Quando si affronta un libro acclamato e forse atteso come Let Them Eat Chaos / Che mangino caos di Kate Tempest (edizioni e/o, pp. 160, euro 14, traduzione di Riccardo Duranti) c'è il rischio di dire, soprattutto se si è un po' invischiati negli accadimenti poetici nostrani o nelle zuffe social o private volte a definire il colore del latte poetico: vediamo cosa succede altrove con la poesia, o quantomeno con quanto si spaccia come tale, vediamo se è dappertutto un po' sfigata, sentiamo cosa combina una rapper e poeta che pare mettere d'accordo la critica letteraria e musicale, vende benone nel Regno Unito, fa il pienone dove va ed è apprezzatissima per produzioni musicali come Everybody Down e lo stesso Let Them Eat Chaos, che magari abbiamo già ascoltato su Youtube o Spotify. Insomma, c'è il rischio di applicare sciatti criteri di sociologia della letteratura o di economia della cultura comparata o principi di analisi del benchmark poetico e via così. Sarebbe un approccio sbagliato che ricalcherebbe l'andamento schizoide tipico di moltissime discussioni sulla poesia, nelle quali con disinvoltura allucinante si passa dal tecnicismo metrico ai 4 gatti presenti alle presentazioni di poesia oppure dalle speculazioni sui recinti delle diverse aree geografico-estetiche di influenza alle difficoltà commerciali in cui versa il genere, il tutto con una naturalezza spaventosa che è spia solo del gran casino o delle velleità tronfie che montano in testa quando cerchiamo di soverchiare con una parola definitiva. Sarebbe un approccio sbagliato a monte e ne conseguirebbero conclusioni dopate o viziate anche a valle: un simile movente della lettura ovviamente esiste ed è assai diffuso, ma non può essere adottato come viatico per avvicinare il lavoro di qualcun altro. Inoltre, il circuito e la fruizione del lavoro di Tempest non è confrontabile con il carosello di festival e letture di poesia ai quali siamo abituati qui, sono due mondi lontani e non possiamo paragonare mele con pere ma nel caso, e solo se vale la pena e la pera, pere con pere o mele con mele (l'immagine del frutto deve rinviare alla necessità di un pensiero sulle forme e sui generi letterari). Non aiuta infine, e ci torneremo tra poco, la scissione di comodo e in fondo meramente promozionale che pare si sia posta tra poesia di ricerca da un versante, la quale si esprimerebbe preferenzialmente in certi ambiti librari, e spoken music e tutto il circuito della slam poetry dall'altro versante. È opportuno superare questa secca del ragionamento e questa scissione poco prensile e poco utile (a tutti). La fascinazione definitoria e teorica può essere utile, spesso diventa indispensabile, ma può essere altresì accecante e nel caso della poesia, se spinta in discussioni sterili, può diventare paralizzante per la prassi.
C'è da dire una cosa, prima di tutto: "l'immagine sociale" della poesia nel Regno Unito è diversa da quella che ha in altri paesi, Italia compresa (così come il pensare al "romanzo" in Francia non si può far combaciare con il pensare al "romanzo" a Milano, Firenze, Roma, Napoli ecc.). Questo importa? Un po' credo importi, almeno se si vuole fare qualche riflessione che vada oltre la lettura, e immagino che questa "immagine sociale" diversa possa avere dei precipitati massicci nei modi in cui ci palleggiamo le cose da leggere. Inoltre - e non andrebbe mai dimenticato - c'è anche un ragionamento di natura linguistica che si potrebbe abbozzare: l'italiano, editorialmente parlando (finché si parla di libri in commercio si parla anche di quel settore economico che si chiama editoria, stampiamocelo in testa), è come noto una lingua minoritaria. A prescindere dai dati sulla lettura, dati spesso sconfortanti per i più, c'è da aggiungere che la lingua italiana è una lingua marginale rispetto a una lingua che può, almeno in linea teorica, ambire di essere letta o leggiucchiata da un pubblico mondiale davvero vasto. Questo discorso non entra nella qualità e nel merito della critica - sappiamo infatti quali poeti in dialetto si siano espressi in Italia e mi risulta che la Slovenia stia esprimendo poesie interessanti da tempo - ma credo serva ricordarlo ogni tanto, perché i piani dei nostri ragionamenti purtroppo slittano continuamente ed è difficile tenere salde le redini di un'analisi, di una recensione, di un invito alla lettura o di una stroncatura.
Tornando all'inglese che può ambire di essere letto da più persone, ecco che nel frontespizio del libro di Kate Tempest, sotto il titolo, si trova l'invito a leggere il testo "ad alta voce". Provando a leggerlo ad alta voce ci accorgiamo di che cosa può cambiare proprio nella lingua originale. Sembra buffa questa raccomandazione del frontespizio ma, a ben pensarci, un bambino può farci riflettere e disarmarci, chiedendo con noncuranza "come si fa a leggere muti?" (e mi ricordo che da piccoli c'era la distinzione tra leggere ad alta voce e leggere a mente o col pensiero, per dire la lettura silenziosa, il tipo di lettura che forse va per la maggiore ovunque). Ed ecco anche che la traduzione di Riccardo Duranti - definita "magistrale" nel risvolto, ma quantomeno discutibile in alcuni passaggi - è accompagnata dal testo originale di Kate Tempest. Tutto ciò appare come un invito più caldo a provarla questa fantomatica lettura a voce alta, ricorrendo alle nostre conoscenze più o meno probabili dell'inglese. Per restare su ragionamenti planetari, verso i quali ci sospinge questo libro differentemente da tanti altri libri di poesia, un altro ragionamento si può fare anche sulla copertina, opera di Peter Kennard e Harris Elliott, e sul titolo dell'edizione italiana: per questi si è scelta la via della conservazione, dal titolo in originale accompagnato dalla traduzione in italiano in corpo minore, fino all'immagine di copertina dell'edizione Picador Poetry. Questo fatto, oltre ad accorciare i tempi di produzione di una edizione tradotta, dice qualcosa sulla volontà di un progetto di presentarsi in più luoghi con la stessa configurazione. È questo un dato produttivo ed estetico da considerare. Poi possiamo fare tutti i ragionamenti che vogliamo e sempre grande è la tentazione, dai nostri pulpiti, di accodarci a qualche hype planetario oppure di combatterlo con commenti sprezzanti e raramente argomentati. Prendere però atto una buona volta di diverse logiche di produzione degli "spettacoli", compresi quelli degli impresari poetici, forse aiuta (e aiuta tutti).
Let Them Eat Chaos / Che mangino caos è impaginato come una partitura, i versi si spacchettano e si impacchettano di continuo, ora lunghi o brevissimi e fluttuanti. Questo per stare alla pagina. Ma non è solo nella pagina che questa poesia accade, anzi, come ha dichiarato qui l'autrice "un poema sulla pagina non è finito finché qualcuno non lo legge". Cose ben note, si sa. Si svolge altrove il poema, sicuramente, e il libro così impaginato è solo uno degli assi in cui l'opera è veicolata. Ed è questo un punto abbastanza importante, se vogliamo tornare alle premesse iniziali: la poesia di Kate Tempest appare particolarmente veicolabile, può interessare e coinvolgere perché sa toccare dei nervi scoperti e visibili nel loro essere scoperti, in particolar modo il nostro rapporto con il pianeta; sembra infine l'inverso di qualsiasi ermetismo, una provocazione lanciata alla scarsa memorabilità di certe scritture cosiddette di ricerca che sembrano progettate appositamente per fuggire la memorabilità, quando le vicende della poesia sarebbero così invischiate con la memoria (e l'epica?). Eppure non manca la capacità di evocare o offrire degli appigli per più interpretazioni del testo, attivando qualcosa di elettrico nel cervello, gradini di accadimenti che complicano tra l'altro il compito dei traduttori. La lettura di un testo poetico o di un romanzo, il loro ascolto oppure la visione di un'opera di teatrodanza si devono accogliere anche come attivatori psichici di immagini visive e acustiche. In fondo succede tutto là dentro, tra le ossa e la pelle, e i due sensi attivati restano essenzialmente due, quantomeno per chi fruisce. I riferimenti e le immagini che dispone questa poesia sono lì, chiari, nella situazione mondiale e nazionale, personale e collettiva del mondo scollato e disperato di cui scrive e parla Tempest. La scissione che sembra si stia creando (o che si vuole artatamente creare) tra poesia e libro di ricerca vs. poesia orale è solo di comodo e non sta portando da nessuna parte, rischia di essere solo lo scenario che si installa in un panorama di desolante pigrizia estetica, in totale assenza di spinte impegnate a innescare una riflessione estetica sul fare poesia che sia degna di quell'etichetta. A me pare che una poesia assommi su di sé tutte le scissioni che le si possono imputare oggi per comodità, ma parimenti le rifugga, in una sua strafottente e disciplinata anarchia. Chi legge e anche chi ascolta l'opera di Kate Tempest è accompagnato dalla parola, sin dagli inizi, e quindi trascinato in un gorgo la cui nota preminente appare la disperazione (di qui, anche, la copertina). Ad un livello autoriale, Tempest ha fatto parlare di sé dopo aver criticato lo "snobismo intellettuale" dei poeti e questo è un dato che può avvicinarla come allontanarla. Del resto lei, come molti di quelli che scrivono, non è esente da un'operazione di personal branding, altrimenti detta operazione di costruzione del marchio autoriale. Un altro aspetto che ce la può far sentire vicina o lontana è la stanchezza da lei denunciata per il solito conflitto montato ad arte tra performance-esecuzione e poesia scritta. Sono temi che stanno arrivando anche da noi, o, meglio, sono già arrivati da un pezzo, ma forse non ancora a un livello tale da far evolvere il dibattito. In tal senso Let Them Eat Chaos potrebbe costituire un qualche spunto per future discussioni o tavole rotonde, sempre che valga la pena affrontarne di nuove.
Un appunto finale è di natura linguistica: l'inglese che usa Kate Tempest è avvicinabile anche da chi ha una conoscenza di quel trito international English che va per la maggiore nel globo; simultaneamente prova però a mostrare in quali paludi ristagni quella lingua franca che avvolge l'atmosfera come una pellicola di plastica trasparente combusta in un'opera di Alberto Burri. Potrebbe essere quest'ultimo uno degli aspetti più degni di attenzione e più curiosi. E la lettura ad alta voce, di cui si scriveva poco sopra, potrà mostrare i continui tagli e gli agglutinamenti prosodici. Let Them Eat Chaos / Che mangino caos è quindi una lettura che, considerato il notevole battage su Tempest, potrebbe inevitabilmente convincere o deludere. Qui non avete trovato né un elogio né una stroncatura perché né l'una né l'altra strada mi sono parse perseguibili e mi dispiace notare che una strategia critica tra le più semplici e consolidate rimanga quella di innalzare gli sconosciuti e abbassare la cresta a chi ha successo, in un meccanismo critico in cerca di una visibilità comunque parassitaria. A me sembra, più che altro, che la considerazione di quest'opera potrebbe risollevarci dai tanti piagnistei che toccano lo stato della poesia, compreso quello in cui versa o verserebbe nel nostro paese, invitandoci a sperimentare nuove soluzioni, progetti e persino nuovi allestimenti scenici (la sperimentazione insomma non è solo nella scrittura). Semmai c'è il rischio che quella di Kate Tempest ci appaia come una proposta che ci sposta poco oltre il già noto in un discorso di poetica e immaginario, anche sociale, che mette in campo; tuttavia il suo restare nell'alveo del noto produce comunque un effetto perturbante che può avere delle conseguenze all'interno delle nostre teste, in quell'elettricità che si produce tra le ossa del cranio quando leggiamo, ascoltiamo, guardiamo. L'invito a continuare a scrivere, sperimentare e essere vigili sulle forme vale e ne esce rafforzato dalla lettura di questo libro, senza certezza di nulla. Il Sapientino lasciamolo pure alla Clementoni, ché tra poco è Natale. Clem-clem.
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