronunciare e che è la causa del suo conflitto interiore. “Il nome è un simbolo di Dio ed è Dio, il simbolo della cosa nella cosa stessa.”[8]
Il protagonista riesce a creare Dio attraverso il linguaggio – Dio è anche identificato con il linguaggio – e, con tale creazione, è finalmente in grado di redimersi. Moser scrive: “Il momento in cui Martim inventa Dio è il momento in cui riesce finalmente a comprendere la natura del suo crimine: ‘Ho ucciso, ho ucciso, confessò infine.’ Senza Dio, anche senza un Dio artefatto, non ci può essere il peccato.”[9] Il peccato è la parte più cruciale nella strada che conduce all’autodistruzione, rappresenta “l’accesso traumatico alla verità, successivo a una morte simbolica, insomma alla cancellazione violenta e definitiva della vecchia identità naturale.”[10]
Martim, però, confessando il suo crimine, fallisce nel suo tentativo di divenire ciò che veramente vuole essere, rimanendo bloccato nell’essere solo un uomo, restando incompleto. Egli non è in grado di adempiere alle sue aspettative e perciò si ritira nel mondo da cui proviene: il cambiamento sussiste nel fatto che ora, nel mondo, egli è considerato un criminale che deve essere punito, pagando tributo alle leggi della società. Martim è bloccato tra la “conversione” a un linguaggio puro e nuovo e il suo vecchio idioma, quello comune, in grado di definire le sue azioni, come il crimine.

Il protagonista de La mela nel buio può, sotto molti aspetti, essere paragonato a Smerdjakòv, uno dei protagonisti de I fratelli Karamàzov di Dostoevskij. Smerdjakòv è il figlio illegittimo di Fëdor Pavlovic e lavora per lui e i suoi fratellastri Dmitrij, Ivàn e Alekséj. Egli si ritrova continuamente disprezzato e perseguitato dalla maggior parte delle persone che lo circondano. Anche lui, al pari di Martim, può essere comparato a un Golem, in quanto rappresenta una figura che obbedisce ed esegue gli ordini che gli vengono impartiti in modo da guadagnarsi la fiducia del padrone.
Smerdjakòv, esattamente come Martim, è “colpevole di esistere”. Egli cresce ascoltando le teorie filosofiche di suo fratello Ivàn, da cui resta fortemente influenzato:

Se vi è qualcosa anche al nostro tempo che tuteli la società e redima il criminale stesso, trasformandolo in un altro uomo, è solo e sempre la legge di Cristo, che si esprime nel riconoscimento della propria coscienza. Solo riconoscendo la propria colpa come figlio della società di Cristo, cioè della Chiesa, riconosce anche la propria colpa dinanzi alla società stessa, cioè dinanzi alla Chiesa.[11]

Martim e Smerdjakòv si riconoscono come colpevoli di esistere e, per liberarsi, decidono di commettere un omicidio: Martim sceglie di assassinare sua moglie; Smerdjakòv suo padre. Ancora una volta, il delitto è l’unica possibilità che il personaggio creato da Dostoevskij trova per liberarsi, poiché “il delitto non solo deve essere lecito, ma persino riconosciuto come la più intelligente via d’uscita, la sola necessaria per ogni ateo!”[12]
All’inizio de La mela nel buio, Martim è un uomo senza Dio, perché non è ancora riuscito a crearlo; Smerdjakòv è un ateo, esattamente come suo fratello Ivàn. La somiglianza tra questi due personaggi salta all’occhio in maniera piuttosto evidente. Smerdjakòv vive in un mondo le cui leggi affermano che “tutto è permesso”[13]: in un mondo senza Dio, dove regna l’amoralità e in cui “tutto è permesso”, avviene così una legittimazione del crimine, visto come elemento necessario alla liberazione dell’individuo dalla “colpa di esistere” e, nel caso di Martim, alla creazione di Dio. Le storie dei due personaggi, però, si dirigono entrambe verso il fallimento: Smerdjakòv , poco dopo aver confessato il suo delitto al fratello Ivàn, che considerava come “la mente” di tutto ciò, commette suicidio. Per lui, la salvezza e la redenzione si rivelano impossibili.

Un altro interessante paragone può essere quello tra Martim e Ivàn. Il primo, uccidendo sua moglie, uccide se stesso e tutto ciò che ha in comune con la società, decidendo in questo modo di guardare da un’altra prospettiva, distruggendo il riflesso di ciò che era prima. Il secondo agisce invece con delle modalità del tutto diverse, quasi inconsciamente, avendo però in mente lo stesso obiettivo: distruggersi per rinascere come un uomo nuovo. Ivàn vede un riflesso di sé in suo padre e decide di eliminarlo, poiché riconosce che quella parte di sé è in profonda relazione con la società in cui vive, società che egli disprezza e aborre. Tuttavia, Ivàn non commette il crimine: pensa solamente di assassinare il padre, ma, quando si tratta di perpetuare l’atto omicida, egli si tira indietro. Il solo pensiero di assassinare il padre è però sufficiente per fargli raggiungere lo “stato di grazia” in cui si ritrova anche Martim: la follia. Ivàn infatti, una volta che Smerdjakòv gli confessa di aver ucciso Fëdor Pavlovic, scivola velocemente nella pazzia: si rende conto che anche solo il pensiero dell’omicidio è, in sé, un crimine. Esattamente come per Martim, lo “stato di grazia” della follia consente a Ivàn di vedere le cose per quello che sono veramente, rendendolo capace di comprendere l’essenza del mondo, ma contemporaneamente impedendogli di comunicare ciò che vede e conosce: il linguaggio che egli ha raggiunto non è più umano e, di conseguenza, non può essere compreso dagli uomini. Le rivelazioni di cui egli si fa carico non possono essere capite dagli altri, che considerano il farneticare di Ivàn solamente come sintomo di sopraggiunta pazzia e malattia mentale. Qui sta infatti la differenza tra il mistico e il folle: il primo è in grado di ricordare il suo viaggio attraverso lo “stato di grazia” e, soprattutto, di raccontarlo agli altri; il secondo ne è invece incapace.
Sia Martim che Ivàn finiscono con il rimanere folli, incapaci di usare il linguaggio dell’uomo per esprimere scoperte che non sono umane. Un interessante passaggio ne I fratelli Karamàzov, in cui Ivàn tiene una conversazione con un uomo identificato come il Diavolo, spiega il senso di mistico e “magico” che il viaggio attraverso lo “stato di grazia” include:

“Non ti ho preso per una realtà neanche per un istante” gridò Ivàn quasi furente. “Tu sei una menzogna, la mia malattia, un fantasma. Solo che non so come distruggerti e vedo che devo soffrire per un po’ di tempo. Sei la mia allucinazione. Sei l’incarnazione di me stesso, però di un mio lato soltanto… dei miei pensieri e dei miei sentimenti, ma solo dei più meschini e stupidi. […]” […]
“Ripeto, modera le tue pretese; non pretendere da me ‘il grande e il sublime’ e vedrai come vivremo amichevolmente” disse gravemente il gentleman. “In verità, ti arrabbi con me perché non ti sono apparso in una nube rossa, ‘tuonante e abbagliante’, con ali infuocate, ma mi sono presentato sotto un aspetto tanto modesto. […]”[14]

Martim, proprio come Ivàn, non può comunicare ciò che ha imparato perché non riesce a esprimerlo attraverso un linguaggio umano, dato che ciò che ha appreso non è di umana natura: Dio non è umano e, pertanto, è estremamente complesso testimoniarne l’esistenza tramite l’utilizzo di umana favella. Questo è proprio il motivo per cui Martim fallisce: confessando il suo delitto alla polizia, egli si ritrae nuovamente verso il mondo delle convenzioni umane, dove il Dio che ha appena scoperto non esiste e in cui le azioni che gli hanno consentito di trovarLo sono considerate come criminali e, quindi, da punire.

Tuttavia, un’altra domanda deve essere posta: Martim è perseguitato e ricercato solamente a causa del crimine che ha commesso? René Girard, ne Il capro espiatorio, mette in evidenza alcune delle caratteristiche tipiche di persone che sono oggetto di persecuzione:

Accanto ai criteri culturali e religiosi ve ne sono di puramente fisici. La malattia, la follia, le deformità genetiche, le mutilazioni accidentali e perfino le infermità in generale tendono a polarizzare i persecutori. […]
L’infermità s’inscrive in un insieme indissociabile di segni vittimari, e in certi gruppi – un internato scolastico, per esempio – ogni individuo che prova delle difficoltà di adattamento, lo straniero, il provinciale, l’orfano, il figlio di famiglia, lo squattrinato o semplicemente l’ultimo arrivato, è più o meno intercambiabile con l’infermo.
Quando le infermità o le deformità sono reali, tendono a polarizzare gli spiriti ‘primitivi’ contro gli individui che ne sono afflitti. Parallelamente, quando un gruppo umano ha preso l’abitudine di scegliere le sue vittime in una certa categoria sociale, etnica, religiosa, tende ad attribuire a questa categoria le infermità o le deformità che rafforzerebbero la polarizzazione vittimaria se fossero reali.[15]

La follia e la diversità, dunque, di pari passo con l’aspetto fisico, rappresentano segni di persecuzione; la stessa analisi può essere effettuata per spiegare la persecuzione di cui è vittima Smerdjakòv ne I fratelli Karamàzov. Sia Martim che Smerdjakòv sono perseguitati anche per via della loro condizione sociale[16], fattore assolutamente non secondario dato che, agli occhi dei persecutori, le vittime sono percepite come diverse. Il diverso crea uno stato di crisi (qui intesa nel suo senso originale: dal greco krisis, ovvero separazione, divisione, scelta, giudizio) e viene dunque trasformato dai persecutori in un capro espiatorio, al fine di risolvere i problemi di cui teoricamente è l’origine.
Arrestando Martim, Vitoria, Ermelinda e tutti gli altri decidono di eliminare il diverso, tornando alla situazione di presunto equilibrio in cui si trovavano prima del suo arrivo, rifiutando di evolversi: Martim diventa dunque lo strumento per giustificare la loro inattività, la loro staticità. La mela nel buio è, dunque, un libro che parla del fallimento e dell’incapacità di comunicare dell’umanità.

La mela nel buio non è solamente un romanzo sulla ricerca di Dio: descrive ed analizza il percorso che un uomo intraprende per raggiungere la propria identità.

Ma come facciamo a produrre la nostra identità, la nostra distinzione, se non attraversando ciò che noi non siamo, e cioè quindi se non ponendoci in relazione, riflettendoci con ciò che non siamo? A non è non A. Per produrre, per conquistare – se volete – la nostra identità noi dobbiamo lavorare in relazione, mediandoci costantemente con ciò che noi non siamo, riconoscendo ciò che noi non siamo per poterci conoscere. Non c’è nessuna identità nostra prima di questa fatica, prima di questo lavoro.
Noi ci produciamo individui, non nasciamo individui. […] Noi tendiamo a pre-supporre la nostra identità, e poi eventualmente accade che ci sia la relazione di A con altro da sé: io sono io, e poi mi accade forse di conoscere altro da me. […] In fondo, che cosa significa il logos eracliteo che va ascoltato per sfuggire all’idioma dell’idiòtes[17] […]? Cos’è quest’appello eracliteo all’ascolto? […] La vera identità si produce attraverso l’ascolto di qualcosa che non è già implicito nella nostra, appunto, idiota individualità. La nostra identità si costruisce nel confronto e nell’ascolto con una dimensione che è altra rispetto al nostro idioma privato: e finchè restiamo nell’ambito del nostro idioma privato siamo come dormienti, che non ascoltano il cum[18], poiché la nostra identità si determina soltanto nel cum, che è questa dimensione dell’ascolto: quando ascolto io sono ciò che ascolto.[19]

Molte somiglianze tra le parole di Cacciari e il comportamento di Martim possono essere trovate. Innanzitutto, si può notare come il protagonista, una volta commesso il crimine, e dunque dopo essere rinato, è in continua ricerca della sua identità: identità che non è nata con lui, ma che deve essere costruita lentamente e pazientemente, passo dopo passo, tramite la comparazione con ciò che egli sente non essere lui. Come detto in precedenza, Martim cerca di identificarsi con una varietà di cose: una roccia, una pianta[20], un topo, una mucca e un cavallo. Infatti, il primo pensiero del protagonista dopo la sua rinascita è: chi sono? Ovviamente Martim non è nato con la risposta, la deve cercare, analizzando le cose che lo circondano e comprendendo se può avere un rapporto di comparazione con loro. Ecco perché egli comincia ad ascoltare tutto ciò che lo circonda, cerca di identificarsi con ogni cosa per capire se è effettivamente come quella determinata cosa. Una volta constatata la diversità che lo distingue dai termini di paragone, Martim arriva alla conclusione di non essere né una roccia, né una pianta, né un topo, né una mucca, né un cavallo: egli è finalmente un uomo.[21]
Clarice Lispector ha compreso molto bene questo meccanismo, e ne è completamente consapevole: non è infatti un caso che la prima parte del romanzo sia intitolata “Come si fa un uomo” e la seconda “Nascita dell’eroe”. Quella di Lispector non è infatti solo una scelta stilistica: l’autrice è completamente conscia dell’importanza espressiva e specifica delle parole; sa molto bene quanto arduo e tortuoso sia il cammino che conduce all’identità e, in quest’opera straordinaria, riesce nell’intento di sottolineare e descrivere i vari stadi che l’essere umano deve attraversare per trovare e capire ciò che veramente è, diventando, infine, un individuo. Solo tramite la costruzione di un idioma, e dunque attraverso la comparazione con ciò che si percepisce come diverso, è possibile per l’uomo raggiungere la piena individualità, l’identità.


Bibliografia

· Bloch, Chayim. The Golem: Legends of the Ghetto of Prague. Vienna: The Golem, 1925

Cacciari, Massimo. “Identità e alterità”. Conferenza tenutasi a Montebelluna, Italia, il 2 febbraio 2002: https://provedivolo.files.wordpress.com/2012/09/identitc3a0-e-alteritc3a0-massimo-cacciari.pdf

· Dostoevskij, Fëdor. I Fratelli Karàmazov. Milano: Arnoldo Mondadori Editore, 1994

· Girard, René. Il Capro Espiatorio. Milano: Adelphi Edizioni, 1987

· Lispector, Clarice. Vicino al Cuore Selvaggio. Milano: Adelphi edizioni, 2003

· Lispector, Clarice. La Mela nel Buio. Apparso in: Lispector, Clarice. Le Passioni e i Legami. Milano: Giangiacomo Feltrinelli Edizioni, 2013

· Moser, Benjamin. Why This World. A biography of Clarice Lispector. Londra: Penguin Books Ltd, 2014

· Nunes, Benedito. “Dalla concezione del mondo alla scrittura”. Rivista di Cultura Brasiliana – Clarice Lispector: la parola inquieta. Roma: Ambasciata del Brasile a Roma, 2013

· Trevi, Emanuele. “Sola come Clarice”. Apparso in: Lispector, Clarice. Le Passioni e i Legami. Milano: Giangiacomo Feltrinelli Edizioni, 2013




[1] Benjamin Moser, “Redemption through Sin” in: Why this World, (2014, Penguin Books Ltd, Londra), 219. La traduzione dall’inglese all’italiano delle citazioni dalle opere di Moser è mia.
[2] Jacob Grimm, citato in: Chayim Bloch, The Golem: Legends of the Ghetto of Prague, 26-27, a sua volta citato in: Benjamin Moser, “Redemption through Sin”, in: Why this World, 229
[3] Benedito Nunes, “Dalla concezione del mondo alla scrittura”, in Rivista di Cultura Brasiliana – Clarice Lispector: la Parola Inquieta, (2013, Ambasciata del Brasile, Roma), 22
[4] Benjamin Moser, “Redemption through Sin”, in: Why this World, 219
[5] È di fondamentale importanza, al fine di comprendere questo passaggio, considerare il notevole apporto che la filosofia di Spinoza ha avuto su Lispector, in particolar modo i passaggi riguardanti l’identificazione di Dio con la Natura, tema fondamentale nella poetica dell’autrice brasiliana.
[6] Clarice Lispector, Vicino al Cuore Selvaggio”, (2003, Adelphi Edizioni, Milano), 45
[7] San Giovanni, (1, 1-3) in: Sacra Bibbia (Conferenza Episcopale Italiana)
[8] Benjamin Moser, “Redemption through Sin”, in: Why this World, 226
[9] Ibid., 228
[10] Emanuele Trevi, “Sola come Clarice”, in Clarice Lispector, Le Passioni e i Legami, (2013, Giangiacomo Feltrinelli Edizioni, Milano), 12
[11] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamàzov, (1994, Arnoldo Mondadori Editore, Milano), 90-91
[12] Ibid., 98
[13] Ibid., 873
[14] Ibid., 881, 895
[15] René Girard, Il capro espiatorio, (1987, Adelphi Edizioni, Milano), 37-38
[16] “Al limite, tutte le qualità estreme sono quelle che attirano, di tanto in tanto, i fulmini collettivi: non soltanto gli estremi della ricchezza e della povertà, ma anche quelli del successo e dell’insuccesso, della bellezza e della bruttezza, del vizio e della virtù, del potere di seduzione e del potere di essere sgradevoli; è la debolezza delle donne, dei bambini, dei vecchi, ma è anche la forza dei più forti che diventa debolezza davanti al numero. È abbastanza regolare che le folle si rivoltino contro quelli che hanno esercitato su di loro un ascendente eccezionale.”
Ibid., 39
[17] Qui le parole idioma e idiota vanno intese nel loro senso originale: dal greco idiòma e idios, che significano rispettivamente caratteristica specifica e uomo privato e, dunque, opposto di uomo pubblico, che non è esperto.
[18] Attenzione al significato completo del termine latino cum: significa sia con, insieme a e contro.
[19] Questo passaggio è tratto da una conferenza intitolata “Identità e alterità”, tenuta dal filosofo Massimo Cacciari a Montebelluna il 2 febbraio 2002. Si può trovare in formato PDF all’indirizzo: https://provedivolo.files.wordpress.com/2012/09/identitc3a0-e-alteritc3a0-massimo-cacciari.pdf
[20] “E là era bello. Là nessuna pianta sapeva chi era lui; e lui non sapeva chi era lui; e lui non sapeva quello che erano le piante; e le piante non sapevano quello che erano loro. Eppure tutti erano così vivi quanto si può essere vivi: probabilmente era questa la grande meditazione di quell’uomo. Come il sole brilla e come un topo è soltanto un grado più in là della grossa foglia piatta di quella pianta – questa era la sua meditazione.” In: Clarice Lispector, La Mela nel Buio, in Le Passioni e i Legami, 200.
[21] “Oscuramente, si turbava perché cominciava a sentirsi superiore alle piante, e perché si sentiva in un certo senso uomo se rapportato ad esse.” Ibid., 201.


Ludovico Setten è nato a Treviso nel 1994 e si è laureato in Lingue, Civiltà e Scienze del Linguaggio presso l'Università Ca' Foscari - Venezia. Le lingue e letterature comparate, europee ed extraeuropee, sono diventante l'area disciplinare privilegiata dei suoi studi universitari. Il suo ambito di ricerca spazia dalla letteratura in lingua inglese, francese, spagnola e portoghese. In questo momento frequenta il corso di laurea specialistica in Francesistica presso l'Università Ca' Foscari - Venezia.

Nessun commento:

Posta un commento